
Ho scoperto casualmente che nel 2023 la sindrome di Stoccolma ha compiuto 50 anni. In un articolo pubblicato da AGI sono riportati interessanti dettagli su questo anniversario speciale.
“Cinquant’anni fa, il 23 agosto 1973, Jan-Erik Olsson, un 32enne evaso dal carcere poco prima, tentò con alcuni complici una rapina alla sede della Sveriges Kreditbanken di Stoccolma.
Prese in ostaggio tre donne e un uomo: Elisabeth, 21 anni, cassiera; Kristin, 23 anni, stenografa; Brigitte, 31 anni, impiegata e Sven, 25 anni assunto da pochi giorni. Il sequestro durò 130 ore al termine delle quali, grazie a gas lacrimogeni lanciati dalla polizia, i malviventi si arresero e gli ostaggi vennero rilasciati senza che fosse eseguita alcuna azione di forza.
Quello che nessuno fino ad allora poteva immaginarsi emerse pochi giorni dopo, nelle interviste degli ostaggi. Si scoprì che gli ostaggi avevamo temuto più la polizia degli stessi sequestratori, che durante quella prigionia non erano mancati gli episodi di gentilezza tra rapiti e rapitori e che in fondo gli ostaggi avevano sviluppato sentimenti di gratitudine e affetto nei confronti dei loro carcerieri. Era nata la “sindrome di Stoccolma” (termine coniato solo successivamente dal criminologo e psicologo Nils Bejerot). […]
Spiega all’AGI Micol Trombetta, criminologa presso l’Istituto di Scienze Forensi […], “si tratta di una difesa inconscia messa in atto dal cervello che, sottoposto a un trauma, lotta per la sopravvivenza creando un clima di affetto, simpatia e in alcuni casi anche di amore nei confronti del proprio aguzzino. […]”.
Una condizione psicologica che si può trovare in ogni aspetto della vita quindi anche in un contesto lavorativo per esempio dove capi o colleghi fanno del mobbing – ha poi aggiunto – Se è vero che di norma si parla di Sindrome di Stoccolma nei casi di sequestro dire che per sequestro si può intendere qualsiasi tipo di privazione della libertà personale in tutti gli ambiti della vita”. […]“.
Cos’è la sindrome di Stoccolma?
Per analizzare meglio il fenomeno e le sue implicazioni, faccio un passo indietro e chiedo aiuto a Wikipedia per capire nel dettaglio cosa si intenda per sindrome di Stoccolma.
“La sindrome di Stoccolma è un particolare stato di dipendenza psicologica e/o affettiva che si manifesta in alcuni casi in vittime di episodi di violenza fisica, verbale o psicologica. Il soggetto affetto dalla sindrome, durante i maltrattamenti subiti, prova un sentimento positivo nei confronti del proprio aggressore che può spingersi fino all’amore e alla totale sottomissione volontaria, instaurando in questo modo una sorta di alleanza e solidarietà con il suo carnefice. La sindrome viene spesso evocata nei resoconti giornalistici o in opere di fantasia, ma non è inserita in nessun sistema internazionale di classificazione psichiatrica. Non è classificata in nessun manuale di psicologia, è stata nominata soltanto in un ridotto numero di studi scientifici e viene ritenuta un caso particolare del fenomeno più ampio dei legami traumatici, ovvero: quei legami fra due persone delle quali una gode di una posizione di potere nei confronti dell’altra, la quale diviene vittima di aggressioni o altri tipi di violenza […].“
Posta in questi termini, la definizione della sindrome di Stoccolma è abbastanza chiara, sarebbe dunque molto interessante capire in quali contesti essa si verifica e a quali implicazioni essa conduce. Ho scelto di trattare questo argomento con particolare focus sul mondo del lavoro, ipotizzando una situazione lavorativa nella quale una persona che ricopre un ruolo di potere (immaginiamo ad esempio un manager o chi ricopre ruoli dirigenziali) esercita manipolazione e/o coercizione psicologica sugli individui verso i quali esercita il suo potere (immaginiamo ad esempio i membri del team).
