Quel che ricordo di Ketty Volpe è racchiuso in un pranzo di qualche anno fa. Era il 2014, forse il 2013: io non conoscevo lei e lei non conosceva me. Il nostro anello di congiunzione era sua sorella Francesca, con la quale condividevo l’esperienza del canto corale.
Ci ritrovammo casualmente sedute una accanto all’altra io e Ketty e di quel giorno ricordo la curiosità che luccicava nei suoi occhi, la curiosità di ascoltare la mia storia e la mia vita seppur in quel frangente limitato. 
Una curiosità genuina la sua, non quella tanto diffusa quanto morbosa e soffocante di chi vuole solo soddisfare le proprie domande.
Ketty aveva nel volto un’attenzione sincera, un’empatia tangibile, un ascolto attivo e attento verso quel che le dicevo, un modo di tenere la scena anche in situazioni comuni.
Ai miei occhi di giovane goffa e insicura, Ketty in quelle ore apparve con le sembianze di una diva. Una diva che non ostenta se stessa ma che è calata nella propria realtà e di quella realtà pienamente cosciente e protagonista.

Era protagonista Ketty, sì, ma recitava insieme a chi le stava accanto dividendo equamente i ruoli, laddove recitare non significa assumere i panni di qualcun altro ma soprattutto esprimere al massimo se stessi e le proprie passioni interiori senza mai ricorrere alla finzione e mettendo al centro della scena anche gli altri.

Ricordo che parlammo del mio modo di approcciarmi alle relazioni e dei progetti che stavo pianificando per il mio futuro e il mio presente, che allora mi apparivano entrambi nebulosi e incerti.
Mi diede consigli delicati e mai invadenti, rispettò i limiti imposti da quella conoscenza embrionale delineando una zona di comfort in cui entrambe potessimo trovarci a nostro agio nel parlare di noi come in una chiacchierata tra amiche.
Mi parlò di sé, raccontandomi qualche aneddoto della sua giovinezza. Poi mi spronò ad agire e a buttarmi in tutto ciò che il futuro mi avrebbe riservato. Ricordo il suo volto, così espressivo, impetuoso. Una tempesta di colori si sprigionava dai suoi occhi e dalle sue mani, spalancate e protese verso la comprensione del mondo e delle persone che le stavano attorno.

In Ketty ho trovato molta più empatia nei miei confronti di quanto spesso abbia trovato in amici di lunga data o in conoscenti. In questo credo che Ketty avesse un dono speciale, difficile da possedere e da trovare: l’attenzione genuina, anche verso la sconosciuta seduta accanto a lei a quel tavolo.

Il suo volto è impresso nella mia memoria e da lì non si muove. I suoi grandi occhi sono una traccia indelebile nella mia coscienza di donna, nonostante io li abbia potuti vedere in poche occasioni fugaci e momentanee.

Tutti ricordano il suo sorriso, sempre presente in ogni attimo che la vita le ha concesso. Parenti e amici ne hanno ricordato le caratteristiche quotidiane e le doti, ne sentono la mancanza pervasiva nelle cose di ogni giorno, nei gesti piccoli, nell’affetto, nelle abitudini consolidate.
Quel tipo di assenza ti lascia monco, come privo di un arto. Come se un pezzo di cervello, di mente, di corpo fosse andato via per sempre con la persona che amiamo e che non è più accanto a noi a prenderci per mano.
Non c’è nulla che possa colmare quel vuoto, ma forse sbagliamo in partenza: cerchiamo di colmare una voragine pensando che l’assenza di qualcuno possa solo peggiorare irrimediabilmente la nostra vita.
I paralitici si adattano a vedere la realtà da un punto di vista nuovo, a gestire gli spazi in maniera diversa da come avevano sempre fatto prima di perdere l’uso delle gambe. Chi perde un braccio impara a usare l’altro, chi perde la vista impara ad allenare tutti gli altri sensi.
Circa allo stesso modo, chi perde un pezzo del proprio cuore insieme a una persona che fisicamente non c’è più cerca di riportare indietro l’orologio o di far battere il cuore come faceva prima. Quel battito però è perso e, per quanto dura possa apparire la sfida, dobbiamo lasciarlo scivolare via per far subentrare un battito nuovo.
Avviene allora una magia straordinaria: ci viene donata in quel preciso istante l’opportunità di sprigionare un’energia che non sapevamo di possedere, un’energia che si trasforma in rabbia, in rassegnazione, in lacerante dolore, ma che poi ben amministrata ci fa compiere imprese più grandi di noi stessi.

Non ho conosciuto Ketty nella sua quotidianità ma il suo sorriso era una caratteristica dirompente che chiunque abbia incrociato la sua strada descrive e ricorda. Quelle ore passate insieme somigliano per me a un raggio di sole più luminoso degli altri, a un vento che spettina, a un attimo brevissimo ma denso come pochi incontri sanno essere.
Uno sguardo vivido e reale il suo: Ketty era ciò che sembrava e sembrava ciò che era.

