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Photo by Heather Ford on Unsplash

Nei ricordi di molte persone il cibo occupa uno dei primi posti tra le scene del passato. Le immagini nella mente zampillano come bolle sugose in pentola giunte al culmine della loro cottura.
La domenica mattina, nelle suggestioni della memoria, è spesso associata al profumo di sugo sprigionato dalla cucina, dove la mamma o altri membri della famiglia di solito erano intenti a preparare il pranzo. Parlo di altri perché io ero una di quelli che arrivavano per mangiare e basta quando tutto era già pronto.

Se ci fate caso i racconti di quelle mattine domenicali cominciano con il ricordo di fragranze potenti in grado di destare da sonni profondi. Si stagliavano dalle prime ore del mattino quegli odori, e il loro richiamo era una colazione salata al gusto di cipolla soffritta e di carne pronta per essere gettata nella pozione rossa che borbottava sui fornelli.

Il sugo della domenica è un colore intenso, un momento preciso, la nostalgia d’infanzia, una presenza per molti ancora attuale oppure qualcosa che non tornerà.
Che si usi il sugo pronto o si segua la ricetta di famiglia, che si cominci all’alba a cucinare, che si facciano orrendi tentativi ai fornelli o si creino esperimenti avanguardisti, l’idea alla base è la stessa: santificare il giorno di festa, o il proprio stomaco, con qualcosa che sancisca un momento solenne, che renda quel giorno diverso dagli altri. In alcuni casi il rituale diventa una vera e propria rievocazione storica, perché anche quando siamo lontani il passato bussa e ci chiede di tornare anche in forme nuove.
Il sugo della domenica è i momenti passati a tavola, tra le risate e i sorrisi delle persone a cui vogliamo più bene, tra gli aneddoti raccontati e la tovaglia stesa sul tavolo che profuma di bucato.

Ho sempre sottovalutato l’importanza di ritrovarsi lì, tutti insieme a pranzo, ad assaporare cibi buoni e a guardarsi negli occhi come se quei momenti potessero durare per sempre. E pensavamo davvero che sarebbero stati eterni quei momenti, perché mentre li vivi non pensi al dopo.

Il sapore della nostalgia ha un carattere intenso e permeante. Ha l’odore delle cose che abbiamo sempre dato per scontate e che pensavamo non dovessero passare mai, o almeno che non dovessero passare mai per noi.

Me le ricordo ancora molto bene quelle mattine dal risveglio al gusto di soffritto. In effetti non è passato troppo tempo: aprivo gli occhi di colpo temendo che fosse già ora di pranzo e pensando di aver dormito troppo.

Anche a distanza di anni, anche con le nuove abitudini di vita e nonostante tutto attorno cambi, il profumo del sugo della domenica resta sempre lì, una costante. Ed è come se potesse rimanere sempre aggrappato alle narici, implorandoci di poter restare con noi per non essere dimenticato. Del resto – siamo onesti – chi mai avrebbe il coraggio di dimenticarlo?

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Photo by Quiony Navarro on Unsplash

Ricordo che in casa mia la domenica era il giorno della nonna. La domenica era il giorno del tempo concesso, del tempo sperato, di quel tempo in cui sembrava riuscissimo a fare tutto e niente.

Il giorno della pace, della negazione della fretta. Il giorno della condivisione, il giorno in cui il resto poteva rimanere fuori dalla porta, quel giorno che quando finiva ti lasciava sempre dentro un senso di nostalgico vuoto.
Penso sia la prerogativa dei giorni migliori quella di sembrare sul finale ritorni da viaggi bellissimi o da gite in gruppo. Avete presente quelle gite che facevate da bambini e che vi sembravano spedizioni grandiose alla conquista del mondo? Ricordate come vi sentivate inebriati quando iniziavano e come stavate quando finivano? Sembrava che il mondo, per un attimo, si svuotasse. Non avreste mai voluto che finissero.

Lo stesso si può dire della domenica, per chi ha avuto la fortuna di viverla con le persone care.

Quando mia nonna era ancora in grado di spostarsi da sola a piedi, la domenica mamma, io e mia sorella passavamo a prenderla al mattino da casa sua e insieme tutte e quattro andavamo a piedi a casa nostra per il pranzo.
La sera, non troppo tardi, la nonna toglieva le pantofole e si rimetteva le scarpe, toglieva il grembiule e indossava il cappotto. Prendeva le sue cose e tornava a casa sua, che distava pochi isolati dalla nostra.

