salute mentale brigata basaglia livia lepetit

Livia Lepetit è Psicologa in formazione e, tra le altre cose, è impegnata nelle attività di Brigata Basaglia, “un progetto dedicato al supporto psicologico e sociale, nato insieme alle Brigate per l’Emergenza a Milano nel marzo 2020, per rispondere all’emergenza sanitaria in corso, partendo da esperienze di attivismo e pratiche di mutuo soccorso e appoggio”.

Questa è l’intervista a cui Livia ha risposto in forma scritta.


Cos’è e come nasce il progetto di Brigata Basaglia?

“La Brigata Basaglia nasce nei primi mesi del 2020, quando Milano, prima città in Europa ad affrontare la pandemia da Covid 19, si chiude in un lockdown totale per settimane. La città era come congelata nel terrore, si vivevano giornate surreali, nessuno poteva uscire di casa e le sirene delle ambulanze riempivano il silenzio. Accanto alla romanticizzazione dell’isolamento – fare il pane, giocare con i figli, cantare alla finestra – si stava realizzando uno scenario molto più feroce, soprattutto per le persone più vulnerabili e già marginalizzate. Sono emersi così nuovi bisogni: da un lato quelli materiali come l’approvvigionamenti di cibo, medicine, beni di prima necessità, dall’altro il bisogno psicologico di ascolto e supporto per affrontare quei momenti di altissima intensità. La Brigata Basaglia nasce dunque in cordata con altre Brigate di quartiere, che si occupavano di consegna di pacchi alimentari e quant’altro, lavorando da remoto tramite un centralino telefonico gratuito, per raccogliere richieste di aiuto e dare strumenti alle persone in difficoltà, anche di orientamento nel generale caos sanitario, in rete con le altre realtà pubbliche e di movimento.”


Qual è il tuo ruolo all’interno del progetto e qual è il percorso personale e professionale che ti ha portato fin qui?

“Nel mio caso la Brigata Basaglia è stata una naturale trasformazione di percorsi di lotta e di studi. Fino al 2019 ho fatto parte dei un gruppo di nome Spampanato, che aveva sede nell’AMP di via dei Transiti a Milano, un ambulatorio popolare che assiste gratuitamente cittadini e non cittadini da quasi 30 anni. Proponevamo uno sportello psicologico gratuito tenuto e un gruppo di auto mutuo aiuto e discussione sul benessere ed è a partire da alcun* di noi che è nata poi l’idea della Brigata Basaglia, che piano piano si è allargata. Io però operativamente sono entrata nel settembre del 2022 facendo prima centralino e poi lavorando sul festival Contatto, un evento che offre tavoli di discussione, laboratori e arte su salute mentale e pratiche di liberazione e che quest’anno è alla sua seconda edizione.
Ho studiato Filosofia e poi Psicologia in Università, ho scritto una tesi su Basaglia, già da tempo insomma mi interessavo delle connessioni tra psicologia e politica. Sapevo di volermi impegnare in un progetto che si inserisse nel solco di quelle esperienze radicali di salute pubblica e di movimenti di trasformazione sociale. “La libertà è terapeutica” si legge scritto su uno dei muri dell’ex Ospedale Psichiatrico di Trieste, in cui Franco Basaglia e il suo gruppo iniziarono la rivoluzione culminata nella legge 180.”

Cosa significa per te aver cura della salute mentale di una comunità e quali strumenti reputi efficaci per aiutare le persone ad affrontare i disagi mentali?

“Questa è una domanda molto complessa e non sento di poter dare una risposta univoca, ma soprattutto non dovrei essere io, come professionista a darla. Penso che nel contesto clinico della salute mentale, e non solo, si tenda a non ascoltare la voce dei pazienti, delle persone che soffrono, le quali molto spesso sanno bene di cosa avrebbero bisogno per stare meglio e quando non lo sanno il lavoro dovrebbe essere proprio quello di scoprirlo insieme. Ad alcun* può servire prendere un farmaco per qualche tempo – anche se a lungo andare sono più gli effetti collaterali che quelli positivi – ad altr* può far bene sottrarsi al proprio contesto e immergersi in una esperienza di comunità terapeutica; c’è chi sta meglio anche solo dando un nome al proprio disagio, il nome di una diagnosi, che permette spesso di studiarsi e comprendersi meglio, c’è chi ha bisogno di parlare e prendersi cura di sé in un percorso di psicoterapia, senza etichette.

