Il testo “Siamo vulnerabili”, scritto da Vincenzo Risi, è apparso su Nòva all’interno del blog di Vincenzo Moretti #lavorobenfatto.

Quando si parla di lavoro e di futuro Vincenzo Moretti è sempre lì in ascolto e quindi, come spesso accade, anche su questo tema ha dato ampio spazio alle considerazioni dei lettori. Ne è nato uno scambio collettivo di pareri e visioni sulle presunte colpe dei nostri genitori, su una società spesso rea di non fornire ai giovani gli strumenti per farsi valere ed esprimere le proprie potenzialità, sul futuro che ci attende.
Questo incontro di idee ha suscitato anche in me sentimenti e riflessioni che si sono propagati nel corso dei giorni.
Ecco il mio contributo a quella bellissima riflessione collettiva su una generazione vulnerabile (o forse soltanto molto impaurita). 

Mai come in questo periodo storico i giovani hanno sentito il bisogno di colpevoli. 
Il fatto è che i colpevoli, in qualsiasi periodo storico, ci sono sempre stati e ci saranno sempre anche nel futuro dei nostri figli e nipoti.
Le colpe sono il nostro pane quotidiano ma troppo spesso ci abituiamo a puntare il dito verso gli altri anziché puntarlo, almeno ogni tanto, verso noi stessi.
I colpevoli, come dicevo, ci sono sempre stati e probabilmente ne avremo bisogno sempre per giustificare le storture della storia e quelle azioni da cui non riusciamo a tornare indietro, le scelte sbagliate o azzardate che abbiamo fatto.
Del resto la perfezione è un traguardo irraggiungibile che ci ostiniamo a inseguire. Nel tentativo di raggiungerlo ci macchiamo spesso di imperfezioni e passi falsi che, a lungo andare, ci concediamo come fossero consuetudini consolidate e rassicuranti.
Ci sono stati i colpevoli delle guerre, della fame, i colpevoli dei disastri ambientali e delle disparità che tuttora continuano a mietere vittime e odio da un capo all’altro di questa nostra povera terra assetata di giustizia. Di quella giustizia vera che spesso, in ogni ambito, stenta o fatica ad arrivare.
Le colpe di chi si trova ai vertici e abusa del proprio potere per lasciar perire gli innocenti a fronte di un ritorno economico. Le colpe di chi continua a martoriare territori una volta floridi pur di non distruggere fabbriche della morte che mietono sangue ma mietono anche denaro.
Parlo di queste colpe grandi ma anche di colpe più piccole, quotidiane.

Siamo stranieri in casa nostra? Forse. Ma non sono solo i giovani a sentirsi così e non è tutta colpa dei nostri genitori se ci sentiamo stranieri. 
Ai genitori è spettato l’arduo compito di educarci, di aiutarci a vivere rispettando la nostra dignità e quella altrui. E purtroppo non si nasce con la certificazione di buon genitore: i nostri genitori, come quelli di tutte le generazioni, sono umani e dunque fallaci.
Cercando di fare del proprio meglio a volte si casca nel tentativo di proteggere così tanto i propri figli al punto di non riuscire a dar loro i consigli giusti al momento giusto. Si rischia di proteggerli così tanto da renderli ciechi anche di fronte ai propri stessi errori.
E quanti esempi abbiamo oggi di un modo di vivere diffuso in cui l’errore personale non è mai considerato errore! Una società in cui ci si è abituati velocemente a non considerare gli sbagli dei figli come sbagli. L’idea assai diffusa è che gli errori non esistano e che, se esiste un errore possibile, è solo quello di essersi fidati troppo degli altri o di aver donato troppo alle persone sbagliate.
Per me il genitore migliore è invece colui che dà ma che sa togliere, che sa redarguire con un barlume di oggettività. Quello che sa togliere al proprio figlio la certezza di aver sempre ragione.
Il buon genitore, per me, è colui che parla con l’esempio e che sa mettere i figli di fronte agli errori che commettono.

Un interessante articolo pubblicato di recente su The Atlantic afferma che i genitori odierni hanno un maggior contatto fisico con i propri figli e sono più presenti di quanto non lo fossero i genitori degli anni ’60.

