
Quelle di Nicolae Tonitza sono pennellate potenti, nei suoi fiori rossi lo sguardo si perde. Un’intervista è come un tuffo degli occhi in quelle pennellate: un’immersione in un dipinto in cui entra in gioco la comprensione di un’altra persona e la possibilità di raccontare la sua storia.
Quella che leggerete nelle prossime righe è l’intervista a Daniela Chiru, HR Specialist cresciuta al crocevia fra due culture e con la passione per arte, letteratura e viaggi.
Daniela mi ha raccontato il suo viaggio nelle persone, un viaggio che abbiamo dipinto a 4 mani.
La scrittura è stato il nostro principale mezzo di comunicazione: ci ha permesso di scandire i tempi e di prestare ascolto ai feedback. Le parole sono state strumento per definire ritmi e immagini attraverso cui raccontare questa storia.
1) A Bucarest per 6 anni hai condotto molte interviste lavorando come speaker in radio. Come ti sei ritrovata in quel ruolo e qual è il ricordo più bello dell’esperienza radiofonica?
Ora cosa provi a vestire i panni di chi risponde alle domande?
Il mio periodo in radio coincise con un’epoca di mutamenti per la cultura musicale del mio paese.
La dittatura comunista degli anni ’80 aveva imposto via radio 12 ore al giorno di musica, prevalentemente rumena, e notiziari sulle visite del dittatore nelle fabbriche.

Dalle limitazioni culturali passammo, nel 1990, a 24 ore di musica non-stop, alle radio private, alle hit del Top 100 MTV.
Fu in quel contesto che iniziai a lavorare in radio, durante gli studi universitari, nella nuova Romania libera e democratica.
La nostra missione era sviluppare una nuova cultura musicale, educare il gusto del pubblico e fornire maggiore consapevolezza in un paese abituato ad ascoltare solo trasmissioni e canzoni che elogiavano il dittatore.
Ho avuto il piacere di intervistare politici, attori, pittori, scrittori, cantautori.
Le parole che scegliamo per esprimere e colorare i nostri pensieri devono essere setacciate con cura. In radio sono tutto quello che abbiamo.
Il linguaggio utilizzato deve essere luminoso, potente, positivo o carico di dolore. Ed è così che va portato in onda.
Ricordo l’intervista a un bambino orfano che viveva in strada nei dintorni della stazione, adottato dai clochard, nutrito dal personale ferroviario, vestito da qualche pendolare.
A 6 anni, dopo la morte del padre, il bimbo era salito su un treno alla ricerca di una sorella maggiore che ricordava a malapena. Desiderava trovarla per riabbracciarla, per farsi raccontare com’era la mamma che non aveva mai conosciuto.
In mezzo ai ricordi di centinaia di interviste il mio pensiero si sofferma tuttora sul suo sguardo, sulle sue parole cariche di tristezza e speranza.
Come mi sento ad essere l’intervistata? Felice perché ogni risposta è un ricordo e un’esperienza.
2) Ti va di raccontarmi la Romania della tua infanzia e giovinezza?
Cosa ricordi del regime dittatoriale?
La nostra vita prima del 1989 si svolgeva con tranquillità. Il comunismo significava un lavoro e una casa per tutti.
Partiamo dalla piramide di Maslow? Nessuno pativa la fame, anche se il pane, lo zucchero, la carne e la farina venivano distribuiti secondo tempi e quantità prestabilite.
Il negozio di alimentari era quasi sempre chiuso e in mattinata sulla porta d’ingresso veniva affisso un foglio bianco con su scritto: Oggi farina/carne o limoni.
Lì davanti si formava sempre una lunga fila di bambini che aspettavano i genitori.
Lo sportello del negozio apriva nel pomeriggio, all’ora in cui sarebbero arrivati gli adulti a fare la spesa.
Nessuno moriva di freddo in casa o sulle strade. Tuttavia negli appartamenti a volte mancavano energia elettrica e riscaldamento, che in inverno venivano interrotti la sera e riattivati la mattina.
Il messaggio trasmesso era quello del sacrificio, del risparmio necessario per gestire i consumi con le risorse interne e questo sforzo comune si percepiva e si pativa come il freddo dell’inverno. Ricordo che mia madre, per farmi divertire e dimenticare le temperature rigide, mi avvolgeva le coperte attorno ai fianchi e mi faceva girare su me stessa per creare il vestito da principessa.
Se continuassi con i ricordi forse susciterei compassione oppure dimostrerei di provenire da un paese lontano, povero e strano.
Non è così. Da bambini non eravamo infelici e non sapevamo che la vita potesse essere diversa da quella che stavamo vivendo.

Le nostre ricchezze sono Brancusi, Nicolae Tonitza, Emil Cioran, Octavian Paler: quindi l’arte, la filosofia, la letteratura.