Sindrome di Stoccolma nei luoghi di lavoro
Cosa avviene se decliniamo questa sindrome e la contestualizziamo all’interno dei luoghi di lavoro?
Un primo pensiero che può venirci in mente quando si parla della sindrome di Stoccolma nei contesti lavorativi può corrispondere a un’immagina abbastanza intuitiva: il capo-padrone (uomo o donna che sia) che esercita condizionamento psicologico e mobbing sui sottoposti. Ma la questione è più complessa, e per andare al cuore del discorso ho fatto una ricerca approfondita che di seguito procedo ad illustrare.
Organizzazione e sindrome
Dall’articolo di Luigina Sgarro Il Manager e la Sindrome di Stoccolma. Una strada a doppio senso, pubblicato su Il fattore umano, ho estrapolato alcuni passaggi per entrare nel vivo del tema.
“[…] Il dipendente che sta vivendo la Sindrome di Stoccolma è talmente legato al proprio ambiente lavorativo che tenderà a difendere e a giustificare, razionalizzandoli, tutti i maltrattamenti del datore di lavoro in nome del benessere e della sopravvivenza dell’organizzazione. […]“.
Dunque è interessante notare come il sentimento che sfocia in sindrome in alcuni casi possa essere letto come un tentativo di favorire la sopravvivenza dell’organizzazione. Probabilmente per gli individui che diventano vittime della sindrome, la dimostrazione di fedeltà all’azienda, a costo di sacrificare anche la propria dignità e la vita privata, viene inculcato come un valore aggiunto imprescindibile che delinea la figura del dipendente modello.
In un articolo pubblicato su Il Libraio e dedicato al libro Ma chi me lo fa fare? Come il lavoro ci ha illuso: la fine dell’incantesimo di Andrea Colamedici e Maura Gancitano (ideatori del progetto Tlon), compare un riferimento utile a capire la questione della sindrome correlata al tema del lavoro.
“Efficienti, dinamici, creativi: sono così tanti professionisti di oggi. Sì, ma anche (spesso), sovraccarichi, avviliti, depressi. Stanchissimi. Pieni di lavoro. Divisi fra call, impegni familiari e pubbliche relazioni, la luce blu degli smartphone che ci illumina il viso, la notte. Oppressi dal lavoro ma, al tempo stesso, in molti casi del lavoro innamorati, “rapiti”, vittime di una sorta di “sindrome di Stoccolma aziendale”.
Perché, per molte persone, oggi il lavoro è tutto e tutto è lavoro. Eppure, mai come in questa fase storica, la sensazione è che questo lavoro in determinati momenti non basti. Mai come oggi, in un mondo post-pandemico in cui tante dinamiche e tanti equilibri sono cambiati, lavorare (in certi momenti e in certe situazioni) appare privo di senso.
Una domanda spettrale, allora, ha cominciato ad aggirarsi: ma chi me lo fa fare di continuare a credere che il lavoro dei sogni arriverà e non mi sembrerà nemmeno più di lavorare? E chi me lo fa fare di ritenere che non esista un’alternativa? […]“.
Non saprei quanti si siano mai posti queste domande finali ma ho ragioni per pensare che il mood della nostra società attuale in riferimento allo stile attraverso cui ci si approccia al lavoro sia divenuto una rincorsa alla performance ad ogni costo, una rincorsa anche al potere, all’affermazione personale spesso a scapito degli altri. Non meravigliamoci: il mondo non è tutto rose e fiori, benché chi coltiva realmente la vita oltre il lavoro e chi sa coltivare i propri interessi, certamente sarà sempre meno schiavo delle richieste pressanti della società. Eppure tali richieste esistono e sarebbe inutile non imparare a osservarle e conoscere. Sarebbe inutile fingere di non vederle e pensare che il mondo del lavoro e le aziende siano solo luoghi dorati e intrisi di buoni sentimenti.
