
Crediamo spesso di sapere con esattezza cosa ci sia nella testa degli altri, però ragioniamo soltanto con la nostra e dunque non sempre siamo in grado di capire. Anche se talvolta ne abbiamo la presunzione.
È difficile non incappare in questo errore di valutazione, ma magari lo commettiamo a fin di bene per cercare di comprendere e aiutare.
Troppo spesso siamo certi di sapere come il mondo venga percepito da chi ci sta attorno e pensiamo che in fondo gli altri ragionino esattamente come noi.
L’empatia è sottovalutata e sopravvalutata allo stesso tempo.
Una bella parola da usare in discorsi altisonanti sull’importanza di comprendere l’altro e condividerne le sensazioni.
Poi, voltato lo sguardo o girata la pagina, riprendiamo a seguire le nostre vecchie abitudini come se quei discorsi filosofici per noi fossero solo teorie che non trovano corrispondenza nella realtà.
L’empatia è un affare serio ma è più semplice a dirsi che a farsi, più semplice da spiegare che da perseguire. Abbonda sulla bocca di chi ragiona a una sola corsia e percorre con la mente un unico senso di marcia.
L’empatia può trovarsi in uno sguardo a cui non servono parole, come se negli occhi si potesse leggere già tutto. L’empatia può trovarsi in gesti semplici che non chiedono di essere sottolineati.
L’empatia è un affare semplice, ma come molti sentimenti è sottoposta a una banalizzazione che ci vede tutti profondi, comprensivi, tutti detentori di umanità e altruismo.
Ciononostante la realtà è ben diversa dalle intenzioni e distante dalle teorie, non solo perché l’empatia costa uno sforzo più grande di quello che pensiamo ma anche perché non è scontato trovarla, capire cosa sia davvero, volerla cercare e mantenerla nel tempo.
O ce l’hai, o non ce l’hai. O ti interessa oppure no. Non ci sono sfumature nel mezzo fra le due scelte.
Ma l’empatia vive anche di un errore diffuso: l’idea che chiunque possa, voglia o debba sperimentarla. Se non vogliamo chiamarla così, possiamo definirla anche immedesimazione o comprensione. In qualsiasi maniera si etichetti questo sentimento, l’errore di minimizzazione o di eccessiva esaltazione è lì che traballa teso sul filo su cui lo mettiamo.
Annamaria Testa, su Nuovo e Utile, a proposito di empatia scrive:
“Conviene diffidare delle mode. È quanto invita a fare il Corriere Cultura a proposito del termine empatia: viviamo nel mezzo di una «smania empatica», per usare l’espressione di Steven Pinker, docente ad Harvard.
Per esempio, la frequenza della ricerca per la parola “empatia” su Google è più che raddoppiata negli ultimi dieci anni. […]
Il Corriere prosegue affermando che oggi un alto quoziente d’intelligenza — il vero mito del secolo scorso — non basta più a districarsi nelle complessità della vita, e che le nuove generazioni, piegate dalla crisi, cercano prospettive che vadano oltre il successo e il possesso: l’empatia, appunto.
Il rischio, conclude il Corriere citando, tra gli altri, un brillante articolo uscito su The Atlantic, è che la moda empatica si affermi nella sua versione ingenua e buonista, il sentimentalismo, e infine collassi su se stessa schiacciata dal peso dell’attenzione dovuta a ogni più delicata sensibilità individuale. […]
Per quanto mi riguarda, però, sono contenta che si parli di empatia (dopotutto, esistono mode assai peggiori), e che siamo tutti coi piedi a mollo nella stessa risaia. Tra l’altro, frugando qua e là, ho ritrovato questo video delizioso.”
Perché parliamo di empatia? Si tratta di una moda o di un argomento di cui ci piace parlare perché così ci illudiamo di esserne dotati?
Ho in mente alcuni esempi di incontri e di esperienze che in parte mi hanno suggerito cosa possa significare provare empatia ma anche riceverla.
Non è questione di prossemica o gestualità, non è questione di tic o di dita che grattano il naso e che mi suggeriscono se qualcuno mente.
Nulla di tutto ciò, per me l’empatia scavalca questi segnali superficiali che ci hanno istigato a leggere. Empatia è saper andare oltre l’aspetto, oltre i costrutti, oltre i tic, oltre quel che avviene sulla superficie delle persone: è provare a capire chi hai davvero di fronte, perché non è facile saperlo e di solito le persone peggiori sanno nascondersi dietro maschere da agnelli bisognosi così come le persone migliori possono invece essere ricoperte di abiti improbabili o indossare facce da clown.
Perché, ad esempio, di alcune persone diciamo “ho capito com’è guardandolo in faccia”? Non siamo né maghi né medium, ma esiste una percezione che va oltre i sensi e che forse è più vicina all’intuito o all’istinto. Una percezione che travalica le teorie psicologiche, di cui naturalmente possono avere padronanza solo gli esperti in materia.