La resilienza, la voglia di apprendere e la flessibilità che mi caratterizzano provengono dalle esperienze vissute lì.
Gli anni degli studi universitari sono stati i tempi delle scoperte, della rivoluzione culturale, dell’innovazione, dei primi PC, dei libri e delle videocassette.
Ricordo con emozione i giorni in cui riscuotevo la borsa di studio: correvo subito in libreria con lo zaino pronto per essere riempito.
3) Le stazioni, i bagagli da riempire e disfare, le storie nelle voci dei passanti, la scoperta di mondi nuovi, i monumenti che hanno assistito all’alternarsi delle epoche.
Per me il viaggio è tutte queste cose. Per te cos’è e che rapporto hai con culture diverse?
I viaggi per me sono magici.
Abito a Firenze. Questo significa aprire la finestra e vedere il sole splendere tra i colori della cupola di Brunelleschi oppure trovarsi in Piazzale Michelangelo al tramonto, tra suoni di campane e turisti seduti sulle scalinate.
Il giradischi in casa mia sprigionava note di musica classica e i primi viaggi che ho fatto sono stati insieme a Jules Verne, tra avventure romantiche e tecnologia futuribile.
Adoro viaggiare quanto adoro tornare a casa e i ricordi di viaggiatrice con l’audioguida, la macchina fotografica e un libro in mano si perdono tra musei e pinacoteche nel mondo.
Viaggiando ho imparato che parlare con le persone che incontri ti arricchisce. Trovi sempre dei punti in comune, un linguaggio approssimativo a metà strada, un sorriso che migliora l’accento sbagliato.
Sono cresciuta con il timore di dire o chiedere cose sbagliate ma lavorando in radio, e una volta arrivata in Italia, sono cambiata.
In Romania se vai dal fornaio chiedi il pane, paghi ed esci salutando. In Italia invece so anche quanti figli ha la fornaia e quanti cornetti ha venduto prima del mio: lo racconta spontaneamente.
Una volta, sul treno Firenze – Venezia, mi è capitato di viaggiare accanto a una signora che mi ha raccontato il libro che stava leggendo. Degli italiani apprezzo proprio questo: la spontaneità nel raccontarsi e condividere esperienze, l’apertura al dialogo.
Comunicare, ascoltare e osservare sono parte del mio viaggio quotidiano.
L’epoca contemporanea è stata definita l’era delle migrazioni dai sociologi Mark Miller e Stephen Castle e credo che chi viaggia, o cambia paese, cerchi nei luoghi un senso di appartenenza che non neghi l’identità d’origine.
La diversità culturale è fonte di scambio e di creatività.
4) Hai scritto “I miei professori erano ritornati in Romania negli anni ‘90 per portare insegnamenti e innovazione“. Gli insegnanti, dopo la famiglia, sono l’ingrediente per costruire curiosità e coscienza culturale.
Per te è stato così? Qual è l’insegnamento più importante?
Sono cresciuta tra gli insegnanti: mamma era docente di francese e russo, papà insegnava storia.
Entrambi furono costretti ad entrare in fabbrica come segretaria e tecnico, ma a casa continuarono ad essere i miei insegnanti preferiti, sempre pronti ad aiutarmi e a spiegare oltre i libri.
La Facoltà di Sociologia e Psicologia e le ricerche sulla nuova società rumena furono l’inizio di un lungo percorso formativo e di sviluppo personale e professionale.
In quel periodo era necessario educare alla democrazia, condividere valori e comportamenti nuovi. Come direbbe John Dewey, la democrazia non poteva essere solo una forma di governo ma a way of life, cioè uno stile di vita.
L’entusiasmo dei docenti, i libri che potevo leggere, le serate in teatro, il balletto e la musica di Tchaikovsky sono emozioni che mi hanno trasformato nella persona che sono oggi.
Non fermarsi mai perché il mondo non si ferma. Essere sempre curiosi, creativi e osare a sognare e a farsi valere. – Sono queste le linee guida trasmesse dai miei docenti.
5) Ripensando al percorso che ti ha condotto alla tua professione, oggi come ti definiresti? Chi è Daniela Chiru persona e professionista HR?
La mia vita è cambiamento, crescita e innovazione. La formazione personale è uno stile di vita.
Respiro la passione per le risorse umane, per il benessere, per lo sviluppo del potenziale e vivo la mia professione con responsabilità e consapevolezza cercando di creare un ambiente in cui ognuno possa collaborare ed eccellere. Il mio ruolo all’interno dell’organizzazione si colloca alla convergenza dei due filoni: i processi aziendali e i processi mentali ed emozionali.
Mi considero un facilitatore e credo nelle parole di Sam Kaner: il facilitatore aiuta le persone a sviluppare il proprio pensiero e a metterlo in pratica.
