

Da anni si assiste in Italia a una triste quanto inesorabile ascesa dei privilegiati in qualsivoglia ambito e contesto professionale. Per ora accantoniamo un attimo le belle eccezioni. La situazione di malessere è generalizzata, nessuno si senta assolto ma neanche con la coda di paglia troppo lunga.
Oggi sul lavoro paghiamo spesso lo scotto di chi è arrivato prima di noi e ha fatto terra bruciata intorno a sé con la cattiva gestione, il management malato, la scellerata corsa al potere, la malafede dei singoli.
In questi mesi mi sono confrontata con molti conoscenti provenienti da diverse realtà aziendali. Grazie a loro ho appurato che molte pratiche sono ancora in auge nei contesti professionali: prendersi meriti non propri, parlare al plurale di competenze e attività del singolo, non far crescere le persone, non avere le competenze tecniche e morali per gestire gruppi e aziende. Tutte queste sono enormi falle della società prima ancora che del mercato del lavoro e contribuiscono a fare dell’Italia un paese ancora arretrato.
Il quadro che vien fuori delinea i cosiddetti boomer e gli appartenenti alla generazione X come i protagonisti di una corsa agli ultimi treni disponibili per sentirsi ai vertici. Ma non è solo una questione di generazioni, senza dubbio chi ha troppo potere e teme di essere spodestando può appartenere a qualsiasi categoria e a qualsiasi generazione. La paura convince queste persone a relegare i propri collaboratori ad attività in cui non c’è margine di crescita e dove le peculiarità di ciascuno non sono mai valorizzate.
Non si deve poter crescere: questo è un dogma e in tanti me lo hanno raccontato con esempi concreti in questi mesi. La crescita è di solito appannaggio di una ristretta cerchia di eletti. Ma del resto questa consapevolezza non deriva solo dagli eventi del 2020 ma da un lungo percorso di involuzione.
Sempre dagli umori raccolti in giro, ho constatato che si parla tanto e male dei giovani e del fatto che essi non possano ambire a crescere solo perché prima dovrebbero lavorare 20 anni o più nella stessa azienda per potersi arrogare tale diritto. Sbagliato! Ho conosciuto tantissimi giovani di grande talento la cui voglia di fare e partecipare alla crescita come entità pensanti veniva calpestata per questioni di etichetta.
In effetti il vero problema che emerge dalle testimonianze di tante persone è che in Italia oggi i manager difficilmente sanno essere veri mentori, leader, sostenitori della crescita. Spesso cercano in ogni modo possibile di tenere “a cuccia” chi è più in basso, con cautela e senza dare troppo nell’occhio, ma cercando di accentrare su di sé tutti i meriti di un buon lavoro. Se le cose invece vanno male, la colpa ricade sui singoli. Un metodo antico come l’invenzione della ruota, ancora assai presente e insito nella società stessa. Inutile negarlo e pensare che ci si voglia tutti bene in tutte le aziende.
In cosa si esplica questo quadro? In alcune azioni e pratiche diffuse, di cui tanti conoscenti negli ultimi mesi e anni mi hanno raccontato. Le più frequenti sono:
- Affidare ai sottoposti mansioni di scarso valore che non mettono affatto in luce le competenze del dipendente anche dopo anni di lavoro e non lo fanno progredire. Non fornire occasioni di formazione, checché ne dicano i siti aziendali secondo i quali le persone sono al centro e vengono sempre formate.
- Utilizzare la forma plurale in stile “armiamoci e partite” riferito ad attività che svolge una sola persona più che dare un’idea di team dà l’idea di qualcosa che potrebbero far tutti senza dare atto dell’importanza di ogni singola persona. Non do per forza la colpa a chi parla così, magari in qualche corso di leadership insegnano che coniugare i verbi al plurale sulle attività che svolge un individuo crei maggior senso di team. Ma non funziona così.
- Richiedere al dipendente di assumersi responsabilità senza riconoscere alla persona un ruolo congruo né un aumento di stipendio commisurato al margine di responsabilità. Beninteso: la responsabilità di ciò che si fa è un valore fondamentale, a prescindere dal ruolo e dal livello contrattuale. Ciononostante insistere sul fatto che la responsabilità crescente (senza un riscontro in termini di crescita) sia dovuta a prescindere non è corretto.
