Faccio sempre più fatica a trovare un’espressione culturale, un evento, un testo, un articolo, un gruppo di persone che si riuniscano nel sacro vincolo del piacere di scambiare passioni senza scopi altri legati a: denaro, esposizione mediatica, click, io-faccio-un-favore-a-te-tu-ne-fai-uno-a-me.

Che il Dio Click e il suo fedele apostolo Denaro siano ben più importanti di ogni altra iniziativa che nasca a titolo spontaneo e anacronisticamente senza scopo di lucro, è un fatto risaputo. Non ho visto (o ne ho viste poche) manifestazioni culturali che non abbiano alla base una spinta economica e me ne rendo sempre di più conto guardandomi intorno.

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Stando alla mia percezione (magari sbagliata) non c’è quasi nulla che non sia fatto per aderire a una moda, per strizzare l’occhio a qualche campagna elettorale o semplicemente di quartiere, per intascare euro in più o click facili su giornali nazionali e locali. Seppur partendo da intenzioni sulla carta nobilissime, si finisce quasi sempre per “sfrasciare”. Si finisce, cioè, per strafare nel senso più grottesco e paradossale.

A scanso di fraintendimenti, non intendo solo il noto fenomeno “mio cugino bravo” secondo il quale potremmo trovare in situazioni o in eventi che si vestono di carisma culturale sempre i soliti volti noti. Non parlo nemmeno di attività chiaramente a scopo di lucro, come quelle legate a particolari contesti aziendali.

Che non si viva di sola aria è ben chiaro, ed è tanto più chiaro anche il fatto che ci si debba ritagliare una fetta di mercato, che si debba comprare il pane, che si debba sopravvivere, campare la famiglia e via dicendo. Soprattutto per chi è nel circuito culturale per professione, è certamente prioritario richiedere un giusto corrispettivo monetario a fronte del proprio lavoro. Ed in effetti la questione non è lavorativa, la questione è un’altra ed è legata piuttosto alle cosiddette iniziative culturali che appaiono, ad un primo sguardo, essere fuori dal circuito del denaro. Parlo di eventi, ma anche di incontri a tema divulgativo, laboratori, presentazioni, fino ad arrivare ai testi online, ai blog, ai giornali indipendenti.
Anche quando dietro ad un’attività c’è il denaro, ciò che disturba è la mancanza di etica professionale. E l’etica è qualcosa di davvero profondo, di davvero insito nelle scelte che facciamo: scelte costanti, quotidiane, che si rincorrono anche a distanza di pochi minuti l’una dall’altra.

Forse la mia visione delle cose alla Mary Poppins mi ha impedito sino ad ora di vedere l’intento di monetizzare anche in iniziative che teoricamente dovrebbero avere altri scopi: ossia scopi divulgativi, legati alla passione per un tema o all’amore per la conoscenza e l’approfondimento diffuso. Basta un poco di zucchero e la pillola va giù: così è stato. Ho tolto qualche benda dagli occhi e ho buttato giù la pillola lasciando andar via la mia visione romantica delle cose. L’ho abbandonata su una mensola in alto del ripostiglio, tra le bambole e i peluche.

Quelle bambole però non riesco ancora ad abbandonarle in uno scaffale della soffitta. Mi chiedo perché, se si ha un lavoro remunerativo, ci si debba affannare a lucrare ancora di più anche su iniziative diverse dal lavoro stipendiato.

Sono giunta a una conclusione sul modo in cui la nostra vita potrebbe essere scandita. Nelle mie elucubrazioni sono giunta a pensare che, nella gamma delle attività che possiamo svolgere, la nostra vita dovrebbe essere scandita in due momenti ben distinti e separati: quello lavorativo da un lato, e quello dedicato alle passioni reali dall’altro. Queste due rette potrebbero essere binari paralleli che non si incontrano mai, e sarebbe perfetto così.

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Il termine “passioni” non riguarda l’evento culturale di moda o di nicchia per il quale guadagno io, il famoso cugino e pure qualche amico o conoscente a cui devo un favore. Senza demonizzazioni nei confronti di chi agisce in questo modo, sostengo che il lavoro vada pagato ma se ho una passione, invece, la assecondo bene e forse meglio se nessuno mi paga per farlo.
Non voglio giustificare il finto volontariato che cela dietro di sé il concetto di lavoro. Chiunque lavori, ad esempio, per un evento con biglietto d’ingresso, va pagato. E va pagato sempre. Ci sono contesti in cui non dovrebbero esistere volontari, perché non avrebbe senso averne.

