
Un giorno pensi che essere divertente nella vita sia tutto ciò che ti serve per star bene. E in effetti funziona: la verve ironica (o addirittura comica) ti fa star bene fin quando riesci a non abusarne. Fin quando, cioè, non credi che quello sia l’unico strumento per esprimere te stessa.
Riuscire a far ridere in una serata tra amici, e poi anche sui social network da quando sono entrati nella mia vita, era un modo per farmi notare ma anche per sentirmi felice di aver fatto sorridere qualcuno.
Solleticare le corde dell’umorismo e confezionare sagaci battute cesellate ad arte aveva un effetto stupefacente su di me: nel senso che mi dava assuefazione. Era l’equivalente di una foto con décolleté in primo piano, un modo per attirare l’attenzione senza però dover mostrare il mio corpo ma solo quello che riuscivo a mostrare della mia mente. Vestivo la mente con una generosa scollatura che mostrasse quel lato di me.
La scollatura, intesa nel gergo comune come un modo per mettere in mostra il seno, diveniva per me una scollatura dal reale, ossia uno scollamento dal modo classico di interpretare le situazioni.
Era come poter modellare la plastilina. Un’attività creativa e senza schemi in cui si può fare a meno degli stampi e dar vita a creature a mille colori, ad animali con tre teste, a utensili inutili e inesistenti, a forme improbabili.
In ogni occasione di incontro con gli altri la sfida era avvincente: mi sentivo costantemente nel mezzo di un esercizio d’improvvisazione teatrale. Avevo gli argomenti e le persone e di volta in volta mescolavo questi ingredienti nella tavolozza per poi presentare con orgoglio il risultato del miscuglio.
L’effetto atteso non era sempre garantito e non sempre era gradito, ma la sfida mi avvinceva proprio per questo motivo: mi invogliava a fare di meglio, a provare a indovinare le reazioni delle persone. Mi spingeva a guardare oltre, a dare una lettura diversa a ciò che accadeva, a giocare con le parole per ribaltare significati e contesti, a vedere una scintilla di sorpresa negli occhi.
Quanto più riuscivo ad avere la risposta pronta e la reazione lucida e veloce, tanto più quella scintilla aumentava e mi alimentava.
Da un giorno all’altro, però, mi sono ritrovata nella condizione di chi ha perduto per un attimo la tavolozza di colori a cui era affezionato.
Gli ingredienti che mi ritrovavo in mano non funzionavano più, una parte di quella magia era svanita, smarrita chissà dove. Per qualche tempo non sono riuscita a controllare l’ironia e così l’ironia ha preso il sopravvento trasformandosi in una ricerca di approvazione che non faceva ridere nessuno.
Semmai faceva piangere.
Mi ritrovai a dar vita al mio peluche sui social network o a voler far battute anche quando sarebbe stato meglio parlare in modo naturale. Oppure tacere.
Spesso il silenzio è il miglior consigliere.
Ho avuto paura di essere poco divertente e non ero abbastanza soddisfatta di quello che dicevo quando ero in compagnia di altre persone. O chissà quale altro meccanismo possa esserci dietro lo scivolamento dell’ironia: nessuno conosce davvero le ragioni delle virate. Le seguiamo e basta e un giorno, se siamo fortunati, ci svegliamo e capiamo in che direzione stiamo andando.
C’è stato insomma un tempo in cui essere all’altezza delle aspettative rappresentava l’obiettivo principale ed essere felice significava strappare necessariamente un sorriso d’apprezzamento dalle labbra di chi mi ascoltava.
Non erano ammesse riflessioni profonde. Banditi gli argomenti che consideravo tristi.

Riapro gli occhi. Nuovo contesto, nuova situazione. Sono passati mesi, anzi sono passati anni. Mi guardo allo specchio e mi chiedo: Cosa cerchi di ottenere? Piacere agli altri è una sfida impossibile e, per certi versi, inutile se credi che sia l’unico modo per sentirti migliore di come sei realmente.
