Antipasto di lavoro narrato

“Quando ero bambino…”, ah quanto mi piacciono i racconti che iniziano così!
E Silverio ha iniziato proprio così a parlarci di lavoro e del legame che esiste tra le figurine dei calciatori e i passaggi di stato che attraversiamo nella nostra vita lavorativa, quando per necessità, per caso o per scelta ci troviamo a cambiare lavoro o a cambiare qualcosa del nostro lavoro. I racconti sono ciò che siamo, come dice Vincenzo Moretti quando spiega perché sia importante parlare di lavoro e in che modo la parola “lavoro” si leghi all’aggettivo “narrato”. Dunque noi siamo le nostre storie, le scelte che abbiamo fatto e quelle che non abbiamo fatto o che faremo.
Le storie sono le mappe che ci hanno condotto nel luogo in cui ci troviamo e in questo senso il lavoro ci chiede spesso di riadattarci, di cambiare contesti oppure di convivere nello stesso contesto ma con lo sforzo di modificare il nostro pensiero per poterci migliorare e adattare al nuovo.
Per la nostra notte del #lavoronarrato ieri sera abbiamo messo sul tavolo parole guida segnate su post-it, parole che sono state come punti di arrivo o partenza sulla cartina dei nostri ideali, delle nostre storie personali.
Alcune parole le abbiamo scelte, alcune nuove sono state scritte sul momento mentre altre le abbiamo lasciate lì sul tavolo a fare da sottofondo come una melodia che accompagnava il nostro ragionare di lavoro.
Abbiamo tracciato, a partire dalle parole, un racconto mosso dall’intreccio tra ricordi del passato e pensieri sul presente. Appartenenza, dignità, identità, curiosità, onestà intellettuale: da qui è cominciato il tragitto e la storia è poi riuscita a diventare un fiume in piena. 

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Onestà intellettuale: la parola iniziale

Le nostre parole sono sassi sparsi sul tavolo

Siamo partiti dai bigliettini colorati che abbiamo sparpagliato sul tavolo. Su ognuno di essi era scritta una parola. Queste sono le parole su cui abbiamo ragionato insieme o percepibili dai vicoli che il dialogo ha percorso.

Onestà intellettuale, sapere, sogno, giudizi, limite, opportunità, merito, persone, networking, frainteso, migliorarsi, consiglio, tono, errori, scalata, speranza, comunicare, ritmo, condivisione, connessione, amicizia, soddisfazione, vetta, racconto, sintesi, affermazione, curiosità, autoreferenzialità, ruolo, credersi migliori, maschera, comunità, grazie, sottinteso, gavetta, fermento, competenze, mercenario, cambiare, verità, confronto, noia, etica, parole, pausa caffè, fermarsi, narrarsi, libertà, emotività, non fermarsi, talento, crescita.

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Racconto e punti di raccordo dell’incontro

La nostra Notte si è svolta per ancoraggi. Per ripercorrerla parto dalle parole di Vincenzo Moretti:
Raccontare il lavoro è importante, perché siamo ciò che raccontiamo. Perché lavoro vuol dire identità, senso di appartenenza, autonomia, rispetto di sé e degli altri, possibilità.
Sono partita anche da un’altra frase che Vincenzo ricorda spesso e che è tratta da “La luna e i falò” di Cesare Pavese: “L’ignorante non si conosce mica dal lavoro che fa ma da come lo fa”.
Il lavoro narrato è correlato al concetto di lavoro ben fatto, all’idea che fare bene le cose sia giusto e conveniente e ci fa vivere meno imposizioni e più soddisfazioni. Prima di tutto come persone nelle relazioni umane che intessiamo.
Mimma, Vito, Silverio e io ci siamo riuniti attorno a un tavolo tra bevande e taglieri. Il cibo sul tavolo si è mischiato alle parole scritte e il cibo della nostra mente si è unito a ricordi e pensieri.
Ognuno di noi ha ammesso quanto il lavoro sia predominante nelle nostre vite e occupi sogni, speranze ma anche doveri. Perché, non dimentichiamolo, il lavoro è anche necessità, è anche dover accettare certe condizioni o imparare a soprassedere su tante piccole cose a cui una volta eravamo abituati a dar peso.
Silverio comincia il suo lungo racconto di lavoro ricordando suo padre e gli album di figurine dei calciatori. Avete presente quei giocatori che cambiano spesso squadra e che negli album compaiono accanto a un fitto elenco di squadre? Suo padre li considerava “traditori” o mercenari e Silverio ricorda bene questo aneddoto perché è vero che la morale inculcata e la nostra stessa cultura ci fanno percepire come un tradimento la scelta di compiere un cammino diverso. Vale per le scelte di vita, per i tagli netti che diamo a certe relazioni, per i rapporti di amicizia, per le vie che prendiamo, per i rami secchi che tagliamo e i frutti marci che sradichiamo dal nostro orto.
Vale lo stesso per il lavoro. 


