Lo spazio dedicato alle interviste nasce con l’obiettivo di approfondire alcuni argomenti attraverso la voce degli esperti.
Osvaldo Danzi, recruiter, fondatore della community FiordiRisorse e editore di SenzaFiltro, ha accettato il mio invito a confrontarsi con me sul tema delle Umane Risorse.


1) Quando hai capito di voler lavorare nell’ambito delle Risorse Umane (che tu chiami Umane Risorse)? C’è stato un episodio specifico che ti ha fatto comprendere quale sarebbe stata la tua direzione in campo professionale?

Si è trattato di un percorso estremamente graduale e coerente, quanto inaspettato. Non ho avuto nessuna vocazione, illuminazione o colpo di fulmine. Mi ci sono trovato “nel mezzo” quando ho capito che mi piaceva lavorare con le persone e di avere la capacità di capire le situazioni.

Le mie prime esperienze lavorative post-universitarie le ho vissute nei villaggi turistici, dove ho passato 7 anni a stretto contatto con i tipi di persone più difficili: i turisti. Sono fermamente convinto che l’esperienza nei villaggi sia molto formativa perché ti mette costantemente alla prova dovendo mantenere un atteggiamento cordiale e accogliente con gli ospiti durante tante ore di lavoro, mettendo in secondo piano i tuoi problemi e le tue difficoltà.
In un villaggio devi affrontare tantissime problematiche a livello relazionale. Ti viene affidato un team di persone che non si conoscono e che in pochissimo tempo devi riuscire a far lavorare insieme e a far convivere in spazi ristretti in modo armonico per tanti mesi. Ci sono situazioni spesso più difficili di quelle che si pensa e devi far appello a tutte le tue capacità di problem solving.

Quella per me è stata una bella scuola e quando sono diventato troppo grande per fare il “buffone sul palcoscenico”, l’agenzia per la quale lavoravo all’epoca mi chiese se avessi voluto occuparmi della selezione del personale degli alberghi.
Nel 2001, quando Adecco arrivò in Italia con la specializzazione alberghiera, io ero tra i pochissimi specializzati nella selezione di quel tipo di profili e venni selezionato per la prima filiale italiana. Da quel momento in poi ho intrapreso la carriera di recruiter in un percorso che mi ha portato dalla selezione di profili interinali fino ad arrivare, dopo circa 15 anni, a selezionare top manager.


2) Hai parlato della tua capacità di capire gli altri e le situazioni. Per svolgere la professione di recruiter quanto conta
 questa caratteristica?

È un aspetto fondamentale. Personalmente prendo molto le distanze da quelli che definisco umanisti per cultura.
Con tutto il rispetto per le categorie professionali che essi rappresentano, quando questi atterrano nell’area della  selezione del personale ci azzeccano una volta su dieci perché hanno la perversione professionale di schematizzare e catalogare le persone. I loro studi valgono più del capitale umano che hanno davanti e salvo rare eccezioni non riescono ad uscire dal proprio ruolo per mettersi davvero in relazione con le persone che hanno di fronte.
Salire su uno scalino più alto è il vizio di forma più ricorrente in questo tipo di selezionatori. Sono persone a cui piace ascoltarsi anziché ascoltare.

La grande qualità che deve avere un selezionatore è proprio quella di riuscire a mettersi allo stesso livello di chi ha davanti, entrare in relazione con il candidato per cercare di capire cosa ci sta dicendo e cosa vuole trasmettere. Se lavoriamo per sovrastrutture o basandoci sugli schemi imparati a scuola rischiamo di considerare i candidati come dei typos.
Catalogare le persone è la cosa peggiore che si possa fare in questo mestiere e si finisce per trasformare il complesso e delicato processo di selezione in un Oroscopo in cui tutti quelli del segno del Leone quel giorno riceveranno una grossa rendita da un familiare lontano mentre per i nati sotto il segno dei Pesci saranno favoriti gli incontri. Il segno però accuserà un po’ di stress. Mentre la Vergine inizierà ad avere risposte positive.

Per non parlare di chi è ancora convinto che alla base di un colloquio di selezione ci sia la PNL da autogrill.

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3) Chi decide di diventare selezionatore o Direttore del Personale secondo te lo fa perché questa è una
 professione che va di moda?

Fortunatamente no, secondo me la moda ha preso un’altra deriva che è quella del coaching, del counseling e degli psicologi di seconda mano.
Tutti quelli che non riescono nelle Risorse Umane si dirottano su quel versante sperando inconsciamente di poter risolvere la propria vita complicando quella degli altri.