Questo fenomeno però presenta un conto salato: un rovescio della medaglia alquanto triste se pensiamo che i genitori oggi, secondo la disamina di Erika Christakis, sono più distratti nel loro rapporto con i figli. La loro presenza, quasi soffocante, si esprime nella vicinanza fisica ma non sempre nell’attenzione reale.
Presi dagli schermi dei propri dispositivi digitali, dalla voglia di confrontarsi a tutti i costi con gli altri, alcuni genitori rischiano di perdere gradualmente di vista l’essenza del rapporto che instaurano con i figli.
E poi, anche se ognuno sceglie liberamente come vivere e cosa mostrare, la maternità e la paternità ostentate in ogni momento della vita del figlio (spesso prima ancora che il bimbo nasca) mi trasmettono una tale stucchevolezza da lasciarmi atterrita per il destino di quei figli la cui vita è già in pasto a un algoritmo social prima di cominciare.
La libertà digitale è fondamentale ma spesso nascondiamo dietro al concetto di libertà il bisogno di essere guardati, apprezzati, il bisogno di affermare “io esisto e sono fertile” oppure “io esisto e sono migliore” o semplicemente “io esisto”.

Un fenomeno diffuso, quello raccontato da The Atlantic, che non è di certo la regola ma che tristemente possiamo osservare con facilità guardandoci intorno.
Quella che sta crescendo a portata di schermi, volenterosa di essere sempre connessa non solo a una rete wifi ma soprattutto alle vite altrui per scoprirne i lati evidenti, oscuri o malcelati, è la società del domani.
Le eccezioni esistono e, proverbialmente, confermano la regola.

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Photo by Morgan Basham on Unsplash

 

Dunque che ruolo rivestono i genitori nella ripartizione di colpe e spinte al cambiamento? Parto da me per cercare di spiegarlo. 
Mia madre ha rappresentato un esempio: se sono stata in grado di seguirlo ancora non lo so. Lei ha sbagliato, come ho sbagliato io e come sbagliano tutti, e questo mi ha dato la misura e la percezione di quanto l’errore sia insito nella nostra natura. Sbagliando, però, si impara e credo che molte persone stiano imparando o impareranno a ripartire proprio dagli sbagli.
Gli sbagli sono un tesoro da cercare, una bussola per ritrovarsi. Sono indispensabili come l’acqua nel deserto: attraversarli riuscendo a uscirne indenni è una grande conquista quasi come la scoperta di un’oasi in un territorio essiccato e prosciugato.

Mia madre non ha raggiunto posizioni importanti nel lavoro ma ha sempre lavorato. Ha avuto delusioni ma non ha mai fatto delle delusioni il suo argomento di conversazione. Del resto sono convinta che chi si lamenta sia sempre chi ha davvero poco di cui lamentarsi.

Dunque è questa la soluzione ai disastri moderni? Non lamentarsi e andare avanti? Beh, forse sì.
Ma non lamentarsi non significa smettere di lottare o di sottolineare ciò che non funziona nella nostra società. Non lamentarsi significa andare avanti per la nostra strada facendo ciò che sappiamo fare senza rinunciare ai diritti fondamentali e capendo che la società si cambia ogni giorno partendo dalle piccole cose che diamo per scontato.
Indignarsi serve? Sì, se ci si indigna nei luoghi giusti e con i toni giusti. Esprimere il proprio dissenso su Facebook non so quanto ci possa aiutare a migliorare il mondo nel quale viviamo. Al massimo può aiutarci a ricevere qualche like in più oltre a quelli che già racimoliamo con le foto dei nostri figli o delle nostre scampagnate nel bosco.
Abbiamo tra le mani uno strumento potentissimo: la parola, la scrittura.
Le nostre parole sono massi che possiamo spostare anche solo con la forza del nostro fiato, ma le parole diventano un bene inestimabile solo se unite all’esempio: in questo modo possono trasformare una vita intera.

Le colpe di quello che siamo e della società in cui viviamo sono da ricondurre alle scelte di chi ci ha amato? Non sempre.
Chi provoca il male non ama davvero, vuole soltanto sfruttare persone e situazioni. Quindi il primo passo fondamentale per cambiare la propria vita e quella degli altri è riconoscere il bene. Riconoscerlo davvero in ogni persona che incontriamo, in ogni insegnamento che dalla vita riceviamo nel bene e nel male.

Di colpevoli ne abbiamo avuti troppi, e spesso siamo stati noi stessi causa del nostro male. Anche inconsapevolmente, anche per mano di chi (sulla carta) ha dichiarato di volere solo il nostro bene. Eppure, col tempo, ho scoperto una cosa un po’ contro-intuitiva: non è vero che chi fa del male non rappresenti un bene per noi. Magari chi fa del male (e intendo anche noi stessi) ci fa capire dove dobbiamo cercare il bene reale e dove ridirezionare la strada.
Mia madre non ha potuto cambiare granché del corso della storia attuale, ma chi poteva realmente immaginare certe derive e chi poteva agire nel bene della collettività? Non do a lei le colpe per un presente che è preda di privilegi, divisioni e lotte per ottenere un pezzo di proprietà privata.
Sbagliare è prerogativa di tutti e lo è stato sempre. L’unico lato terrificante dell’errore è la decisione di non ammetterlo mai.