Ma la questione è che spesso mancano le basi materiali per stare bene: una casa, uno spazio proprio, un salario decente, persone vicine che ci vogliano bene, un ambiente sano – sociale e naturale – in cui vivere. Dobbiamo sempre considerare che la salute mentale non è mai un problema individuale ma riguarda sempre anche il contesto in cui si manifesta. Quando tante persone stanno male, quando noi stiamo male, dobbiamo chiederci non solo come fare a stare meglio, ma anche cosa c’è in questa società che non funziona, e da lì stringere rapporti di alleanza con chi ci è affine. Sono convinta che nel rapporto umano autentico e aperto vi sia già molto di terapeutico.”

Quando ci siamo parlate al telefono, mi hai giustamente ricordato che la salute mentale è l’ambito sanitario che riceve in assoluto meno risorse economiche. Cosa faresti, se questo fosse in tuo potere, per razionalizzare le risorse economiche in campo sanitario?

“Anche questa è una domanda molto tecnica e io non sono esperta in gestione dei budget sanitari. Quello che è certo è che l’Italia spende solo il 3,5% dei suoi finanziamenti per la salute nell’ambito della salute mentale, siamo ventesimi in Europa per spesa dedicata. Questo tra l’altro avviene nel quadro di un più globale depotenziamento del SSN a favore della sanità privata. Se non si inverte la rotta, siamo destinati a diventare come gli USA, un paese in cui se sei povero puoi anche morire della più banalissima malattia, nessuno si curerà di te. Il diritto alla salute è garantito dalla nostra Costituzione (Art. 32. “La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti”) e dobbiamo lottare affinché non venga abbattuto e reso un privilegio di pochi. La salute non è una merce e un sistema sanitario che lavora in termini di profitto è destinato a non andare incontro ai bisogni degli utenti, ma a quelli del mercato.”

Quanta fatica sentono oggi gli operatori che lavorano nel campo dei servizi per la salute mentale? In cosa si esplica il loro impegno e cosa rende difficile lavorare nel settore?

“Essendo ancora in formazione, non posso dare un riscontro diretto su questo punto, ma ho spesso ascoltato racconti di chi lavora nei servizi sia pubblici che privati. Gli operatori che lavorano in salute mentale sono ormai tutti operatori sanitari, persone cioè che si formano nelle Università con un approccio completamente biologistico e che spesso, come nel caso degli infermieri, hanno ben poche competenze in campo psichiatrico e psicologico. La malattia mentale viene vista alla stregua di una qualsiasi altra malattia organica e perciò la cultura dei servizi è spesso basata sul pregiudizio di cronicità e sull’interventismo farmacologico. Dall’altro lato, il lavoro è sempre più precario, gli orari massacranti, i rischi alti, i metodi coercitivi e violenti, per niente impostati sull’ascolto né del paziente né dell’operatore. Sono contesti dove tendenzialmente si lavora molto, si guadagna poco e lo stress è enorme. Ovviamente, è difficile riuscire a fare un buon lavoro, con queste premesse. In un contesto di violenza e isolamento, il benessere diventa un miraggio sia per gli utenti che per i lavoratori. Per fortuna ci sono poi anche esperienze di eccellenza, ma sempre assediate e volatili perché non abbastanza redditizie o troppo controcorrente. Io al momento mi sto occupando di un approccio che si chiama Dialogo Aperto e che tenta di riformulare la proposta terapeutica dei servizi psichiatrici in un senso dialogico, polifonico e di rete.