In Italia, a differenza di quanto avviene nel mondo anglosassone ad esempio, cambiare spesso lavoro non è visto come un atto di crescita né come una voglia di sperimentarsi per migliorarsi. Da noi molto spesso vige la convinzione secondo cui se trovi “il posto” devi mantenerlo stretto a vita e guai se provi a cercare altrove nuove opportunità.
In altri termini il concetto è “non sputare nel piatto in cui mangi”, eppure è triste constatare quanto questa concezione del lavoro sia radicata.
Molto spesso è radicata, a pensarci bene, anche nei rapporti con le persone.

Lavorare, come altri punti cardine della vita, non vuol dire fidelizzarsi o entrare in un gruppo dal quale non puoi uscire più.
Lavorare è innanzitutto dignità: dunque è anche la dignità di scegliere senza ascoltare i moralistici sensi di colpa che bussano alla porta. Con quelli facciamo spesso i conti ma c’è di più: l’idea di migliorarsi attraverso esperienze lavorative variegate non fa che portare valore aggiunto ai nuovi luoghi in cui lavoreremo.
Uscire dall’azienda aiuta a vederla dall’esterno, a capire come funziona il mondo fuori e cosa magari stavi sbagliando lì dentro. Ti fa acquisire maggiori conoscenze e competenze, ma ti insegna molto anche nella sfera dei rapporti con le persone e nell’interpretazione dei ruoli in organigramma. Inserirsi in un contesto nuovo poi aiuta a rodare la propria predisposizione alla comprensione di contesti diversi, prassi mai sperimentate, modi di intendere il lavoro che possono essere diametralmente opposti.

Collaborare con i colleghi ci porta in alto, scegliere di costruire dei muri arroccandosi dietro le proprie posizioni manageriali porta invece ad alzare sempre di più le barriere e a farle diventare ostacoli insormontabili. Oltre quelle barriere non vediamo nulla perché preferiamo scrutare noi stessi con ammirazione senza pensare che c’è chi è più bravo di noi, e magari quel qualcuno è seduto proprio alla scrivania affianco alla nostra.
Questa è la deriva a cui arriva, secondo me, anche chi definisce se stesso “Quadro” piuttosto che in base alle proprie competenze. Che non siamo i nostri ruoli è chiaro, ma non a tutti è così chiaro.

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Le nostre parole del lavoro narrato

Se il racconto è il spinta propulsiva per esprimere le proprie esperienze, anche l’azienda ha una voce per raccontarsi. Tuttavia un’azienda non può farsi portavoce di un’idea in cui non crede, deve credere nel prodotto che vende e nell’immagine che diffonde di sé. Soprattutto deve credere in ciò che dice.
Oggi il percorso di studi è relativo e molte cose le impari lavorando. A volte le strade che sognavi di percorrere lasciano spazio ad altre che non avresti immaginato, come è accaduto a Mimma che sognava di fare l’insegnante e poi ha scoperto una realtà più lungimirante del sogno. Mimma sente forte dentro di sé il senso di appartenenza all’azienda, a dimostrazione del fatto che se fai un lavoro che ti piace e se le persone sanno darti nuove sfide, vuol dire che sei nel posto in cui dovresti essere.
C’è un rovescio della medaglia però. E se sentire di appartenere ad un luogo significasse non prendere in considerazione altre opportunità migliori? Qui torniamo al concetto di azienda vista come famiglia, una visione spesso limitante che rischia di imporci sentimenti di colpa qualora pensassimo di approdare verso altri lidi.
A proposito di colleghi ci siamo anche chiesti se legarsi alle persone in azienda sia possibile, se sia possibile cioè trovare amici sul luogo di lavoro. Questo è un tasto delicato e tutto dipende dal carattere di ciascuno e dal modo in cui ci si sente in un determinato contesto.
L’amicizia è possibile ma a volte il confine tra amicizia e professione è rischioso da attraversare.