La mia missione è quella di stimolare le persone a credere nel lavoro che svolgono e a dare senso al percorso professionale.
La risorsa umana è l’insieme di tante energie e di altrettanto potenziale inespresso, quindi è importante coinvolgere e innescare la creatività per creare consapevolezza e culture collaborative (come scrive Alessandro Donadio).
Cerco di entrare con delicatezza e rispetto nella vita degli altri, con fiducia nella loro capacità di stupirmi.
Più che parlare di me, preferisco vedermi riflessa nel sorriso delle persone.
6) Hai letto Il piccolo principe di Antoine de Saint-Exupéry a 35 anni, in Italia perché in Romania quel libro non c’era. Una frase del romanzo recita “Non si vede bene che col cuore. L’essenziale è invisibile agli occhi“.
Ti è successo di vedere meglio col cuore che con gli occhi? È capitato durante un colloquio di lavoro?
L’essenziale è invisibile agli occhi.
Tuttavia ci sono tanti strumenti psicometrici che possono cogliere la complessità e la ricchezza dell’essere umano.
Il modello Emergenetics, ad esempio, si basa su un design d’indagine psicologica ed è uno strumento efficace perché rivela le diversità, i modi in cui le persone pensano e si comportano.
Conoscere gli stili cognitivi e comportamentali di ciascuno ci rende consapevoli dei punti di forza e delle possibilità di miglioramento.
Sono tanti gli strumenti che ci aiutano ad individuare le strategie per costruire rapporti efficaci, motivare e stimolare le persone, favorire produttività e benessere.
In un certo senso questi strumenti servono a vedere l’invisibile.
Anche se i colloqui di lavoro differiscono l’uno dall’altro, l’obiettivo rimane lo stesso: valutare le reazioni e le risposte, la capacità di comprendere e gestire le situazioni insieme agli altri.
Durante i colloqui io ascolto e osservo. Ogni persona è una sinfonia di idee e di esperienze che incontrano le necessità dell’azienda.
Non c’è una persona migliore o peggiore di altre. Non catalogo le persone ma cerco l’unione dei suoni da sottoporre al dirigente d’orchestra e agli altri strumentisti. L’armonia la costruiamo insieme.
Relazionarsi con il candidato significa quindi percepire, ascoltare la persona oltre l’emozione del colloquio e oltre la loquacità.
7) I social network ci consentono di divulgare ciò che siamo. Avere un approccio coerente è il primo passo per essere in rete. Il secondo è riuscire a fare un uso virtuoso degli strumenti.
Secondo te abbiamo coscienza delle possibilità di questi mezzi?
Si parla tanto di social recruiting: nel processo di selezione quanto conta la presenza di un candidato sui social e l’uso che ne fa?
Ci siamo concentrati sulla certificazione delle competenze informatiche dimenticando di sviluppare il saper essere in rete.
Albert Einstein diceva: i computer sono incredibilmente veloci, accurati e stupidi. Gli uomini sono incredibilmente lenti, inaccurati e intelligenti. L’insieme dei due costituisce una forza incalcolabile.
L’inaccuratezza pesa molto in rete. Trovare le parole che meglio ci rappresentano è come indossare un abito fatto su misura: dobbiamo esprimere le opinioni avendo cura dei sentimenti altrui, creare contenuti di valore, essere proattivi.
A proposito di educazione digitale, c’è un progetto che mi sta molto a cuore e che è nato in rete da un gruppo di genitori: si chiama Genitori Cyberscudo Battilbullismo.
Insieme a Pepita Onlus e AICA abbiamo deciso di scendere in campo nel mondo digitale, perché è fondamentale per i genitori avere coscienza delle potenzialità di uno smartphone o di un computer prima di regalarlo ai propri figli.
Stiamo organizzando alcuni eventi per portare la nostra esperienza, a titolo gratuito, nelle scuole perché spetta a noi rimarginare la frattura tra esseri umani e tecnologia, dare un senso agli strumenti senza perderci in essi.
Il recruiting è strettamente legato alle linee guida che hanno ispirato questo progetto: tutti abbiamo bisogno di imparare a costruire la nostra reputazione in rete.
Il mondo del recruiting è cambiato: i selezionatori cercano le persone in rete e le persone cercano i selezionatori. Il successo di ambedue le figure, il recruiter e il candidato, dipendono dalla loro capacità di relazionarsi sui social media.
La giornata tipo del social recruiter si divide tra: ricerca di candidati passivi, verifiche dei CV e della rete del candidato, web reputation, job posting.
I contenuti che pubblichiamo o consigliamo sono al centro dell’attenzione di chi ci osserva perché aiutano a svelare competenze, tratti di personalità e coerenza.
Piattaforme come In-recruiting, CornerJob o Just Knock hanno rivoluzionato il mondo HR e Glassdoor&Co mette sotto la lente d’ingrandimento anche i datori di lavoro.