Ricordo bene che io e mamma la guardavamo dal balcone mentre percorreva il primo tratto di strada. Sembra sia passato un secolo da allora, il tempo scorre senza aspettare che tu sia pronto e quando assisti all’involuzione della vita di una persona cara fino al tragitto finale, non ti sembra vero che quella persona che vedevi camminare tranquilla per strada a un certo punto della sua vita non sia stata più in grado di camminare o di parlare. Non ti sembra possibile che da un certo punto in poi, lentamente, abbia compiuto un viaggio totalmente nuovo senza poter camminare, senza poter parlare ma muovendosi in un’altra direzione a noi ancora ignota.

In quel tragitto sono certa che nelle narici di mia nonna ci fosse ancora il profumo del sugo, l’odore dei suoi pranzi preferiti, i suoi amati bucatini al forno, i panzerotti, le ricette della sua mamma, il pesce crudo, i ricordi di quello che mangiava da bambina e il pane bagnato nel latte al mattino.

Così mi convinco sempre di più che di noi resta tutto ciò che siamo stati in grado di donare, di assaporare ma anche di condividere. Mi convinco che preparare pietanze per gli altri non sia solo un atto di routine o dovuto ma un vero e proprio gesto di amore per gli altri perché in tutti i miei ricordi migliori ci sono mani amorevoli che mi porgono qualcosa di buono da mettere sotto i denti per risollevarmi il morale, perché stavo male o semplicemente avevo fame. Preparare qualcosa per chi amiamo è un gesto che non conosce limiti nelle tappe della vita.
“Preparalo così”, “questo congelalo”, “questo mi raccomando con un filo d’olio” – anche nelle frasi di raccomandazione quando qualcosa ci viene donato c’è una carezza che arriva sul volto, un bacio in fronte, la coperta rimboccata prima di dormire, la favola della buonanotte.

Per questo ogni volta che una persona cara cucina per me, so che dietro c’è molto altro. Forse è lo stesso motivo per cui sono diventata vorace e la ragione per la quale associo al cibo un moto d’affetto. Questo mi aiuta ad attaccarmi a quel gesto d’amore, a riconoscerne l’importanza, a illudermi di non potermici staccare mai.

E forse mi spiego anche il mio assillo di rastrellare il sugo della domenica dal piatto finché non ne resta neanche una goccia.

Se ho un pezzo di pane, faccio la scarpetta. Se invece non ho il pane, mi impegno per pulire il piatto in ogni modo possibile. Anche raccogliendo il sugo con la forchetta.

Nel piatto non voglio lasciare nulla, così come non vorrei lasciar fuggire il tempo e tenere sempre con me il momento prezioso. Vorrei nutrirmi sempre dell’affetto e della vicinanza degli altri, vorrei sempre avere quella coperta rimboccata e quel piatto caldo. Ma nell’istante stesso in cui l’ho divorato, il momento è già trascorso, è andato e certamente la fine di un piatto ci abitua ogni volta all’idea che dovremo fare i conti con altri piatti che finiranno. Con altri viaggi e altre gite che termineranno, altre domeniche insieme che voleranno.

Come in un cerchio, come in un piatto, come nel mestolo che gira in senso orario, il ciclo continua. Ci saranno nuovi piatti, nuovi sughi, nuove forchette, nuove ricette, nuove pentole e nuove tovaglie fresche di bucato. E ci saranno anche dopo di noi.
Ma forse qualcosa, fosse anche una sola goccia di sugo della nostra storia culinaria personale, riesce a cristallizzarsi per sempre. A restare incastonato lì, in qualche meandro tra le narici e la mente o in qualche quaderno di ricette, e da lì, forse, riesce a ripetersi ciclicamente nel tempo. A non essere solo un pasto lento o frugale, a non essere solo sussistenza o necessità.
Forse qualche goccia del nostro sugo della domenica e quei profumi forti che sentivamo al mattino troveranno il modo di tornare, di restare, di riproporsi ciclicamente nella nostra vita per riportarci all’origine.

Photo by Danijela Prijovic on Unsplash

Laura Ressa


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Copertina: Photo by Keriliwi on Unsplash

Scritto da:

Laura Ressa

Classe 1986 🌻 Digital Marketing Specialist & Web Writer 🌻 Frasivolanti