Naturalmente ci sono i professionisti che svolgono bene il mestiere del coach a seguito di percorsi strutturati e lunghi che prevedono molti esami e tantissima pratica. Tuttavia la moda emergente di una professione che non richiede competenze specifiche o percorsi di laurea ha generato un eccesso di offerta di corsi e corsetti brevi che consentono a queste persone di fare consulenza aziendale o personale senza aver maturato realmente alcuna competenza.
A mio avviso, e per esperienza diretta, ci sono tante persone che hanno grossi limiti e problemi personali da non avere la lucidità che questo mestiere richiede.

Sul versante Risorse Umane non è tanto la moda che mi preoccupa quanto il fatto che ci siano categorie come consulenti del lavoro, commercialisti e esperti di qualsiasi genere che si improvvisano selezionatori per “ampliare il portafoglio servizi”.
Proprio qualche giorno fa su LinkedIn una recruiter ha scritto “Candidati: mi bastano due domande per stanarli”. Credeva di ricevere molti consensi grazie a questa frase e invece è stata costretta a cancellare quasi subito il post a seguito della marea di insulti e dissensi ricevuti.

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4) I social
 rappresentano un luogo per esprimere se stessi anche dal punto di vista professionale. Il progetto #GalateoLinkedIn ha indagato le abitudini degli utenti attraverso un questionario.
Che tipo di riscontro pensi possa avere un’indagine di questo tipo?

Il progetto non è partito da una mia idea ma ci sono salito a bordo molto volentieri.
Galateo LinkedIn indaga le modalità di utilizzo che le persone fanno di questo social network.
Non credo che un’indagine di questo tipo aiuti a migliorare la presenza online o a creare una maggior coscienza perché se a fronte della domanda “con che criterio scegli la tua foto profilo?” io ritengo che la mia miglior foto profilo sia un’immagine di me a petto nudo mentre bacio un coccodrillo nessuno mi farà cambiare idea.
L’obiettivo del progetto è piuttosto quello di fare una fotografia del panorama attuale, raccogliere i dati emersi, condividerli e discuterli.
In seguito capiremo se sarà il caso di fare ulteriore informazione sul tema, organizzare tavole rotonde, naturalmente solo a scopo divulgativo e senza finalità commerciali.


5)
 Una docente universitaria una volta disse che per svolgere il mestiere di selezionatore è necessario avere talento. Cosa ne pensi? Cos’è per te il talento?

Una parola estremamente sopravvalutata. Le aziende continuano a cercare talenti ma chi li cerca non è necessariamente un talento quindi mi chiedo come possa riconoscerlo negli altri.
Se essere un talento significa avere meno di 25 anni e 110 e lode sulla pergamena, per me quelli non sono talenti; sono secchioni. Vorrei sapere invece in quei 5 anni di università, oltre a prendere 110 e lode, che tipo di esperienze sono state fatte, quali interessi, quali idee, cosa hanno generato queste persone nella loro vita.
Temo invece che il voto di laurea sia troppo spesso l’unico parametro preso in considerazione da tanti direttori del personale anni ’70: “È un talento, si è laureato in 5 anni con 110 e lode!”

Partiamo da un presupposto: su 50 milioni di persone può esserci un talento ogni 100 individui (forse). La restante parte è caratterizzata da persone assolutamente normali, spesso tendenti alla mediocrità. Se un’azienda punta su quell’unico talento che ha a disposizione, demotiva tutto il resto della squadra.
Le aziende che funzionano sono quelle che riescono a far eccellere i mediocri, quelle che puntano sulla formazione, sullo sviluppo organizzativo. Quelle che fanno migliorare le Persone più semplici e allontanano quelle che non vogliono crescere.
Si parla sempre di eccellenze italiane ma chi eccelle appartiene ad una percentuale davvero minima. È sulla media delle Persone che invece dovremmo puntare in ambito professionale. Come si dice in latino, nel mezzo sta la virtù ed è lì che bisognerebbe dare gli stimoli maggiori.
Se tutti ambiscono a diventare leader e non c’è nessuno che segue non andiamo da nessuna parte.

Nel mestiere del selezionatore, come per qualsiasi altra professione, credo non sia necessario essere un talento quanto invece avere talento. Nel senso che bisogna essere portati per fare questo mestiere.

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6) Come si
 sono svolti i tuoi primi colloqui da selezionatore?

