Sulla mia pelle cadono e sfilano via gocce di pioggia mentre metto un passo dietro l’altro al di là delle porte del cinema e, in fila, i piedi compiono un percorso ordinato verso le automobili parcheggiate.

– Dove hai messo la tua?
– Vicino, ora vedrai.

Cammini più veloce, cerchi argomenti per aderire di nuovo alla spicciola realtà. Parli del meteo, ti chiedi se la pioggia sia cominciata da molto o da poco tempo. Disquisisci di temperatura esterna e di manto stradale bagnato, poi tiri su un sospiro per dirti “dai, non è successo nulla”.
Ricacci indietro le mani tese che sembrano corde, ristabilisci un ordine pensando che la tristezza che ora provi non è reale e non serve a nulla. Non cambia i fatti, non ti rende migliore, non riavvolge il nastro degli eventi, non modifica di molto il futuro.
Metti un tappo alla testa. Acqua fredda sul volto per svegliarti. 

Intanto le persone si assiepano in fila per uscire. Alcune si fermano in coda alla cassa, si scambiano pareri, parlano, qualcuno fuma, qualcun altro sussurra.
Mi intrufolo fra gli sguardi, tra le virgole di fumo e le parentesi delle parole, ma il mio sguardo lo abbasso perché essere tristi a causa di una storia non mia non è giusto. Il dolore è un sentimento esclusivo che non puoi capire se non l’hai vissuto, che non puoi credere di possedere solo guardando sullo schermo una vicenda di 9 anni fa mentre sei seduto in poltrona nel tuo presente.
Immedesimarsi nei personaggi di un film è quello che il cinema ci fa desiderare: pagare il prezzo del biglietto per dimenticare chi siamo e credere di poter essere diversi in altri mondi possibili.
In certi casi avviene il contrario: vorresti scappare. Hai paura di quello che vedrai. Sai che quel fatto è accaduto sul serio e tu quel fatto lo conosci.

Le scene si vestono di un gusto acre, non senti quasi più il profumo dei popcorn, non fai caso a chi ha dimenticato di disattivare la suoneria del cellulare.
Le scene si attaccano addosso, una dopo l’altra si avvinghiano ai tuoi occhi anche se ti ripeti che è soltanto un racconto. Le immagini si insinuano nelle tue stanze, ti tirano dalle gambe e ti trascinano giù in un passato che non è il tuo. In un passato che sarebbe il tuo, se ti trovassi nei panni dei protagonisti.

C’è una differenza fondamentale tra film e realtà, tra la finzione e ciò che si vive al di fuori di essa: è il distacco, il fatto di poter credere che in sala entreremo in un mondo che non è il nostro mondo.

Ci sono invece storie che sono anche tue pur non essendo tue.
Il loro senso ti accompagna quando esci dalla sala o mentre sei lì nel mezzo tra le file numerate. Ti si attaccano anche quando le scacci, ti restano appiccicate anche quando provi a non pensarci, ti avvolgono come sanguisughe, ti accerchiano come un branco di lupi.

No, provare dolore per una storia altrui non è giusto. Guardo le scale mentre risalgo, infilo un gradino dopo l’altro in una rincorsa che mi porta all’uscita.
La comprensione del dolore degli altri è un salto nei propri crateri neri. Troppo cupo è il fondo, e la discesa è troppo ripida da affrontare. Non voglio assecondare quel sentimento, eppure sulla mia pelle sento forte la paura.
La paura di perdere chi amo. La paura di perdere chi sono.

Sullo schermo vedo lo sguardo angosciato di una sorella e ritrovo gli occhi della mia. Sento le grida di una madre e penso che quelle potrebbero essere le grida di mia madre.
Riesco quasi a sentire l’odore delle lacrime, i solchi nel volto scavato di chi ha pianto per ore e non è riuscito a dormire per mesi. La sento addosso la puzza stantia della rabbia, il tanfo di pelle sudata e bagnata di pianto, provata dall’affanno di aver perso qualcuno che non tornerà.

Sulla mia pelle è quello che non vogliamo vedere, è la paura che non affrontiamo, è la puzza del marcio in cui sguazziamo, è l’ostinazione al silenzio, le nostre spalle voltate quando non agiamo. Ma è anche la bellezza di ciò che proviamo guardando una storia reale e avendo il coraggio di capire che è anche la nostra. Dandoci il permesso di ammettere che sullo schermo ci siamo anche noi e che è giusto essere tristi per gli altri, sentirci vicini alle tragedie di tutti.

Alcuni la chiamano empatia, altri compassione, altri debolezza.
Per me non esiste definizione: è tante cose insieme e nessuna di esse in particolare.
Sulla nostra pelle abbiamo i segni della storia dalla quale proveniamo. Nei, cicatrici, voglie, macchie: questi segni che il tempo ci lascia tracciano il profilo, delineano chi siamo. Sulla mia pelle è quel che siamo, come una di quelle tracce, ma non perché è la trasposizione cinematografica di un fatto di cronaca. Sulla mia pelle ci parla della tenerezza di un ultimo desiderio (la cioccolata) che potrebbe essere anche il nostro, dell’umanità di un dialogo fra due detenuti che si parlano attraverso un muro senza potersi guardare in faccia.

Sulla nostra pelle non abbiamo solo i segni che la genetica ci ha fatto ereditare. Abbiamo addosso a noi anche le storie degli altri, le portiamo sulla schiena e ce ne dobbiamo fare carico come si trattasse di un’eredità collettiva, come fossero il segno di suola di un calcio ricevuto.
Che poi, a guardar bene, quelle storie sono le nostre storie. Le ereditiamo ma poi le dimentichiamo quando averle sempre in mente fa troppo male.
Perché ognuno di noi è stato o potrebbe essere una madre, un padre, un fratello, una sorella, un figlio, un cittadino, un rappresentante della legge, un medico, un assistente sociale, un amico, una persona in difficoltà caduta nel giro sbagliato, nel vizio sbagliato, nel posto sbagliato.
Siamo persone. Persone che affrontano il medesimo tragitto.
A volte abbiamo la fortuna di imboccare vie buone, di salvarci o di essere salvati in tempo. Altre volte no.

Sulla mia pelle ci mostra la misura della nostra paura e ci invita a tenerla a mente questa paura. Scacciarne via il pensiero significherebbe rinunciare alle nostre impronte digitali bruciando i polpastrelli.

Non voglio che certe cose succedano alle persone che amo. Non voglio che certe cose succedano a me. Erano queste le frasi che volevo ributtare indietro e inghiottire mentre percorrevo la strada che dal cinema mi riportava a casa.

Sulla mia pelle è nel pianto che vogliamo strozzare pensando che non ci appartenga, è in un pensiero egoisticamente umano che non accettiamo come nostro, è nelle storie che percepiamo lontane, sbiadite.

Esistono molti tipi di prigioni. Ma da quella che abbiamo cucita sulla pelle è difficile fuggire.

 

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Greetings from another side — photo by Rostyslav Savchyn on Unsplash

 

 

Laura Ressa

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Copertina: Greetings from another side , photo by Rostyslav Savchyn on Unsplash

Scritto da:

Laura Ressa

Classe 1986 🌻 Digital Marketing Specialist & Web Writer 🌻 Frasivolanti