Quanto contano per noi le persone? Quanto contano i nostri ruoli?
Cosa si prova a cambiare spesso lavoro e a riadattarsi ogni volta?
Sul lavoro lasciamo libero spazio a quel che siamo o seguiamo la strategia del “comportarci come ci hanno detto di fare”?
Non sono gli strumenti esterni a cambiare le cose in azienda, sono le persone a farlo. Noi ne siamo in grado?
Questi temi restano ancora aperti. Parlare di lavoro è una storia sempre tutta da scrivere e non credo si possa mettere un punto alla fine.

Il pre-lavoro narrato: Anita, la collaborazione e il concetto di classe

C’è stata anche un’altra voce che ha partecipato alla nostra notte. Una voce che giunge da fuori campo perché mi ha parlato qualche giorno prima del 30 Aprile.
La voce è quella di Anita, finlandese di nascita e abruzzese di adozione.
Il lavoro – mi ha detto Anita – soprattutto nelle multinazionali, è visto da un po’ di tempo come una religione, come qualcosa a cui votarsi. Non si era mai vista un’attenzione così grande al marketing e al messaggio che le aziende mandano all’esterno, e questo in parte incide anche sul modo in cui le persone percepiscono l’importanza del lavoro, spesso associato a un credo da seguire o a un messaggio esterno che può anche non corrispondere alla verità.
Ciò che determina un lavoro ben fatto è la collaborazione – sostiene Anita – ed è quella la chiave per ottenere risultati non solo vantaggiosi per l’azienda ma anche per chi ci lavora, che può così avere l’occasione di uno scambio di competenze continuo con i colleghi.
La percezione che hai del lavoro, dice Anita, muta insieme alla tua crescita personale e con il passare degli anni diventi più padrone dei tuoi tempi e dei tuoi spazi privati. Quando entri in azienda da giovane per te il lavoro può essere tutto perché ci tieni a far bella figura o a fare carriera: finisci così per lavorare anche nei fine settimana e nei giorni di festa. Col passare degli anni poi capisci cosa conta davvero nella tua vita: il lavoro è una delle tante sfumature, ma di certo non puoi vivere per lavorare e basta.

Quando le ho chiesto quali differenze avesse riscontrato tra il suo paese e l’Italia, Anita mi ha risposto che noi italiani utilizziamo molto il termine “classe dirigente” come se le persone fossero chiuse in classi fisse non modificabili. Questo vale a maggior ragione nel lavoro ed è come se per noi contasse molto occupare i “piani alti” della scala e distinguere chi sta in alto da chi sta in basso.
Non è un mistero, aggiungo io, che in Italia l’ascensore sociale sia bloccato da parecchi decenni e che chi nasce per far parte della cosiddetta classe dirigenziale, ci resta per sempre. Allo stesso modo chi è nato per far parte di una classe inferiore, quasi sempre è destinato a non poter ambire ad altro.
Siamo più attenti alla scalata e alla distinzione delle persone in classi? Anche se non ci facciamo caso, chi occupa posizioni privilegiate ci tiene molto a ricoprirle e non si preoccupa troppo delle ricadute. Chi è più in basso ci fa caso ma accetta il dato di fatto.
Quanto conta dunque affermare su che gradino di quella scala ci troviamo?

Conclusioni e suggestioni della nostra Notte

Al termine del nostro incontro avrei voluto tirare una linea sotto i miei appunti come si fa per calcolare il totale. Volevo tirare le somme con una frase che racchiudesse il senso di tutte le cose che ci siamo detti. Non sono riuscita a calcolare quel totale con una sola frase perché i racconti di lavoro sono sempre aperti, privi di un finale già scritto a meno che tu non voglia concluderli e considerarli terminati. Ma il lavoro non è una storia fatta e finita della quale puoi dire “ok, ho finito di leggere il libro”. Dal lavoro, se hai sufficiente onestà intellettuale, impari qualcosa di nuovo a una frequenza spaventosa: impari dai colleghi, impari da te stesso, impari da chi è fuori. Sul lavoro non puoi mai considerarti un libro concluso o il miglior romanzo mai scritto. Le frasi hanno i puntini di sospensione, i risultati possibili sono infiniti, le persone cambiano e tu con loro, gli errori ti si accovacciano sulla spalla e devi imparare in fretta ad accettarli. Dunque narrare il lavoro non vuol dire scrivere un racconto concluso ma lasciarlo senza punto finale, trovare una storia da scrivere, iniziare da una nuova pagina bianca.