Scrivo sul mio blog, creato gratuitamente su WordPress, e qualche settimana fa ho invitato uno scrittore a presentare il suo libro nella mia città. Nessun giornale ne ha parlato, se non qualche piccola testata che ha semplicemente fatto un copia/incolla del comunicato stampa che avevo inviato.
Per queste attività non guadagno nulla e non perché sia una martire del lavoro volontario, che peraltro considero un ossimoro perché se è volontario non è lavoro ma è volontariato. Ho semplicemente distinto le mie due vite affinché le passioni non fossero intaccate da tentativi di guadagno economico. Da un lato c’è il lavoro che, sì ok, per alcuni è un lusso di questi tempi, dall’altro ci sono gli hobby, le attività creative e ricreative, la scrittura, l’arte, la lettura.

Il denaro è un mezzo strepitoso: non faccio simposi sul capitalismo perché, obiettivamente, il denaro ci permette di viaggiare, di capire cosa significhi sudarsi le cose che abbiamo, ci permette di realizzare piccole o grandi soddisfazioni, ci permette di mangiare e costruire il nostro futuro.
Ma il denaro fa spesso a cazzotti con la creatività. Fa a pugni, insomma, con tutto quello che ci vendono come culturale e divulgativo ma che, di fatto, è spesso una marketta spacciata per strutta abnegazione culturale e ricercatezza.

Non c’è nessuno che si salvi da questo circolo vizioso. E quelli che si salvano sono i pochi di cui nessuno parla e di cui nessuno conosce veramente la storia. Non fanno notizia. Non acchiappano click facili.

Mi fermo e mi chiedo: a me va bene un mondo che gira a questo ritmo o sono troppo moralista? Mi sta bene una società che solitamente va al massimo dei giri solo se ci sono cifre da intascare e gira lentissima se invece non ci sono nemmeno gli occhi per piangere?
Sono fuori dal mio tempo a considerare tutto ciò quasi aberrante? Sono fuori dal mio tempo se penso che ci possano essere, da qualche parte nel mondo, iniziative svincolate dal rituale del denaro?

Se ho una passione, le dedico tempo, ore e minuti del mio sonno. Se devo scrivere un testo per il blog regalo volentieri la mia notte al foglio bianco, mi addormento sul computer, mi curvo la schiena, scrivo a luci spente cercando di trovare le lettere sulla tastiera. Per tutto questo nessuno mi paga. Il denaro arriva dal lavoro, espressione di me stessa ma mai fino in fondo mio come ciò che mi fa star bene.

E sapete che vi dico? È meraviglioso così, che ci crediate o no! Che ci crediate o no, come diceva un noto spot televisivo, certe cose non hanno prezzo e se ce l’hanno mi dispiace sul serio perché una vita priva di passioni che siano tali è una vita un po’ meno ricca. E a volte anche un po’ sprecata.

Sarò idiota e fuori dal tempo, sarò Mary Poppins, ma io per qualche click in più o un centinaio di persone che leggono ciò che scrivo, non butto via la mia penna e il mio tempo su un tema che non mi appartiene e non do spazio a una voce che non mi rispecchia ma che cattura critiche o applausi seguendo la logica del “purché se ne parli”.

Qualcuno ha detto “Less is more”. Sì, è proprio così.
Less is more.
Fare meno e bene. Fare bene e meglio del giorno prima.
E questo vale per chiunque, in particolare per chi lavora nel campo della comunicazione. Vale anche per chi deve tirare a campare e accetta di sottostare a qualche scorciatoia pur di guadagnare la giornata. Agire in questo modo non fa onore, e non rende il lavoro migliore. Lo rende solo più aderente al vortice dei giri, lo rende rispondente a un modello preconfezionato ormai becero e stantio, un modello fatto di falsi proclami, di nuovi opinionisti, di idee modernamente vecchie espresse in maniera accattivante. Rende il nostro lavoro pelle che si adatta e si sgualcisce a seconda dei temi del momento: temi triti e ritriti non tanto per cercare una soluzione ma per vendere più copie.

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Less is more, dunque. Fare bene e meglio. Fare meno rumore di quello che vorremmo, magari rinunciando ad un briciolo del nostro smisurato ego ma lavorando più di olio di gomito.
In questo modo, forse, quando avremo smesso finalmente di girare al triplo della velocità per star dietro a quello che gli altri si aspettano da noi, saremo davvero fieri di ciò che siamo riusciti a fare centellinando i giri di boa su noi stessi e senza cedere alle logiche del vortice.

 

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Laura Ressa

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Scritto da:

Laura Ressa

Classe 1986 🌻 Digital Marketing Specialist & Web Writer 🌻 Frasivolanti