Per quanto riguarda noi psicologi nello specifico, posso dire che la nostra professione è ancora poco valorizzata sia nel pubblico che nel privato. Il percorso di formazione è molto lungo e costoso, e questo già provoca una difficoltà di accesso alla professione per chi non ha una buona condizione economica di partenza. I laureati sono tantissimi, i posti di lavoro sono pochi, la competizione enorme e le paghe molto basse, a meno che non ci si rivolga ad una fascia di popolazione molto abbiente. Ma come dicevo, la terapia non può essere un privilegio di pochi da un lato, né può essere un lavoro completamente insostenibile economicamente dall’altro.”

Nel recente articolo “Oltre la salute mentale“, Gianpaolo Contestabile ha scritto: “Come scriveva Freud già nel 1921, nel suo Psicologia delle masse e analisi dell’Io, quando si studia attentamente una situazione concreta i limiti tra i processi intrapsichici e le dinamiche sociali si sfumano: “Nella vita dell’individuo l’altro rappresenta sempre un modello, un oggetto, un amico od un nemico, e sin dall’inizio la psicologia individuale è anche, sotto un certo aspetto, una psicologia sociale”.
Nonostante da più di un secolo la tradizione psicoanalitica abbia messo la questione sociale e collettiva al centro del dibattito, il discorso istituzionale sulla salute mentale continua a ricostruire una fantasia in cui esistono solo sintomi individuali. La crisi economica, i disastri ambientali, la violenza politica o quella domestica si trasformano in fantasmi che rimangono fuori dal setting terapeutico, del reparto psichiatrico e anche dal centro di meditazione. Inoltre, la diagnosi, che dovrebbe essere uno strumento utile al processo di cura, diventa invece l’obiettivo finale dello specialista, un’etichetta che dà senso alla nostra identità o una certificazione per non dover competere con gli alti livelli di rendimento richiesti dal mercato.”

Qual è la tua visione e prospettiva sulle differenze che esistono tra psicologia individuale e psicologia sociale? 

“Per quanto mi riguarda, la psicologia individuale è un’illusione. Noi siamo sempre abitati dall’altro, siamo sempre in rapporto con l’alterità, per dirla con Lacan “Je est un autre / Io è un altro” e nel rispecchiamento posso riconoscermi o sapermi radicalmente smarrita. Un approccio psicologico che si rivolge meramente all’individuo, tentando di ripararlo, di “riprogrammarlo” per un migliore funzionamento nella società è estremamente parziale e superficiale. Così non si va alla radice della sofferenza e neanche dell’esistenza umana.

Ci sono molti approcci clinici che tengono conto del soggetto e contemporaneamente del suo contesto. L’approccio sistemico, ad esempio, prevede che nel percorso di cura siano coinvolti i familiari, gli amici del paziente, perché la cura è responsabilità di tutte e tutti. La sofferenza non è un fatto privato, così come la nostra vita è sempre in contatto con altre persone, altre presenze anche interiori, con cui siamo in dialogo. In questo senso, credo molto negli esperimenti di supporto tra pari e delle pratiche dialogiche. Bisogna ricominciare a pensare che il lavoro di cura è un lavoro politico, nel senso profondo della parola, e che riguarda cioè il benessere collettivo e la cultura che vogliamo costruire per una società più giusta e più sostenibile.”

Quanto pensi che la società sia responsabile dei disagi mentali degli individui? Sul sito di Brigata Basaglia il mio occhio si è fermato inevitabilmente sull’espressione “fragilità dell’individuo all’interno della società capitalista”. Io penso fermamente che il nostro stile di vita e quello che la società richiede e impone forzatamente a ogni individuo (perfezione, performance, rincorsa all’effimero, salute apparente, per dirne solo alcuni) siano la principale causa dei disturbi della psiche. 

Qual è la tua prospettiva su questo?

“Sicuramente viviamo in una società altamente tossica e non solo per microplastiche e polveri sottili. I messaggi a cui siamo costantemente sottoposti sono molto dannosi e lo vediamo in tutti i contesti, dal lavoro alla scuola, dalla famiglia al modo in cui trattiamo la natura e gli altri esseri viventi. All’interno della società capitalista, il ruolo dell’individuo deve essere uno solo: produttore (lavoratore) e consumatore. Tutto ciò che eccede, deve essere in ogni modo disincentivato, se non represso: l’arte, l’amicizia disinteressata, il riposo, le esperienze sociali e politiche non a scopo di lucro né di consumo, la bellezza che non dà profitti, ma soprattutto le forme di lotta per diritti fondamentali come appunto la casa, la salute, il lavoro, la cittadinanza degli esclusi. Una delle magliette che abbiamo venduto di più ai nostri eventi benefit è quella su cui c’è scritto “non era depressione, era il capitalismo”.

