Giacomo Doni e io siamo amanti degli aforismi ma anche dei luoghi abbandonati e degli incontri fortuiti che il mondo digitale regala. Abbiamo scoperto questa visione comune parlando della nostra passione per tutte le scelte fatte d’istinto, quelle che provengono da una forza sconosciuta che ci chiama e ci conduce verso i luoghi (reali e immaginati) a cui apparteniamo.
Penso che a molti di noi sia capitato di sentire un trasporto, una necessità, un’esigenza, una missione da dover portare avanti. Chiamatela pure vocazione, se volete: comunque la vogliate etichettare, mi riferisco a quella chimica che ci fa andare incontro al nostro destino, che ci fa alzare molto presto al mattino o restare in piedi la notte per fare quel che ci piace. Mi riferisco a quello che, con buona pace dei più cinici, ci fa comunque battere il cuore a un ritmo più veloce o ci fa sentire che stiamo dando un senso alla nostra vita.
Giacomo Doni è arrivato così alla fotografia. Ed è arrivato così a fotografare ex manicomi italiani: luoghi vuoti in apparenza ma le cui pareti trasudano storie, dolore, malattia, esclusione, abbandono ma anche amore, amicizia, scoperta, ritorno alla vita fuori.


17 ottobre: la data dei nuovi inizi

Sulla pagina Facebook Frasivolanti, e in contemporanea sul mio canale YouTube, il 17 ottobre 2020 ho fatto una bella chiacchierata in diretta con Giacomo Doni, fotografo impegnato da anni nel recupero della memoria manicomiale italiana. Il nostro incontro virtuale è coinciso con una data importante per Giacomo: il 17 ottobre di 5 anni fa lui tenne infatti il suo primo incontro pubblico in Liguria.
Potremmo definire il 17 ottobre la nostra data degli inizi.
Per me questa è stata la prima intervista in diretta, il primo esperimento a parole parlate anziché scritte. Quando gli ho chiesto se potessi intervistarlo, è stato Giacomo stesso a spronarmi e così ho provato qualcosa di cui ho sempre avuto timore: il video, la parola parlata, il confronto con il volto dell’altro. Ho sempre preferito “nascondermi” in interviste scritte, quindi questa prova ha acquistato un valore nuovo e spero sia un mezzo da riproporre ancora in futuro.
La sorpresa, neanche tanto inaspettata, è che quando parlano (anche online, non solo dal vivo) le persone approdano altrove e si spingono dove una tastiera o una penna non sempre sono capaci di condurre.

io e Giacomo Doni durante la diretta video del 17/10/2020

Giacomo Doni, il fotografo che ha seguito il cuore e ha deciso di raccontare manicomi

Una scelta non semplice quella di Giacomo, sia per la difficoltà di ottenere i permessi per entrare in certe strutture sia perché raccontare luoghi che hanno visto molto dolore prevede un’immersione difficile nelle storie di chi lì dentro ci ha vissuto. Una scelta non scontata, quindi. Una scelta, potremmo dire, di vita.
Giacomo ha cominciato il suo percorso professionale studiando fotografia, diventando grafico pubblicitario e incuriosendosi poi alle foto e ai reportage di luoghi abbandonati.
Guidato dall’emotività e da alcuni incontri che lo hanno segnato, Giacomo ha capito che la sua missione doveva essere raccontare la realtà invisibile degli ex manicomi. Nel 2006 ha iniziato ufficialmente questo percorso: perché i manicomi racchiudono in sé un motivo forte per essere raccontati e attraversati.

Recuperare storie manicomiali è un’attività inusuale. Il manicomio però, nonostante sia un luogo di cui si parla poco, racconta tantissimo del nostro paese: è un elemento storico importante perché dentro sono racchiuse storie ancora visibili tra i muri e gli arredi logori. Storie che ci aiutano a leggere il presente in modo diverso.

La fotografia di Giacomo Doni ritrae le aree che sono rimaste bloccate nel tempo ed è usata come veicolo di tutela della memoria. La sua ricerca infatti è dedicata agli edifici che non sono stati riconvertiti a diverso uso dopo la legge 180 del 1978.

“Per fotografare queste persone ci vuole molta sensibilità”

Giacomo ha raccontato che, prima di terminare gli studi di grafica, durante una lezione di fotografia, entrò in contatto con alcuni utenti psichiatrici intenti a realizzare dei lavori artigianali.

“Non li fotografate, per fotografare queste persone ci vuole molta sensibilità” – disse la docente.

Quello per Giacomo fu il primo contatto con quel mondo divenuto poi la sua vita e il suo istinto.