E allora l’empatia resta solo un altro dei tanti miti che facciamo nostri per colmare i vuoti? Non del tutto, in certi casi ancora esiste ma resta spesso cristallizzata. La chiudiamo in cantina, nella credenza, nel freezer. La surgeliamo perché fa paura vivere comprendendo quel che sentono gli altri: è troppo oneroso, a volte troppo doloroso, in fin dei conti poco utile in tempi moderni in cui conta prima di tutto il calcolo delle proprie personali utilità anche nelle battaglie che dovrebbero assumere un certo valore.
Abbiamo molti miti, alcuni inventati e altri reali.
Un personaggio pubblico compie un gesto deprecabile e subito lo copriamo di insulti alimentando la sua vanagloria. Un personaggio per noi positivo compie un gesto che consideriamo grande e siamo pronti a prenderlo subito come modello di vita e a emularlo (a parole), a scoprirne la vita e a discuterne fino allo sfinimento, fino a dimenticarci persino il suo nome.
Sembra quasi che desideriamo vestire la ribellione come fosse un abitino alla moda da sfoggiare in più occasioni possibili per identificarci come persone impegnate, comprensive, attente, coinvolte, presenti, intelligenti.
E dopo? Che altro c’è dietro il nostro abitino alla moda paillettato di buone intenzioni?
Procediamo per momenti di gloria come fossero tappe standardizzate in cui nasce un nuovo mito a un ritmo che supera la velocità della luce, e questo avviene perché fatichiamo a trovare realmente la nostra identità (ormai così liquida) se non surrogandola di volta in volta in un personaggio, contrapponendoci a una categoria di persone o sottolineando la nostra appartenenza a questo o a quel gruppo.
Noi vogliamo essere simbolo della massa, ma ponendo sempre all’apice di quella massa la nostra individualità.

Parliamo sempre di differenze e di caratteri che ci distinguono: donne, etero, omosessuali, immigrati, autoctoni, credenti, credenti praticanti, giovani cervelli in fuga. Da questa a quell’altra sponda delle nostre categorie umane diamo giudizi o difendiamo la nostra categoria di appartenenza. Oppure difendiamo la nostra e le altre categorie, ma l’argomento centrale non sono tanto le persone quanto le differenze fra esse. Con il conseguente rischio di mettere più in luce le differenze come disfunzione che come una caratteristica normale e naturale.
E allora che empatia potrò mai avere se non faccio che parlare delle donne in quanto donne e non in quanto persone? Che grado di empatia ho se parlo delle persone definendole a seconda del loro credo, della provenienza geografica o delle preferenze sessuali?
Se non faccio che sottolineare le differenze e riconoscere, così facendo, che quelle di cui parlo tanto sono minoranze bisognose ancora oggi di sostegno che passo sto facendo verso l’evoluzione della specie umana?
Nessun passo in avanti. Passi non pervenuti. Empatia quasi assente, perché piuttosto si tratta di demagogia, protagonismo da prima fila, orgoglio egocentrico, sproloquio, ammissione di un nostro difetto di base: il difetto di considerare le persone diverse da noi come bisognose del nostro sostegno, quando invece meriterebbero solo di essere lasciate in pace, liberate dalla nostra onnipresenza su qualsiasi argomento, indipendenti.
Empatia è il cambio di una foto profilo a sostegno di una causa? Non se si tratta, come credo, di pura voglia di essere protagonisti anche in questioni e battaglie altrui.
Lasciamo che l’empatia non sia una questione, come sempre, di vetrina da cui affacciarci e farci guardare o applaudire. Lasciamo che l’empatia sia comprensione e sostegno reale, perché sostegno è anche fare silenzio qualche volta, fare un passo indietro e lasciare che siano gli altri i veri protagonisti della propria vita.
In conclusione si lotta insieme, sì, cercando di capire ed empatizzare fino in fondo con le battaglie degli altri. Ma assumere i panni altrui non significa rubarglieli di dosso o donare i nostri stracci vecchi come fossimo in una gara tra mendicanti.
Siamo tutti viandanti con un percorso più o meno facile davanti a noi, protagonisti della nostra vita finché è possibile, con un forte sostegno dei diritti nostri e del prossimo ma, si spera, mai con una direzione di pensiero che sia dettata solo dalla corrente o dalle mode ma che sia rappresentazione di noi stessi e di ciò che di bello l’umanità ci insegna: ovvero ad essere semplicemente, tutti insieme e senza sbraitare, solo Persone!
Prima o poi, forse, lo capiremo.

Laura Ressa
frasivolanti di frasivolanti.wordpress.com/ è distribuito con Licenza Creative Commons Attribuzione – Non commerciale – Non opere derivate 4.0 Internazionale.
L’articolo è anche su Medium
Copertina: Photo by Quino Al on Unsplash