Quando ho cominciato a fare il recruiter, mi trovavo di fronte persone che svolgevano il lavoro che avevo svolto io stesso fino a poco tempo prima. Quindi i miei primi colloqui si sono svolti con l’atteggiamento di chi si riconosceva nei candidati. Si cercavano i punti in comune, si condividevano alcuni aspetti della vita nelle strutture turistiche, in qualche modo sondavo le competenze anche a seconda degli atteggiamenti e dei punti di vista.
Quando sono entrato in Michael Page e ho dovuto selezionare prevalentemente profili finanziari ho imparato da zero attraverso l’osservazione di miei colleghi più preparati ed ascoltando decine di interviste di selezione comprendendo ogni aspetto di quei profili amministrativi così lontani dai miei studi e dalle mie conoscenze.


7) Secondo te è ancora molto diffusa l’idea secondo
 la quale il recruiter debba essere un tuttologo per poter selezionare vari profili?

Secondo me questa è un’idea diffusa tra quelli che non vengono selezionati perché di base abbiamo una profonda cultura degli alibi: è sempre qualcun altro che ha deciso per noi o non ha capito chi siamo.
Smarchiamo però uno dei grandi dilemmi della selezione che è anche origine di grandi dibattiti su Linkedin da parte di candidati che si sentono defraudati per il fatto che il recruiter che deve selezionarli ne sa meno di loro.

Un recruiter non è tenuto a conoscere  tecnicamente qualsiasi mestiere per poter fare selezione del personale, altrimenti secondo questa logica io non dovrei poter selezionare ingegneri o responsabili acquisti semplicemente perché non ho mai ricoperto quei ruoli. Secondo questi candidati un selezionatore dovrebbe saper fare dal montatore meccanico al direttore generale altrimenti non è abilitato a fare recruiting.

Ricordiamoci sempre che un recruiter è solo il primo filtro con l’azienda. Io valuto la motivazione di un candidato, la sua retribuzione, le sue referenze, cerco di capire se è una persona affidabile e motivata, se il percorso professionale che ha fatto è coerente con quello che l’azienda richiede. Provo a capire perché quella persona sta cercando un cambiamento. Interpreto gli inventari di personalità, approfondisco le caratteristiche relazionali, a volte utilizzo tecniche di selezione specifiche per testare alcuni aspetti caratteriali e mettere alla prova convinzioni e atteggiamenti dei candidati.

Ma attenzione perché, anche in azienda, non è il Direttore del Personale che seleziona il Direttore di Produzione. La technicality di un candidato viene poi testata dal responsabile di funzione in cui quel candidato andrà ad operare. In questo caso il Direttore di stabilimento o l’Operation manager.

Mi è capitato di trovarmi di fronte a candidati convinti di essere tecnicamente perfetti per la posizione ma molto spesso le ragioni per le quali non venivano scelti non erano di carattere tecnico ma andavano ricondotte ad una serie di altre soft skills. I candidati vengono scartati per mille motivi, non necessariamente per mancanza di competenze.
Anzi, a certi livelli, in certe selezioni, i candidati hanno TUTTI ottime competenze.
Il problema è che il posto disponibile è uno solo, i candidati in una short list sono almeno 3 e coloro che dicono di essere “perfetti per quella posizione” non conoscono gli altri due candidati, che forse sono più perfetti di lui!
Credo che in generale un pizzico di autocritica in più non farebbe male.

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8) A proposito della presenza sui social, come valuti l’utilizzo che i tuoi candidati fanno di questi canali?

Innanzitutto cerco di creare delle job description differenti che non seguano lo schema classico e inserisco anche tutto quello che non mi piace di un candidato perché penso che sia sempre più importante impostare gli annunci in modo che risulti chiaro sia cosa è gradito sia cosa non è gradito.
Ultimamente, ad esempio, ho pubblicato l’annuncio per la selezione di un Direttore del Personale, che è una posizione per la quale solitamente mi arrivano dai 200 ai 500 curriculum ogni volta. In quel caso è davvero necessario aggiungere qualcosa in più rispetto alla descrizione standard e quindi solitamente richiedo capacità relazionali e di networking confutabili.
Anche qualora tutti i candidati giurassero di essere degli ottimi gestori di persone, difficilmente potrebbero mentire nel caso in cui volessi sapere con precisione in che modo questi si ritengono abili nell’uso dei social e valorizzatori di networking se in realtà risultano assenti da qualsiasi social e non partecipano mai ad alcun incontro di confronto.