Se vuoi mantenere accanto a te le persone compiacendole o cercando di scimmiottarti presentando solo la tua versione buffa, forse stai virando verso il lato sbagliato della carreggiata e rischi un frontale.
Il primo tempo della mia ironia è passato ma di certo non è stato dimenticato. Così come non è stato dimenticato neanche il tempo dell’ironia che faceva piangere. Ho puntato quindi sulla cripticità, così se le battute non si capiscono non devo spiegarle anche perché le battute criptiche o le capisci subito o niente.
Rischio ancora di fare pessime battute, e le faccio. Sono quelle che mi fanno ridere di più perché, quando capitano, mi faccio tenerezza e mi perdono se non sono stata all’altezza delle mie aspettative.
L’ironia si è trasformata quando ho percepito quanto fosse sottile il confine tra far ridere e far piangere e quanto fosse interessante invece il lavoro da equilibrista di chi vuole suscitare risate senza sconfinare. Quel lavoro sta tutto nel riuscire a non ledere la propria intelligenza.
Ho sbagliato tante volte.
Tante volte sono inciampata nella pretesa di dover essere ironica o sagace a tutti i costi. Mille volte mi sono sforzata di far ridere e invece, per sforzarmi di far ridere, ho fatto piangere.
L’ho capito più tardi, eppure forse non l’ho capito del tutto perché tuttora scatenare una risata è per me un sogno a cui non riesco a rinunciare.
Mi sforzo però di scrivere e parlare di me anche in un testo che non sia necessariamente ironico. Mi accontento di essere qualcosa che si avvicini il più possibile a una persona reale e non a una parodia di me stessa.
Tutti usano parodie, solo che a volte è difficile rendersene conto. C’è chi usa la parodia della persona ironica, chi usa la parodia della persona colta, chi usa la parodia della persona moralmente ineccepibile. Ognuno sceglie il vestito da indossare e io non penso di aver deciso definitivamente quale mettere. Ne indosso diversi, ma tutti mi devono rappresentare. In certi casi è bello uscire di casa anche con la mente nuda o vestirsi “a cipolla”, se proprio voglio fare battute che facciano piangere.
Il confine tra far ridere e far piangere dunque è labile. A volte sta in un’intuizione fulminea, a volte nella comprensione delle persone che ci ascoltano. Sta nel cercare ciò che vogliamo dalle relazioni, ma sta anche nel fermarci al momento opportuno: sfida difficile quasi quanto quella di far ridere sul serio.
Far ridere sul serio, ecco un ossimoro calzante. Far ridere è una cosa seria, è sudore, è fatica vera, è esercizio, è costanza, è riflessione. Anni fa ero convinta che esistessero giorni normali, giorni no, e QUEI GIORNI. Quei giorni erano quelli in cui avevo le antenne del cervello al massimo della loro efficacia ironica: ascoltavo una frase e subito mi veniva in mente una battuta, leggevo una notizia e mi bastavano pochi secondi per confezionare una sagace narrazione/variazione sul tema.
Col tempo QUEI GIORNI sono diventati sempre più rari. L’ironia ha cominciato a farsi attendere. Il gioco più duro è saperla aspettare, quando c’è, e accoglierla.
Ora mi sento più orientata verso le freddure, e pure lì il rischio di congelamento è alto.
Se con l’ironia rischi di far piangere, con le freddure sfidi a viso aperto il circolo polare artico.
Cosa ho capito fino ad ora sul far ridere, sul far piangere e sul congelamento?
Ho capito che l’ironia può essere dominata ma va presa per mano.
La portiamo con noi e poi la lasciamo per un po’, se non altro per dimostrare che riusciamo a vivere senza.
L’ironia è un pagliaccio che ci fa attraversare il viaggio mettendo naso rosso e parrucca ma ha bisogno di cure: quando la teniamo sveglia per troppo tempo oppure, al contrario, la abbandoniamo, si logora e va via.
Laura Ressa
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