Io mi sento spesso a disagio con i miei stessi simili, ma non posso definire una sola categoria di colpevoli. 
A volte la colpevole sono io, altre volte mi sento a disagio con chi ricopre una posizione di rilievo nella società e vuole mantenere stretta questa posizione privilegiata anche a scapito di giovani più meritevoli di occuparla.
Mi sento straniera a casa mia ogni volta che qualcuno butta una bottiglia in mare o sporca il marciapiede per grigliare la carne, abusivamente, sul suolo pubblico.
Mi sento straniera ogni volta che vedo abusi di potere, ogni volta che un giovane è costretto a fare la gavetta anni o a lavorare gratuitamente affinché altri possano mantenere la propria poltrona.
Mi sento straniera di fronte a Quadri aziendali che, in quanto “quadri”, si credono indispensabili e irripetibili come dipinti di Giotto.
Mi sento straniera con chi parla di innovazione e resta arroccato su pratiche vecchie un secolo.
Mi sento straniera con chi parla di prospettive di lavoro e poi non paga i propri collaboratori. Mi sento straniera con chi paga in visibilità il risultato di impegno e tempo prezioso.
Senza scomodare la politica, che di privilegi non dovuti ne è la definizione più lampante e tristemente evidente, parlo anche di poltrone più piccole: dei baroni o baronetti che infestano aziende, associazioni, ambienti di lavoro e di ricerca ad ogni livello.

Siamo vulnerabili di fronte a tutto questo? No, a volte sentirci vulnerabili è proprio ciò che ci paralizza perché lascia la strada spianata a chi occupa alti livelli nella scala dei privilegi e non molla l’osso neanche in mezzo alla tempesta. 
Io sono vulnerabile perché qualcun altro possa sentirsi, di contro, padrone di un luogo e di uno spazio che non ha ottenuto per merito ma, più spesso, per discendenza, per scambio di favori, per appartenenza geografica o dinastica.

Tuttavia il mio sguardo sul mondo e più positivo che mai! 
Eliminate le scorie, interne ed esterne, non cedo alla quotidiana lotta dei poteri, piccoli o grandi che siano. Non cedo alla perfezione, o almeno ci provo. Mi sottraggo ai veli che appannano gli occhi e che non lasciano trasparire i pensieri e le intenzioni celate dietro alle azioni. Prediligo i rapporti reali, coltivo solo quelli chi mi fanno respirare. Per me anche queste piccole scelte quotidiane sono briciole in un campo di grano, tasselli messi insieme ogni giorno per cambiare il mondo a partire dal mio piccolo mondo.
Non accetto le amicizie di comodo e quelle di facciata, non accetto i rapporti logori tenuti ormai in piedi solo dai “così si fa”, non cedo alla cortesia di chi fa buon viso di fronte e cattivo gioco alle spalle.

Non cedo a chi vuole mostrare sempre il lato negativo della realtà sperando che a quel lato io impari a farci il callo fino a non vederlo più.
Non cedo neanche di fronte a chi crea nemici immaginari e barriere. Non cedo a quei contesti in cui i privilegi si sprecano e gli sprechi si accumulano come legna da ardere.

Dall’erba cattiva (propria o altrui) ci si rialza sempre. 
Bisogna però cercare il giusto appoggio e trovare la forza nelle braccia per sollevare il resto del corpo.
Non credo che questa sia una visione forzatamente ottimistica: credo invece che sia l’unica via che ci resta se non vogliamo lasciare la strada spianata a chi ci vuole assuefatti ai dati di fatto.

Forse non possiamo cambiare subito il corso della storia attuale, ma possiamo cambiare la nostra storia e insieme ad essa la storia di chi percorre la strada accanto a noi.
Come recita il proverbio della goccia nel mare?
Ogni azione che compiamo si propaga e, se propaghiamo bene, la goccia diventa mare e il mare oceano.

Siamo leve. Ma per rialzarci abbiamo bisogno di far leva su noi stessi prima di trovare appoggio in ogni altro fattore esterno. 

 

“Non si lotta solo nelle piazze, nelle strade, nelle officine, o con i discorsi, con gli scritti, con i versi: la lotta più dura è quella che si svolge nell’intimo delle coscienze, nelle suture più delicate dei sentimenti.”

(Pier Paolo Pasolini)

 

 

Laura Ressa

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Copertina: Photo by Morgan Basham on Unsplash

Scritto da:

Laura Ressa

Classe 1986 🌻 Digital Marketing Specialist & Web Writer 🌻 Frasivolanti