Mi è piaciuto molto il testo in cui, raccontando della sua ricerca come di una missione, Giacomo ha scritto:
“Tutti dicono di partire con un “perché”, con un motivo e con un piano, io non l’ho fatto quando ho cominciato a fotografare manicomi. Non scattavo da molto e l’idea di scoprire fotograficamente un mondo che non conoscevo mi intrigava da morire. Non avevo un perché. Fotografavo perché volevo semplicemente scoprire e dentro di me ripetevo che quella cosa doveva essere fatta e che magari un domani avrebbe avuto un senso. Che un domani la Vita mi avrebbe suggerito il motivo. Andare avanti senza un perché.” […] “Un’umanità silenziosa che ogni giorno, lontano dagli occhi addormentati e distratti di chi vive la routine, vive e lotta per qualcosa di umano. Di incredibile. Ricordo gli inviti al ballo di alcuni degenti di una RSA, del pranzo con gli infermieri nel manicomio di Cogoleto dove due utenti hanno brindato con un bel bicchiere di vino rosso la presenza dell’ospite che veniva da fuori Liguria. Ricordo le lacrime che ho versato nel salutare alcune persone che non so se riuscirò mai a rivedere, ma ricordo anche la gioia di aver conosciuto tutte quelle persone che prima di essere un volto erano un gruppo di pixel a forma di nome su internet. Sono le emozioni il motore. E il cuore il radar. Ed è proprio quando mi sono perso dentro le emozioni ho scoperto cosa c’era dentro quei 3 secondi di silenzio di mia nonna mentre guardava quel vecchio scatto appeso al muro: c’era la sua infanzia, c’erano i primi sorrisi, i primi litigi, i primi “ti voglio bene”, i primi sentimenti, i primi passi, i primi colori, i primi desideri. C’era la vita, rinchiusa in 3 secondi di silenzio.”

Queste parole credo ci aiutino anche a concepire il nostro perché. Cosa ci spinge a inseguire un progetto? Che ricadute ha la scoperta del perché e che consigli dare a chi cerca il motivo in ciò che fa?

Giacomo racconta di aver scelto il cuore, di essersi fidato del suo cervello irrazionale. La parola “Vita” lui la scrive con la V maiuscola perché è la somma degli eventi che gli hanno dato la possibilità di capire. Aveva intuito che raccontare certe storie fosse necessario, dunque ha continuato a farlo.
All’inizio non è sempre facile vedere un perché chiaro in quello che si fa. Chiedersi meno perché, quindi, va bene.
Quella motivazione che cerchiamo possiamo scoprirla giorno dopo giorno, incontro dopo incontro armandoci di pazienza e continuando il percorso. La motivazione può essere nascosta dall’entusiasmo all’inizio e il consiglio che Giacomo dà è questo: se c’è una forza tale da farti svegliare alle 3 di notte per prendere un treno che ti porta lontano da casa a fotografare un luogo abbandonato, vuol dire che stai andando nella direzione giusta e devi continuare. Vuol dire che quella missione che hai scelto è talmente forte da farti fare cose apparentemente bizzarre o prive di senso.
Il perché arriva e trova il modo di farsi trovare quando inseguiamo quello che ci fa battere il cuore.

Fondamentale è quindi chiedersi: quello che faccio rappresenta una parte vera di me? Forse – penso io – è come guardarsi allo specchio.

Giacomo Doni in uno scatto allo specchio

In un certo momento del suo viaggio, Giacomo ha pensato di mollare il suo progetto. Lo ha raccontato nel testo “PERSISTENZE e PERSISTENZA: come il fattore tempo ha cambiato il mio modo di vedere la fotografia” di cui cito qui un passaggio:

“Dietro quella semplice parola, “continua”, c’è tutto il significato del tempo: raffigurare qualcosa che si trasforma ma che non perde la sua essenza. Il tempo come elemento capace di conferire un valore unico alla testimonianza fotografica. Una fotografia è come mettere un segnalibro alla vita, fermiamo un attimo per poi riguardarcelo in seguito. Ed è proprio il tempo che regala un valore diverso a quell’immagine quando la guardiamo. Mentre tutto va avanti, quell’attimo rimane immortale per riviverlo ogni volta che vogliamo. Tutto quello che trascorre dal momento dello scatto regala valore e riesce a far leva nelle nostre emozioni.”

Salute mentale e paura

Per spiegare quanto sia importante avere a cuore il tema della salute mentale, Giacomo ha inserito nel suo blog alcune frasi chiave che ci aiutano a chiarire.

“La salute mentale è un argomento che riguarda ognuno di noi, così come lo riguarda l’esclusione.” E poi: “Salvare e diffondere queste storie è responsabilità, perché sono in grado di farci interpretare il presente.” “Raccontare il passato per migliorare il futuro”

La comunicazione dunque è anche nella responsabilità sociale di farsi carico di questi argomenti: è un mezzo per conoscere la storia e saperla interpretare a vantaggio del nostro presente e del nostro futuro. Il tema della salute mentale non deve farci paura.