L’articolo continua così:
“[…] Il punto è che fare quello che ami non è affatto la panacea di tutti i mali. Anzi: in particolar modo negli ambienti creativi e culturali, l’idea di svolgere un buon lavoro è vista come una colpa da espiare nei confronti del resto della società che non ha avuto simile fortuna. E la si sconta, ad esempio, attraverso una mole disumana di ore che gli si dedica, attraverso il sorriso e la gratitudine obbligatorie, attraverso la rinuncia a tutele, protezioni e assistenze che invece andrebbero garantite a prescindere da quanto si adori la propria professione. Si finisce così con il pagare la penitenza di svolgere una buona mansione senza potersene lamentare, come un matrimonio combinato dalla società in cui si sposa il proprio lavoro finché morte non vi separi. Se è un buon lavoro, devi ritenerti fortunato. Ergo, devi scontare la pena della tua fortuna. […]“.
Credo sia questo il punto nodale della questione. Vedere sempre e comunque il lavoro come qualcosa per cui essere grati a prescindere, e dunque come qualcosa per cui essere grati verso i datori di lavoro, riduce l’approccio che ciascuno ha nei confronti del lavoro a una mera sudditanza obbligata e ad una forzata soddisfazione, che può diventare auto-convincimento di soddisfazione.
Prosegue l’articolo:
“[…] Anche quando si ama un lavoro, poi, ci sono spesso fasi difficili, giorni in cui si deve lavorare più duramente, momenti in cui è necessario affrontare una bella dose di stress. Quando si ama un lavoro si può godere di maggiori soddisfazioni, ma è cruciale ricordare che anche un lavoro che si ama può essere faticoso e stressante. Che si può perfino arrivare a odiare un lavoro amato, o trovarsi a svolgere funzioni di quel lavoro che si detestano per innumerevoli ragioni (per mancanza di tempo o di energie, ad esempio).
Come ha scritto la sociologa Erin A. Cech, l’idea di amare il proprio lavoro si rivela molto spesso una trappola capitalista. Il contraltare più diffuso al Lavora solo per guadagnare il più possibile, infatti, è proprio Lavora solo per seguire la tua passione; l’invito a svolgere un lavoro appagante è diventato un consiglio di carriera onnipresente su giornali, social, televisioni.
Il problema di questo invito risiede nel fatto che nessuno dovrebbe dipendere da una singola istituzione sociale per definire il proprio disegno di sé: l’idea di lavorare solo per seguire la passione spesso si basa sull’assunto che ogni individuo abbia una passione unica e specifica, il che può essere escludente e invalidante per le persone che non hanno una passione così definita o che hanno interessi e talenti multifocali. Oggi non possiamo chiedere al lavoro di offrire tutto il senso della vita. Non possiamo pretendere che definisca appieno la nostra identità, perché siamo complessi, mutevoli e abbiamo bisogno di strumenti molteplici per esprimere ciò che siamo. […]“.
Anche l’articolo della psicoterapeuta Elisa Scala, intitolato La sindrome di Stoccolma: la sottile ma oscura connessione tra la vittima e il suo carnefice, entra nel vivo del legame esistente tra sindrome e lavoro.
“[…] La sindrome di Stoccolma sul lavoro è una particolare declinazione in cui un dipendente sviluppa un legame emotivo o un’identificazione con il suo titolare o con un superiore che si comporta in modo abusivo, manipolatore o che comunque crea un ambiente di lavoro tossico.
In questi casi, il dipendente può sviluppare un senso di lealtà innaturale verso il proprio datore di lavoro, difendendo o giustificando il suo comportamento negativo e tutti i maltrattamenti subiti. Lo scopo è sempre la tutela del benessere e la sopravvivenza dell’organizzazione. La vittima può provare ansia o paura di subire conseguenze negative se si allontana o cerca di porre fine alla situazione.
La sindrome di Stoccolma sul lavoro può creare uno stress significativo e compromettere seriamente l’equilibrio psicologico del dipendente, fino a logorarlo emotivamente. È importante riconoscere questa dinamica e cercare supporto quanto prima per rompere il circolo vizioso e ripristinare un ambiente di lavoro sano e rispettoso. […]“.
Come rimarca l’articolo, dunque, un ambiente di lavoro sano non dovrebbe registrare questo tipo di avvenimenti.
E a questo punto è utile capire come uscire allora da situazioni simili.