Valuto la presenza online, faccio ricerche sul web, vado a vedere come il candidato ha aggiornato il suo profilo o se partecipa alle discussioni, cerco di capire se il candidato è una persona predisposta a presentare l’azienda o partecipa a eventi e convegni per sapere cosa accade nel mondo.
Oggi l’attenzione ai social deve essere fortissima, non per niente si continua a parlare molto di personal branding.
Magari poi capita di avere di fronte il candidato che non viene scelto e ti dice “Faccio questo mestiere da vent’anni” e io gli rispondo “Sì, ma da vent’anni probabilmente non metti il naso fuori dal tuo ufficio. Ho cercato il tuo profilo LinkedIn e ho scoperto che su internet non esisti”.
Se faccio selezione per un’azienda con un’età media molto bassa e dove c’è un grosso investimento in comunicazione, non posso prediligere un candidato che non sa comunicare. E oggi, inutile negare il contrario, le aziende e i manager che dicono di “operare sottotraccia” hanno perso in partenza.


9) Alcune parole sono entrate ormai nel gergo di chi si occupa di Risorse Umane. Ci sono termini che secondo te vengono usati a sproposito?

La parola più abusata secondo me è head hunter. Questo termine viene utilizzato per descrivere la figura professionale alla quale l’azienda dà un nominativo preciso da cercare. Molto spesso gli si chiede di scovare un candidato che provenga dalla concorrenza o evidenziato in una rosa specifica di candidati con una determinata provenienza.
La figura di head hunter è molto differente da quella del recruiter, che invece opera una selezione. Quindi i due ruoli non vanno assolutamente associati o assimilati.
Troppo spesso su Linkedin ci si lamenta degli head hunter e poi si scopre che ci si era rivolti ad una ragazzina dell’interinale.


10) Com’è nata l’idea di dar vita alla Community FiordiRisorse? Il master di FdR viene definito etico, per te
 cosa significa essere etici quando si fa formazione?

FdR è nato come gruppo LinkedIn diventando in brevissimo tempo un gruppo offline. Dopo pochissimi mesi dalla fondazione del gruppo (2008) abbiamo infatti cominciato ad incontrarci di persona, ospitati da aziende.
La community nasce con l’intenzione di far incontrare decisionisti aziendali e profili medio-alti senza vincoli politici o economici, senza il filtro delle associazioni di categoria o altri fini commerciali.
L’intento è quello di mettere in relazione manager e professionisti e dare modo alle aziende di raccontare le proprie pratiche e i propri progetti, promuovere la cultura del lavoro e un modo diverso di fare management che si differenzi dalle banalità o dalle markette che spesso capita di vedere durante alcuni eventi rivolti ai manager aziendali.

L’etica entra in tutti i progetti di FdR e in particolare il MUSTer nasce con una fortissima motivazione etica.
Qualche anno fa incontravo candidati che mi dicevano “Sono stato licenziato ma ora frequento un bel master così mi ricolloco facilmente”.
Non esistono master che garantiscano di collocare o ricollocare professionalmente le persone e dico sempre a chi mi parla di master che se l’obiettivo che spinge a seguire quel percorso formativo è trovare lavoro è meglio tenersi i soldi in tasca.
Mi hanno fatto vedere le pubblicità di tantissimi di questi Master Manageriali e in quasi tutte lo specchietto per le allodole è sempre più o meno lo stesso: “l’80% dei nostri corsisti trova lavoro in meno di sei mesi” “contatti con le aziende e con i recruiter” “lectio magistralis di manager aziendali”.
A mio parere questo è un grande imbroglio, a maggior ragione quando a parità di un costo esorbitante, non esiste una sola business school che nel programma del master specifichi in anticipo il nome di tutti i docenti che terranno le singole lezioni. Si acquistano percorsi da 20.000 euro e poi capita molto spesso di ritrovarsi in aula consulenti autoreferenziali a cui è stata promessa visibilità, professori di novant’anni che recitano passi evangelici presi dai loro libri, docenti mai entrati in azienda in vita loro e qualche manager con scarse capacità dialettiche. Oggi docente, domani cliente. A spese vostre.

In FdR abbiamo quindi voluto realizzare un master che fosse prima di tutto “low cost” e alla portata di tutte le tasche per i privati, finanziabile per le aziende con i fondi interprofessionali.
Il secondo obiettivo è che ogni giornata si svolgesse all’interno di aziende permettendo agli iscritti un REALE contatto con le aziende a casa loro. Ogni tappa viene infatti ospitata in una sede aziendale diversa e i manager si raccontano, spiegano il loro punto di vista ed espongono la propria case history su come affrontano la gestione di ogni attività manageriale.

La qualità della formazione deve essere alta. Questo è il nostro modo di fare etica.

 

Laura Ressa

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Scritto da:

Laura Ressa

Classe 1986 🌻 Digital Marketing Specialist & Web Writer 🌻 Frasivolanti