La employee experience sta diventando essenziale e costruire un’employee value proposition allettante diventa un must perché non basta scegliere: essere scelti dai candidati è altrettanto importante.
Sia le aziende che le persone devono imparare ad essere in rete. Ma non è sufficiente esserci, ciò che fa la differenza è riuscire a costruire relazioni, riuscire a “fare networking organizzato e consapevole senza uno scopo immediato di business” per citare Social Recruiter, il libro di Silvia Zanella e Anna Martini.
Saper usare gli strumenti e presentarsi in rete in modo coerente sono competenze che possono semplificare la ricerca di lavoro.
8) Un articolo apparso su Recruiting Daily afferma che la competenza principale di un recruiter è la capacità di indossare i panni del candidato, quindi l’empatia.
Sei d’accordo? Che consigli daresti a chi vorrebbe lavorare nel settore Risorse Umane?
Nel 2015 a Londra è stato inaugurato il Museo dell’Empatia.
Traendo ispirazione dal detto “Prima di giudicare una persona, prova a camminare per un miglio con le sue scarpe” è stato creato uno spazio di coinvolgimento nell’esperienza di vita altrui. Il percorso consiste nell’indossare le scarpe di qualcun altro e poi passeggiare lungo le rive del Tamigi ascoltando in cuffia la storia del proprietario di quelle scarpe.
Empatia e gentilezza sono essenziali per chi si occupa di Risorse Umane. Del resto non saprei dire in quali contesti queste qualità non siano fondamentali.
Anche i selezionatori sono stati candidati o lo sono ancora. Il recruiter può cambiare azienda e un head-hunter è un candidato per i suoi clienti, ergo anche lui ha camminato nelle scarpe di chi fa un colloquio e attende un feedback.
È necessario avere rispetto, comprensione e passione. Serve il perché.
Il perché fai quello che fai è più importante del come.
Quindi trova il tuo WHY (oppure leggi Simon Sinek) e usalo come motore.
A questo proposito ricordo un aneddoto sulla visita di John F. Kennedy al centro spaziale NASA.
In quella occasione il Presidente vide un inserviente con una scopa in mano e gli chiese cosa stesse facendo. L’inserviente rispose: Presidente, sto aiutando a portare un uomo sulla luna.
Un altro spunto di riflessione proviene dagli strumenti di social recruiting.
Oggi è possibile selezionare via Twitter, Instagram o LinkedIn oppure tramite il gaming, che rende il processo più divertente. Utilizzare gli ATS, i nuovi recruiting tools, ed essere presenti in rete creando valore sono suggerimenti sempre validi per svolgere questo mestiere.

Il mio consiglio per chi vuole lavorare nel mondo HR è quello di guardare anche alle nuove figure professionali, magari cominciando a lavorare in uno spazio di coworking.
Mi viene in mente la professione del Workplace Manager che valorizza le persone, cura gli spazi e la loro organizzazione. Gestisce progetti di smart working dove tecnologia, spazi e socializzazione si combinano.
Esiste anche il Coworking Facilitator che sviluppa la community, organizza eventi e pianifica attività mirate, stimolando la socializzazione e veicolando best practice.
Parliamo del futuro. Gli HR possono sognarlo e costruirlo.
Concludo con una frase che Daniela Chiru ha scritto in uno dei nostri scambi via e-mail.
Lavorando come HR ho molto chiaro che per le persone di valore:– essere orgogliose di se stesse è un’impresa più ardua che rendere orgogliosi gli altri– un dono si alimenta anche con le conferme, con la pacca sulla spalla– avere un impatto positivo sulla vita degli altri è quello che conta di più a fine giornata
Tutti i viaggi un po’ si assomigliano. Parti in un modo e ritorni in un modo diverso.
Vale per le professioni, per le scelte che fai, per le circostanze in cui ti trovi, per le direzioni che prendi. Vale anche per la scrittura, che tra i viaggi che si possono fare è quello più ricco di punti interrogativi e incertezze. Fai i bagagli convinto di non aver mai preso tutte le parole che ti servivano.
Poi, per fortuna, trovi compagni di viaggio che sanno aiutarti a tirar fuori le parole che stavi per dimenticare a casa.
Una frase di sostegno, una nuova storia da conoscere, la soddisfazione di aver fatto ciò che vi piace, vi daranno la spinta a ripartire meglio, a spingervi dove ancora non avete provato.
Per me è stato così. Daniela Chiru è stata una compagna di viaggio che mi ha aiutato a ricordare quanto sia importante coltivare un dono.
Quindi coltivate il vostro dono, date pacche sulle spalle e portate positività nelle vite altrui.
Di riflesso porterete positività nella vostra.
Laura Ressa
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Copertina: Maci (di Nicolae Tonitza)