La frase che ha concluso la nostra notte è stata un semplice “beh, ci vediamo dopodomani”. Frase quotidiana, ordinaria, tipica di chi condivide un lungo tragitto insieme ogni giorno. Ma cos’è in fondo il lavoro se non lo sforzo di costruire qualcosa insieme ogni giorno? Il senso allora è questo: vivere pienamente una ciclicità che fa parte di noi, senza rendercene schiavi o sopraffatti, senza esserne schiacciati o vinti. Nella sua complessità il lavoro è un’equazione da risolvere, il nodo da sciogliere, il fiato da rompere, l’equilibrio tra vita privata e professionale, il gioco dei ruoli, le relazioni umane. Ma, se le sommi, tutte queste cose sono la tua stessa vita e la vita la scrivi camminando. Puoi solo dirle “buonanotte, a domani”, ricaricare la penna e partire dal nuovo capoverso andando accapo.

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Grazie a Vincenzo Moretti per aver ideato e fatto crescere la notte del lavoro narrato, che da 6 anni unisce i racconti di lavoro e dignità di tante persone.
Grazie a Mimma Altieri, Vito Di Gioia e Silverio Petruzzellis: compagni di viaggio, colleghi, persone da cui imparo ogni giorno.


Queste sono le loro parole sulla notte del lavoro narrato 2019.

Mimma: Alla vigilia della festa dei lavoratori ci siamo seduti intorno ad un tavolo diverso dalle nostre scrivanie a narrare del nostro lavoro per scoprire con piacere del romanzo che stiamo scrivendo ogni giorno fatto di fatiche e successi, sfide e sconfitte, sogni e realtà. Un romanzo bello perché in continuo divenire. 

Silverio: La narrazione è ciò che più di ogni altra cosa ci consente di dar corpo a quel tessuto connettivo che è il nostro ‘essere lavoro’. Noi siamo il nostro lavoro e il nostro lavoro prende corpo solo e soltanto grazie a questa coessenza. Grazie per questa splendida occasione.


Concludo mettendo insieme, nell’ordine in cui le abbiamo raccolte a fine serata, tutte le parole scritte sui post-it:

L’Onestà intellettuale è il motore del sapere, il sogno avverato, i giudizi sconfitti. Il limite diventa opportunità che conduce al merito. Le persone e il networking, anche se spesso frainteso con la raccomandazione, spingono a migliorarsi, ad ascoltare ogni consiglio, a calibrare il tono, ad accettare gli errori. La scalata non è quella in organigramma ma è la speranza che comunicare diventi il nostro ritmo e che la condivisione si traduca in connessione. L’amicizia sul lavoro forse è possibile, ma con attenzione ai confini. La soddisfazione è la vera vetta e il racconto, anche se è una sintesi di noi stessi, è la massima affermazione della curiosità messa in moto e condivisa. La curiosità è la voglia di andare oltre, di capire come risolvere un problema dopo tentativi ed errori.
L’
autoreferenzialità è espressa nel ruolo che recitiamo, credersi migliori è solo una maschera che si indossa per farsi accettare dalla comunità. Imparare a dire grazie, gesto che resta troppo spesso sottinteso, è la parte più difficile di quella che chiamiamo gavetta. Nel fermento che ci pervade quando affrontiamo una sfida scopriamo le competenze che non sapevamo di avere. Se cambi lavoro non sei un mercenario, cambiare significa anche concedersi di guardare in faccia la verità, aprirsi al confronto, abbandonare la noia di un lavoro che non ti piace. L’etica non si dimostra a parole. Anche durante una pausa caffè puoi scoprire cosa vuol dire fermarsi a pensare, imparare a narrarsi, scoprire quanta libertà può esserci nell’emotività. Lavorare è non fermarsi ad ogni ostacolo, è talento messo al servizio della crescita.
Cresciamo insieme perché siamo una comunità e possiamo migliorarci a vicenda.

Laura Ressa

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Copertina: la locandina della nostra Notte del Lavoro Narrato 2019

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Scritto da:

Laura Ressa

Classe 1986 🌻 Digital Marketing Specialist & Web Writer 🌻 Frasivolanti