
Questa frase l’ha scritta mia sorella su LinkedIn qualche settimana fa, in risposta a un mio commento pessimista sulla società, su alcune dinamiche che regolano il mondo del lavoro, sulla legge del più furbo e del più fortunato, di chi non ha dovuto impegnarsi più di tanto per ottenere i risultati che ha raggiunto, sulla questione del merito che purtroppo nel nostro paese è ancora un tema assai bistrattato.
Certo, parlare in termini di battaglie e guerre forse non è totalmente corretto in questi casi. La guerra è qualcosa di negativo perché presuppone uno scontro, ma proviamo a guardare questa parola in termini metaforici nel suo significato di lotta per cambiare le cose in meglio.
Ci siamo talmente abituati alle dinamiche sociali in cui vince il più forte, che quasi non sappiamo come si possa concretamente cambiare la società e farla diventare un luogo più giusto, maturo, un luogo dove la regola della convenienza personale non faccia a pugni e non scenda a patti con l’intelligenza, dove l’analfabeta funzionale non arrivi a ruoli di rilievo sul lavoro o, in generale, nella società.
La guerra in cui vincono i buoni dunque intesa come spinta verso il meglio, non come uno scontro cruento ma piuttosto come un impegno costante nel cercare di cambiare il mondo che abitiamo partendo dall’esempio. Purtroppo il male è parte del nostro essere umani, si annida e cresce anche in volti insospettabili perché trova ampio margine di sviluppo in ogni ambiente di vita. Il confine tra il bene e il male si assottiglia tantissimo e chi impara a piccoli passi a fare del male o ad agire per propria convenienza, di rado si accorge di quanto le proprie azioni possano rappresentare il lato più becero e opportunista della società. Tuttavia passare la vita ad avvilirsi per questo stato di cose non sarebbe neanche giusto: ognuno nei limiti del possibile deve portare avanti il proprio concetto di giustizia e rispetto sempre. Qualcuno crederà di esserne vessillo, erroneamente, qualcun altro si impegnerà realmente in ogni caso per portare qualcosa di buono nel mondo, fosse anche “solo” il proprio esempio.
Come spesso scrive Vincenzo Moretti, il problema dei buoni veri è che non fanno sistema e non sanno sempre apparire come modelli da seguire. I cosiddetti cattivi, invece, sanno fare sistema, sanno unirsi, sanno scambiarsi favori e fare rete nel proprio cerchio, sanno anche come sembrare onesti e buoni. Per cattivi ovviamente non intendo solo i potenti della terra, ma anche chiunque ragioni per un proprio tornaconto, chiunque usi i propri ambienti di vita e lavoro come estensione utilitaristica del sé, chiunque approfitti delle situazioni per ricavarne qualcosa, chiunque ricopra posizioni che non merita e se ne serva per fare del male oppure, in modo più soft, per vivere meglio di altri o a scapito di altri.
In questa categoria rientrano i parassiti ma anche semplicemente chi è stato molto fortunato a godere di certe condizioni di partenza e non fa che mantenere questo status quo a scapito di altre persone. Tutti comportamenti assai diffusi questi, che ci passano davanti agli occhi in un campionario ampio di azioni alle quali molti di noi non fanno più caso.
Riflettendo su questo, mi sono ricordata di un’equazione che a volte dimentico e che ribadisce che gran parte delle occasioni della vita, sono pura fortuna. Devi nascere nel lato giusto del mondo, in una famiglia che ti faccia crescere in salute. Poi ti deve capitare una condizione economica favorevole se vuoi studiare, viaggiare, conoscere quante più cose possibile, leggere. In seguito dovrai avere le occasioni giuste per progredire, trovare lavoro, salvarti dagli errori di valutazione, salvarti dai baratri in cui ti potrà capitare di cadere.