Come liberarsi della sindrome di Stoccolma?
Nello stesso articolo Elisa Scala fornisce spunti per liberarsi della condizione tipica della sindrome.
“[…] Uscire dalla psicologia della vittima nella sindrome di Stoccolma e nella vita in generale richiede un processo di guarigione e trasformazione personale. Anche se è sicuramente un percorso impegnativo, è possibile rompere il ciclo dell’abuso e ricostruire relazioni interpersonali più sane e bilanciate.
Vediamo adesso i 6 punti più importanti del lavoro da svolgere per porre termine a questo ruolo disfunzionale:
1) Presa di consapevolezza.
Come per tutte le altre condizioni psicologiche, il primo passo fondamentale è diventare consapevoli della propria situazione e riconoscere che si è intrappolati in una dinamica di abuso. Data la particolare natura della sindrome della vittima, questo passaggio richiede coraggio e onestà verso sé stessi. […]
2) Cercare un supporto qualificato.
Dopo la consapevolezza del problema, il passaggio successivo è cercare il supporto di professionisti qualificati, come uno psicoterapeuta olistico, che lavora sulla persona in una visione completa e integrata. […]
3) Lavorare sull’autostima.
La sindrome di Stoccolma può minare l’autostima e la fiducia in sé stessi, ma può anche essere la conseguenza stessa di una visione di sé depotenziante e svilente. Una bassa autostima espone la persona a situazioni potenzialmente delicate, oltre a rendere più sfiancante il semplice stare nel mondo. […] Grazie ad un’autostima sana, è possibile abbracciare le proprie fragilità e debolezze emotive. […]
4) Rielaborazione dei traumi.
La sindrome di Stoccolma può lasciare cicatrici emotive profonde, così come la dinamica stessa di abuso che l’ha innescata. È cruciale lavorare sulla rielaborazione delle informazioni traumatiche immagazzinate nella memoria attraverso modalità di intervento come la terapia EMDR (Eye Movement Desensitization and Reprocessing). […]
5) Costruire una rete di supporto.
Circondarsi di persone positive e di fiducia è essenziale nel percorso di uscita dalla sindrome della vittima. Soprattutto nei casi in cui vi è un forte dolore emotivo, disporre di un ambiente sicuro e accogliente in cui condividere le esperienze, trovare conforto e ricevere incoraggiamento è un tassello molto importante.
6) Sviluppare una visione autentica di sé.
L’immagine di sé gioca un ruolo determinante nell’autostima e nella creazione della cosiddetta zona del possibile. È importante tornare ad avere una visione autentica di sé stessi, al di là del ruolo di vittima che, appunto, rimane solo un ruolo che può essere rimpiazzato. […]
L’uscita dal ruolo della vittima ha come risultato finale un rafforzamento della struttura psicologica della persona e l’eliminazione di una serie di ganci psichici pericolosi che il carnefice utilizzava per manipolarla e tenerla legata a sé anche emotivamente.“
Il processo di guarigione quindi esiste ed è possibile applicarlo con buon esito. Quel che è importante recepire in questi casi è l’accettazione della propria condizione, uno step quanto mai difficile da raggiungere ma fondamentale per proseguire e liberarsi.
Avere piena coscienza di quel che si sta sperimentando nella propria vita non è mai facile, ma certamente le strade di uscita ci sono e divulgare consapevolezza circa questo tema e temi simili non vuol dire voler guardare solo il lato negativo della medaglia ma vuol dire voler lavorare appunto affinché le persone vivano più serenamente e in modo da comprendere che nella vita c’è molto ma molto altro oltre il lavoro, oltre le relazioni di subordinazione e oltre l’accumulazione di denaro.

Per approfondire:
- Che cos’è la Sindrome di Stoccolma e come si manifesta?
- Sindrome di Stoccolma: cos’è e come riconoscerla
- 10 comportamenti tossici che ti devono far scappare dal tuo posto di lavoro
- Perché la sindrome di Stoccolma è così controversa
- La violenza psicologica sul luogo di lavoro
- Cos’è il management tossico?
Laura Ressa
Copertina: Foto di Mohamed Hassan da Pixabay