C’è una canzone famosa che dice “Non ho visto nessuno andare incontro a un calcio in faccia con la tua calma e indifferenza: sembra quasi che ti piaccia”.
Mi fa pensare a quanto possa essere difficile andare incontro a un calcio in faccia (metaforico) e a quanto sia arduo trovare chi dica “Chiedo scusa, ho fatto un errore e me ne assumo la responsabilità”.
Conoscere chi sa abbracciare le conseguenze dei propri sbagli avviene con la stessa frequenza con cui capita di incontrare Bigfoot.
Tuttavia non è impossibile trovare persone così sulla propria strada: le vie dell’ammissione di colpevolezza sono infinite.

Perché può risultare difficile ammettere di aver sbagliato e perché si può essere tentati di pensare all’errore come a una responsabilità di gruppo?

L’errore è una risorsa, soprattutto nel lavoro, ma si può incappare in un rischio: aspettarsi che tutti controllino che l’errore non avvenga, sottovalutando che, se a tutti viene chiesto di controllare qualcosa, nessuno lo farà.

Immaginiamo quindi un’azienda in cui tutti siano chiamati, da prassi, a controllare gli eventuali errori dei colleghi. Diventerebbe necessario avere un ruolo apposito: il controllore del buon operato, colui che monitora e valuta tutti i possibili errori commessi dagli altri.

Oppure potrebbe capitare di essere attratti dalla pratica dello scarica-barile, ribaltando le proprie colpe sui colleghi o su coincidenze che sarebbero state evitate se solo gli altri si fossero messi a controllare collettivamente l’operato di ciascuno.

Lo stesso capita nei rapporti umani che esulano dall’ambiente professionale.
Se una regola c’è non la chiedere a me, te ne devi fregare  –  cantava Nek. Citazione poco aulica, ma rende l’idea.
Quando ci viene chiesto chi è responsabile di un errore, potremmo essere tentati di rispondere: Non lo chiedere a me.

Cosa succede quando mancano responsabilità e capacità di assumersi le proprie colpe?
Accade che continuiamo a ripetere a noi stessi: perché gli altri non hanno evitato che succedesse?
Questo ALTRI reiterato è l’espressione di ciò che siamo o che potremmo diventare: una società che guarda agli altri per guardarsi allo specchio, che ha bisogno di paragonarsi a qualcuno per sentirsi migliore, che cerca giustificazioni.

Invece in azienda, e in generale negli ambiti della nostra vita, siamo tutti responsabili di ciò che facciamo: manager e dipendenti, genitori e figli, sorelle e fratelli, votanti ed eletti.
Tutti chiamati a scegliere, ad agire e ad accettare i rischi legati alle nostre scelte.


Cosa serve quindi in azienda? Onestà e progettualità.
Cosa serve fuori dall’azienda? Le stesse cose.

Nei rapporti personali e nel lavoro contano l’onestà di ammettere gli sbagli e la progettualità necessaria per cercare di far bene le cose sin dall’inizio.

I manager dovrebbero esser pronti a svolgere di tanto in tanto anche attività che preferiscono delegare, i dipendenti dovrebbero imparare ad assumersi maggiori responsabilità sul proprio operato. In questo modo i ruoli sarebbero interconnessi perché ognuno capirebbe cosa significa trovarsi nei panni dell’altro.
Le attività di un dipendente assumono maggior valore quando non vengono associate soltanto alla busta paga e quando si premiano le persone con qualcosa che somigli al team building.
Lodando i pregi ma facendo notare anche i margini di miglioramento con la certezza che questo non basta: bisogna investire in formazione, assumendo il rischio di coltivare le persone come fossero piante. Con cura, pazienza e attenzione.

Imparare ad ammettere l’errore, innesca un meccanismo virtuoso che non consiste nel trasformare l’errore del singolo in un errore condiviso con un gruppo di persone.

Quando a tutti viene chiesto di controllare qualcosa, va a finire che nessuno controlla. Allo stesso modo quando l’errore viene considerato come una responsabilità di gruppo, nessuno se ne assumerà realmente la colpa e l’errore continuerà ad essere ripetuto senza che da esso si tragga alcun insegnamento.

Esistono vie per imparare ad accettare gli errori, ma non sempre sono strade facili da percorrere se non diventano prioritarie.
Un’azienda, ad esempio, potrebbe iniziare questo percorso trasmettendo ai dipendenti il valore della responsabilità.

Se questa diventasse una consuetudine, tutti imparerebbero dai propri sbagli vivendoli come una risorsa.
Anche i team di lavoro somiglierebbero a comunità in cui le colpe non rimbalzano da una testa all’altra.

La comunità infatti è un insieme di persone che sanno convivere con le proprie mancanze e che imparano reciprocamente dagli errori, soprattutto da quegli errori che vengono accettati come tali e di cui ci si assume il peso delle conseguenze.

Letteratura, scienza, arte e musica ci ricordano costantemente quanto sia fondamentale sbagliare.

La scienza […] è fatta di errori, ma di errori che è bene commettere perché a poco a poco conducono alla verità. (Jules Verne)

Gli errori sono necessari, utili come il pane e spesso anche belli: per esempio la torre di Pisa. (Gianni Rodari, da Il libro degli errori)

Sia chiaro, per saggezza intendo la capacità di agire in armonia coi miei errori preferiti. (Ennio Flaiano, da La saggezza di Pickwick in Diario notturno)

Laura Ressa

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Scritto da:

Laura Ressa

Classe 1986 🌻 Digital Marketing Specialist & Web Writer 🌻 Frasivolanti