Come scriveva Mark Fisher in Realismo Capitalista, siamo abituati a pensare che non esista nulla al di là del capitalismo. Invece dobbiamo ricominciare a pensare che un’altra vita, un altro modo di vivere è possibile ed è anzi necessario.
Io penso che il primo passo per la trasformazione, o almeno per una vita più libera dal peso che la nostra epoca ci schiaccia addosso, sia la capacità di provare sofferenza. Intendo dire che stare male, sentire, capire, riconoscere di stare male in una società che sta male, è il punto di partenza per agire proprio laddove si origina la sofferenza. La lucidità certo ha un prezzo, ma se l’alternativa è vivere in armonia con una società che sta distruggendo il pianeta e trasferendo enormi quantità di ricchezze e poteri nelle mani di pochi, allora preferisco, e questa è la mia posizione ovviamente, portare con me il dolore, ma non posso farlo da sola, devo farlo con altri, con altre, insieme. Questo è un po’ il messaggio e l’esperienza della Brigata: non sei sol*, non siamo sol*, stiamoci accanto e ci faremo del bene.”


Le parole di Livia Lepetit sono potenti. Leggendole mi sono sentita accolta nel suo mondo ma allo stesso tempo messa crudamente di fronte a quelle realtà che cerchiamo, a volte, di non vedere e di non capire.

Comprendere e accettare la propria sofferenza è difficile. Figuriamoci quante resistenze ci possano essere nell’accogliere, accettare e farsi carico anche delle sofferenze altrui. Si preferisce voltare lo sguardo dall’altra parte, oggettivizzare il malato e la cura ed è questo atteggiamento ad aver creato i mostri di cui la nostra società è piena. Ma in fondo quei mostri siamo noi. Ed evidentemente è questa la verità più dura da digerire: capire di essere noi stessi causa dei disagi che la società alimenta e fa crescere.

Come ci si salva da tutto questo? Soprattutto: siamo ancora in tempo per farlo?

Voglio credere di sì, perché altrimenti sarebbe già tutto perso e ognuno si dovrebbe arrendere e gettare la spugna. E invece persone come Livia e progetti come Brigata Basaglia ci ridestano, ci schiaffeggiano, ci accolgono, ci ricordano che gli altri sono importanti perché gli altri siamo anche noi. Perché il senso del mutuo aiuto sta nell’atto politico, come ci ha ricordato Livia, nella sua accezione più nobile e pura. Compiere atti politici non vuol dire solo fare le leggi, vuol dire prima di tutto agire ogni giorno nelle proprie comunità, lì dove si è, per migliorare le cose e rendersi utili. Per migliorare i servizi, la percezione del disagio, per cercare di vivere tutti in modo dignitoso, per ridare speranza e dignità a coloro ai quali queste sono state sottratte.

Solo così potremo ritrovare il senso del nostro vivere, altrimenti ci ritroveremo a vagare nella vita senza meta e senza scopo. In mezzo ad altri essere viventi che per noi sono solo ombre proiettate su un muro che camminano accanto alla nostra.

Grazie, Livia! Grazie a te e a tutte le persone che, come te, ogni giorno fanno del proprio meglio per cambiare le cose partendo dalle proprie comunità.

Laura Ressa

Copertina: immagine realizzata con Canva in occasione dell’intervista

Le foto che corredano il testo sono state gentilmente fornite da Livia Lepetit. Le immagini con i disegni ritraggono l’ex manicomio di Quarto (Genova), quella delle magliette è stata scattata durante il festival Contatto 2023.

Scritto da:

Laura Ressa

Classe 1986 🌻 Digital Marketing Specialist & Web Writer 🌻 Frasivolanti