Una percentuale del nostro destino certamente sta anche in quel che siamo in grado di fare, nelle nostre conoscenze e competenze, in quello che abbiamo imparato e in quel che abbiamo scelto. Ma se manca la prima parte di condizioni essenziali, difficilmente potremo ambire a raggiungere determinati obiettivi.
Ho ricollegato queste considerazioni osservando una scena.
Mi trovavo in una località turistica e stavo aspettando una piccola imbarcazione che da un’isoletta ci avrebbe ricondotti in paese. Davanti alla passerella che accoglieva i turisti c’era una grande bancarella allestita con giocattoli, souvenir, gioielli di bigiotteria, collanine, piccoli bracciali, ammennicoli ai quali non facciamo più caso e di fronte ai quali non ci soffermiamo perché di qualità bassa o perché considerati inutili data la quantità di oggetti che possediamo. Di molti degli oggetti che possediamo non ricordiamo nemmeno più il valore, la società del consumo ci vuole consumatori voraci di tutto quel che è superfluo e il nostro sguardo man mano si è abituato anche alle bancarelle dei luoghi turistici, che oggi forse solo i bambini notano ancora.
Il gestore della bancarella di cui vi racconto (e che vedete in foto), tenuta su alla buona con qualche telo plastificato, era un uomo con un buco sulla maglia cucito alla meglio e un grosso mazzo di chiavi attaccato ai pantaloni che faceva rumore ogni volta che si sedeva. Si preparava all’arrivo di altri turisti della giornata allestendo una colonnina per bracciali. Li appendeva con cura, in ordine, in mazzetti da 5 o 6 pezzi. Una volta terminata la sistemazione si è seduto sulla sua sedia bianca in plastica ad osservare il lago di fronte a sé: poi ha preso una scodella e ha mangiato. Sembrava si trattasse di riso.
Mentre lo osservavo, ero seduta su una panchina dietro di lui. Entrambi osservavamo di fronte a noi: lui guardava l’acqua e io guardavo lui e l’acqua e mi chiedevo quanto guadagnasse, se quella fosse la sua unica fonte di reddito, che vita conducesse, se avrebbe voluto viverla in maniera diversa la sua vita, quali sogni aveva, dove fosse cresciuto e in quali condizioni.
Nello stesso momento ho pensato a tutti i fortunati che vedrei bene dietro quella bancarella a consumare un pasto frugale in attesa dei turisti. Forse – ho pensato – imparerebbero qualcosa di utile se si trovassero al suo posto. Capirebbero la fortuna che hanno e capirebbero anche che quella fortuna non dipende da quanto sono stati bravi ad arrivare fin lì ma da una serie fortuita di concause.
Mentre osservavo quell’uomo seduto accanto alla sua bancarella che attendeva il successivo piccolo flusso di turisti, mi chiedevo quanti oggetti riuscisse a vendere ogni giorno. I turisti che ho visto passare di lì nel tempo che sono rimasta seduta alla panchina, davano un rapidissimo sguardo agli oggetti e poi proseguivano senza fermarsi. Mi chiedo, osservando questa scena, quanta assurda disparità esista al mondo, quante brave persone vivano di espedienti e quanti incompetenti invece occupino posizioni di rilievo senza tuttavia avere particolari doti o capacità.
Si tratta di fortuna? Penso di sì, e questa scena me lo ha confermato. Mi sento impotente di fronte a una simile assurda e ingiusta disparità perché ogni giorno, dalla vita quotidiana alle notizie di cronaca alla politica, assistiamo a un campionario ampio di simili disparità senza tuttavia poter fare granché per dare un’opportunità a più persone e togliere un bel po’ di privilegi a chi ne ha fin troppi.
Ma il privilegio, il denaro, la posizione sociale sono droghe. E giacché si tratta di droghe, ad esse non si riesce a rinunciare: chi le possiede ne vuole sempre di più e non cederebbe un briciolo della propria droga per nessun motivo al mondo.