Durante la nostra chiacchierata abbiamo parlato a lungo delle emozioni che i manicomi hanno lasciato in Giacomo: dal senso di angoscia alla speranza, alla storia d’amore di Luigina e Mario. In tante vicende che appartengono ai luoghi in cui entriamo, possiamo riconoscere noi stessi e decidere di farci veicolo di quella narrazione per raccontarla ad altri, per dare voce alle persone che non possono più raccontare.

Dov’è il fotografo e la persona dietro ogni scatto?

Raccontando dei suoi scatti nei bagni del manicomio di Cogoleto, Giacomo ha scritto “la mia ricerca vuole raccontare un mondo utilizzando solo immagini di silenzio, con architetture, colori e arredamento, persistenze di un mondo che non esiste più ma che è stato dannatamente troppo vivo.”

La scelta di documentare i bagni ci lascia immaginare i momenti più intimi delle persone rinchiuse lì dentro che lì spesso perdevano la dignità di esseri umani. Questo racconto restituisce anche la misura della sensibilità di Giacomo, un’attenzione non solo agli elementi visivi ma anche una profonda cura nell’accostarsi a luoghi che, in fondo, sono persone.

L’intervista è stata un’immersione nelle parole, negli scatti manicomiali e nei progetti che Giacomo ha realizzato e sta realizzando. Tra questi ha un ruolo importante la mostra virtuale pubblicata in occasione del 10° anniversario del suo blog e in concomitanza con il World Mental Health Day 2020.
La mostra, nata con l’idea di svolgersi dal vivo e non in modalità virtuale, mette insieme foto e memorie manicomiali orali. La pandemia ha fatto in modo che Giacomo facesse di necessità virtù, così ha optato per un’esperienza virtuale, che posso assicurarvi è ricca ed emozionante.
Vi suggerisco di godervi questa mostra!

È difficile trasmettervi in forma scritta ciò che l’incontro con Giacomo mi ha lasciato. Ogni tentativo di tradurre la nostra diretta video in un testo lo trasformerebbe inevitabilmente. In questo post ho cercato di condensare alcune delle cose che Giacomo mi ha raccontato e alcune delle suggestioni che ne ho tratto.
Per cogliere tutta la bellezza della sua storia, però, vi consiglio vivamente di fare un giro sul suo blog e di godervi il video qui:

Potete anche ascoltare il solo audio dell’intervista su Spreaker e su Spotify:

La tecnologia che ci conduce alla bellezza, al vero e al nostro perché

Come spesso ribadisco, la tecnologia è solo un mezzo: non né buona né cattiva di per sé. Sta a noi utilizzarla nel modo che riteniamo opportuno, sta a noi scegliere cosa vogliamo farne.

Il digitale in questi ultimi anni mi ha permesso non solo di dare forma alla passione per la scrittura, ma anche di incontrare e conoscere persone che hanno mondi da raccontare e che hanno arricchito il mio spirito oltre che la mia mente.
Credo che possiamo diventare migliori anche grazie a chi ci circonda.
Io ho avuto la fortuna di incrociare persone che arricchiscono il mio bagaglio, persone che non ho timore a definire “speciali” per davvero, con tutto il carico sincero che questo aggettivo porta con sé.

Giacomo e io abbiamo chiuso il nostro collegamento online con i sorrisi di suo figlio Sebastiano che mi salutava con la manina dallo schermo del computer.
Giacomo ha concluso ringraziandomi, e io ringrazio lui! In una delle sue ultime frasi prima di salutarci, ha ribadito che una delle spinte principali per continuare è proprio suo figlio. L’idea di poter dare voce a chi non ce l’ha più, di far tornare a galla storie che troppo spesso vengono dimenticate: tutto questo rappresenta un patrimonio inestimabile.

Quello che fa Giacomo è per tutti noi patrimonio fondamentale!

Un giorno, tra qualche anno, quando suo figlio Sebastiano gli chiederà come e dove trovare il coraggio di inseguire un progetto e dove sia il valore in ciò che si fa ho idea che troverà negli sforzi di ricerca di Giacomo e nella sua sensibilità una risposta chiara, concreta cristallina e di rara bellezza.

Quando comincio a confidare un po’ meno nel prossimo, e meno anche in me stessa, mi basta pensare a persone come Giacomo Doni per ricordare che non devo smettere di cercare modelli da seguire, di credere che esistano maestri da imitare, persone con cui è bello attraversare un pensiero, condividere un’azione, un pezzo di vita o anche qualche ora passata a chiacchierare.
Ho capito che non c’è nulla di male a idealizzare il prossimo: qualche volta si azzecca.

Laura Ressa


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Le immagini presenti nel testo sono tratte dal blog di Giacomo Doni
Copertina: Giacomo Doni, immagine tratta dalla about page del suo sito

Scritto da:

Laura Ressa

Classe 1986 🌻 Digital Marketing Specialist & Web Writer 🌻 Frasivolanti