- Dell’anno appena trascorso non voglio dimenticare ciò che ci ha insegnato a proposito di smart working e sulla cosiddetta “normalità”. Le parole dette e scritte a proposito di smart working hanno rasentato l’imbarazzante. Una professionista ha ascoltato sul posto di lavoro frasi del tipo “Lo smart working deve valere o per tutti o per nessuno. E poi le persone che vogliono fare smart comunque fuori dagli orari di lavoro vanno in giro a divertirsi“. La traduzione di questa frase è: se le persone possono contrarre il virus quando vanno in giro a divertirsi perché non dovrebbero portare il virus in settimana anche ai colleghi? Dunque che si continui pure a fare come prima, senza cambiare nulla nel modo di procedere consueto. Sempre per la fortissima voglia che tutto torni alla “normalità” esattamente com’era prima senza comprendere che lavorare in modalità diverse ridurrebbe i contagi.
La fotografia che traggo dagli umori raccolti è imbarazzante.
Non è da assurdi orpelli che si dimostra intelligenza e conoscenza. Il cambiamento è la vera via, ma il concetto del cambiare è visto come la bestia nera da cui scappare. Questa visione conservativa dello status quo appartiene, a parer mio, ai privilegiati, a chi sta ai vertici, a chi occupa posizioni di rilievo per diritto di nascita, per appartenenza sociale, per numero di anni di servizio o per altre motivazioni oscure.
Il leader nella mia visione etica del mondo dovrebbe ispirare, essere una guida e un maestro, essere altamente competente e se non lo è dovrebbe cedere il passo e dare valore a chi lo è.
Mi chiedo: cosa ce ne facciamo allora della normalità tanto attesa se poi restiamo uguali a noi stessi? Come scrive giustamente Vincenzo Moretti, non dobbiamo tornare alla normalità, al passato, ma ambire a costruire il futuro in modo che sia migliore del nostro presente.
Dovremmo cambiare i nostri contesti quotidiani perché, se li osserviamo bene, ognuno di essi presenta piccole o grandi criticità che si possono migliorare con un minimo di pianificazione e un po’ di sana onestà. Per il bene di tutti.
O vogliamo davvero tornare alla vita di prima, parlare con le persone e dire “Per carità bellissimo lo smart working, interessante l’esperienza della pandemia per capire alcune cose della vita, ma era proprio arrivato il momento di tornare a fare le cose di sempre“. Vogliamo davvero aderire a questo modello antiquato? Vogliamo davvero che i nostri figli ci ricordino come quelli che durante la pandemia se ne fregavano di ciò che potevano migliorare contando solo i giorni che li separavano dal ritorno all’agognata normalità? Che mondo lasceremo a loro se non sapremo insegnargli che cedere il passo agli altri è importante, che non arraffare tutti i privilegi è sacrosanto, che pensare a costruire il futuro è la scelta più saggia e corretta, che vivere di relazioni di comodo per restare avvinghiati alla propria poltrona è da perdenti?

Caro 2020, ci sono tante persone che non ti dimenticheranno. Non dimentico le tante storie che ho ascoltato, le voci che si sono affacciate alle mie orecchie, le tante cose che ho letto su questi argomenti. Non dimentico le frasi a sproposito, quelle di chi non sa dar peso alle parole.
Da qualcuno la pandemia e lo smart working sono stati percepiti come armi a doppio taglio. Da qualcuno sono stati addirittura visti come circostanze pericolose. Sciocchezze. Io invece credo che sia avvenuto esattamente il contrario: alcuni fra noi finalmente hanno capito quanto sia essenziale confrontarsi, ragionare senza paraocchi, non farsi prendere in giro, non farsi trascinare da parole imposte, osservare la realtà e trarne conclusioni e insegnamenti reali.
Non dimenticate tutte le castronerie che avete ascoltato o letto in questo 2020 benedetto.
Un anno in cui troppe persone hanno perso la vita o il lavoro, in cui l’odio non è diminuito, un anno dal quale troppi sono usciti peggiorati ma che ha avuto il merito di aver fatto uscire tutti allo scoperto.
Sapete qual è la cosa più triste dei racconti, delle storie e delle vite che ho attraversato? Che oggi, per quieto vivere o per garantirsi il posto di lavoro, queste persone non possano esternare ciò che pensano.
In molti contesti non si può dire pane al pane e vino al vino, le parole restano strozzate in gola perché il lavoro si basa su equilibri di ricatto e sui non detti, su spallucce alzate, su segreti di pulcinella, sui buon viso a cattivo gioco. Ma in questo modo, purtroppo, il gioco resta sempre cattivo e gli equilibri perennemente disallineati.
La strada verso il cambiamento è ancora molto lunga. Ma ho idea che chi basa la propria vita su giochi di potere e non rispetta davvero il prossimo, un giorno non troppo lontano farà i conti con se stesso. E con gli altri.
Laura Ressa
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