Trovo che sia questo il grande limite della nostra società, e la cosa peggiore è che chi è privilegiato non se ne accorge oppure crede davvero di meritare tutto quel che ha per doti personali e per propria bravura senza neanche saper osservare il presente e le persone se non per guardare come sono vestite o di che marca sono le loro scarpe.
Probabilmente i privilegiati sono proprio attorno a noi, frequentano i nostri ambienti, le nostre strade, le località di mare, magari ci risultano anche simpatici o conviviali, oppure, di contro, non sappiamo o non vogliamo riconoscerli perché a un certo punto della vita cominciamo ad assuefarci alla puzza di letame pur di non sentirla più così forte nelle narici.
A che punto del nostro racconto umano i buoni vinceranno la guerra? A che punto del cammino delle persone arriverà il giorno in cui le disparità cesseranno e a ciascun individuo saranno concesse le stesse opportunità, lo stesso accesso alle risorse di base, lo stesso accesso all’istruzione e alla cultura, la stessa possibilità di lavorare e vivere dignitosamente?
Non so rispondere. Le domande sono troppe e spesso cedono il passo alla rabbia perché il mondo finora è stato concepito come uno squilibrio di fattori che nuotano in un mare di disparità. Le risposte a questi quesiti al momento trovano sfogo solo in queste parole che metto nero su bianco per ricordarmi e ricordarci che ci sono dinamiche ancora profondamente sbagliate. Dinamiche che tuttavia abbiamo imparato a considerare normali.
I buoni riusciranno a fare sistema e a vincere la loro guerra? Le persone che abitano questo mondo dovranno sgomitare per avere di più degli altri o sapranno cedere il passo a chi ha meno? Il privilegiato un giorno sarà finalmente meno privilegiato? Si renderà conto di quanto gravi sul bilancio dell’umanità?
Ripenso all’uomo di quella bancarella, ma ripenso anche a chi possiede meno di lui e vive a fatica.
Queste persone non vanno dimenticate. Sono le uniche che possono davvero insegnarci qualcosa di interessante e utile sulla vita, sul lavoro, sulla conquista di qualcosa, sulla dignità. Credo che anche gli emarginati, le persone che affrontano grandi difficoltà e chi è discriminato abbia molto di più da raccontarci circa ciò di cui avrebbe realmente bisogno per vivere meglio. Dobbiamo dunque imparare ad ascoltare prima di tutto queste persone: il resto sono parole.
Vi lascio con una richiesta che, se vi andrà, nel vostro piccolo potrete applicare ovunque andrete. Imparate a osservare, imparate a guardare oltre i confini del vostro orticello di certezze (piccole o grandi che siano), osservate le persone che si muovono nei vostri luoghi o nelle città del mondo in cui andrete.
Imparate a osservare le persone, a chiedervi di cosa vivono, e imparate a chiedervi se arrivano a fine mese. Osservate, poi, chi ha ottenuto solo privilegi nella vita e possiede più di quanto gli serva per sopravvivere: dal cellulare ultimo modello alla cucina ultra funzionale, fino a tutti quegli oggetti che di fatto non ci migliorano la vita ma la rendono una corsa all’efficienza e al consumo smodato. Dall’osservazione e dalla presa di coscienza di queste disparità sicuramente potremo trarre insegnamenti utili per provare a vincere una battaglia che ha tutti come vincitori e ci può portare alla consapevolezza e magari anche alla rinuncia del superfluo, se ne saremo capaci. Non è necessario svestirci dei nostri averi, non intendo questo. Sarà sufficiente provare a comportarci meglio con le persone, a non credere che le nostre fortune siano tutta farina del nostro sacco, a non vantarci delle nostre fortune come fossero interessanti argomento di conversazione. Se non altro tutto questo forse un giorno ci aiuterà a osservare meglio la realtà e a non esserne spettatori addormentati.
Laura Ressa
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Copertina: foto scattata da Laura Ressa