
“Chissà com’è il mondo là fuori” – mi chiedevo sempre da bambina e poi da adolescente. A volte me lo chiedo ancora.
L’affaccio è stato il leitmotiv. Mi sono sempre affacciata alle cose da spettatrice, ogni volta da un punto di vista su cui accomodarmi e osservare: un affaccio, un punto panoramico, una finestra, un balcone, un autobus da cui guardare il tragitto e le persone che corrono verso una destinazione, lo schermo di un cinema per vedere la vita scorrere nelle vene delle storie degli altri e mai nelle mie vene.
Le storie straordinarie erano sempre altrove, in un luogo che non era tanto fisico quanto temporale. Però erano tutte storie possibili, prima o poi le avrei realizzate.

Un “poi” reiterato all’infinito per dirmi che ci sarebbe stato sempre tempo per far tutto, per essere come le attrici dei film o le eroine dei libri, per essere come quelle canzoni in cui il protagonista alla fine, dopo mirabolanti peripezie, taglia il traguardo.
Quel “poi” non conosceva spazi, era un sé immortale e onnipotente che fluttuava, e man mano che crescevo si spostava più in avanti. A ogni mio passo quel “poi” ne faceva tre.
Lo guidavo da lontano, come una macchinina telecomandata, di modo che fosse sempre più in là rispetto a me. Un “poi” impossibile da raggiungere, mobile e posizionato oltre la lunghezza delle mie braccia cosicché non potessi abbracciarlo.
Sapete cosa rende bene l’idea? La canzone del Gobbo di Notre Dame, quella che dice “Là fuori / Che darei non so / Solo un giorno fuori so che basterà per ricordare / Fuori dove tutti vivono”.
Nel 2014 alla mia macchinina telecomandata si sono scaricate le pile, così ho dovuto raggiungerla per cambiargliele.
Sempre dagli affacci però mi ostinavo a guardare, come se ci fosse altro da raggiungere, come se quello che mi attendeva dovesse per forza essere distante e per giunta migliore. Come se il presente fosse una banalità e in un istante appartenesse già al passato. Come se nel presente e nel qui-e-ora non ci fosse nulla di interessante.
Nel 2014 qualcuno mi scattò questa foto. Di spalle, con la mia borsa del pranzo accanto, mentre rivolgevo lo sguardo dal Monte dei Cappuccini a una Torino vista dall’alto.
La mia era ammirazione: una che ha voluto sempre vedere le cose dal basso stavolta riusciva a guardare dall’alto in basso. Mi sembrava di dominare il presente, di esserci, di poter restare lì ancora un po’ ma anche di non esserci allo stesso tempo, di voler andare laggiù dove tutti vivono.
Il perenne spostamento delle prospettive è un viaggio in cui il conducente non si stanca mai e non fa mai sosta. Non esiste stazione in cui fermarsi: di ogni posto in cui sono apprezzo lo scenario guardando però sempre altrove, chiedendomi cosa ci sia che non riesco a vedere, fin dove si spinge lo sguardo e se mai ci potrò arrivare.
Fino alla fine mi sono convinta che non voglio smettere di cercare il mio altrove. E alla fine me lo perdonerò perché chi l’ha detto che chi viaggia guardando sempre fuori dal finestrino sia distratto e non si renda conto di dove si trovi?
[Qui ho raccontato uno dei miei luoghi straordinari. Colgo il pretesto per raccontarvi anche che a novembre La Content vi farà viaggiare con la penna in un percorso realizzato insieme a Scuola Holden per scoprire e praticare la propria geografia narrativa, imparare a scrivere storie che raccontino di luoghi e di vite.]
Per fare i bagagli andate qui: https://scuolaholden.it/storie-luoghi-straordinari/
Laura Ressa
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Copertina: il mio affaccio su Torino, la foto da cui sono partita per scrivere questo testo