Ho impiegato un po’ per dare senso a quel ricordo che avevo di lei, per comprendere ciò che voleva dirmi Ketty tra le righe, per cercare nella mia memoria i particolari di quella conoscenza iniziale già fatta di grande interconnessione.

Credo che Ketty in quelle poche ore abbia capito di me molto più di quanto non abbia compreso io di me stessa negli anni. A volte la paura di guardare dentro noi stessi si dipana quando possiamo specchiarci liberamente in altri occhi, quando possiamo guardare qualcuno e sperare che ci dica ciò che vede nei nostri. 
In certi momenti basta guardare se stessi con gli occhi di qualcun altro per far pace con i propri demoni. Negli occhi di Ketty io ho visto fiducia: mi scrutava come fossi una bimba che attende una spinta fiduciosa, un aiuto per buttarsi senza timori nella vita, una frase di speranza che funzionasse da spinta propulsiva.

Probabilmente in quel momento della mia vita, Ketty ha rappresentato il segnale che qualcosa stava per cambiare dentro di me. Gli incontri non sono casuali e se è vero che la nostra strada si costruisce, mattone dopo mattone, insieme agli altri, posso dire con certezza che lei ha rappresentato un pezzo importante per la costruzione del mio edificio.

La nostre strade sono convergenti e divergenti, sono binari che percorriamo gli uni accanto agli altri senza accorgercene oppure sono linee che si incrociano e poi si separano portate a largo dalla corrente.
Ho impiegato mesi prima di raccogliere le mie parole e dar loro un senso che esprimesse la mia versione di lei: ragionavo per linee dritte quando invece gli incontri sono spesso preda delle correnti.
Poi ho ripensato alla morte. Non sappiamo mai chiamare la morte con il suo nome, anzi ci ostiniamo a non chiamarla affatto. Le affibbiamo appellativi ogni volta diversi e consolatori, non ci arrendiamo all’idea che la morte esista e che sia un fatto reale vicinissimo a noi. Rifuggiamo da essa come si fugge da un brutto sogno dal quale pensiamo di poterci destare sempre nel nostro letto.

Non conoscevo bene Ketty — ho ripetuto a me stessa — ma non possiamo stabilire quanto tempo ci voglia per comprendere una persona ed entrare in sintonia con il suo mondo. A volte non bastano decenni, altre volte invece un paio di sguardi fulminei sono sufficienti per stabilire una connessione profonda.

Voglio credere che con Ketty quella connessione fosse vera e genuina già dai primi istanti del pranzo consumato gomito a gomito.

Ketty sapeva ascoltare, consigliava e spronava. O almeno ha saputo farlo con me, che ancora ricordo il sentimento di libera fiducia che credo cercasse di trasmettermi. Un sentimento compreso con il tempo, perché evidentemente doveva andare così: certe cose le capisci a tempo debito.
Tuttavia parlare di lei al passato non è corretto: Ketty quella energia la infonde ancora e questa non è solo una supposizione consolatoria per far finta che la morte non esista. Le persone che hanno portato luce continuano a donarla sfidando i limiti di spazio e tempo che la nostra mente ci impone.
Il nostro viaggio comincia altrove e finisce altrove e quella che stiamo vivendo ora è solo una breve sosta alla stazione di servizio.

La luce trova sempre una strada per arrivare a noi. Si insinua in un volto, in un ricordo, in una frase di comprensione o stima, nelle fessure di una tapparella chiusa in una giornata assolata. La luce raggiunge ogni pertugio e arriva a noi se abbiamo la forza di guardarla nonostante il suo bagliore accecante.
La luce arriva quando un vecchio amico ci scrive per dirci che vorrebbe rivederci, arriva quando sappiamo affrontare a viso aperto i nostri errori e le nostre paure.

Ho idea che Ketty il suo sentiero di luce lo avesse già intrapreso. Ora sta a noi seguire l’esempio dei suoi occhi spalancati per trovare, in qualche viuzza, anche la nostra strada.

Ketty accoglieva e sapeva ricevere. “E dammi!” esclamava quando la domenica le veniva offerto il pacchetto di avanzi a fine pranzo. Me lo raccontò proprio lei e sua sorella Francesca colse l’occasione per prenderla in giro.
Ketty prendeva il presente, il passato e anche l’avvenire.
Spalancava le mani e le braccia, sia che si trattasse di una doggy bag, di un racconto, di un’opportunità. Mi ha dato l’impressione di una donna capace di prendere a piene mani ma anche di dare con generosità.
Mi piace questa immagine idealizzata che ho di lei, seppur limitata e distante nel tempo, perché sono convinta che non sia solo un’illusione zuccherata dalla morte.

Poco importa se dopo ci siamo perse di vista: la vita segue percorsi indecifrabili e non è detto che un legame debba essere duraturo per definirsi speciale.
Proprio il tempo mi ha dato l’occasione di comprendere che la forza di un incontro non si misura in mesi o in anni: a volte una carezza, uno sguardo, un abbraccio ti restano dentro per sempre e pervadono ogni bel ricordo che hai di una persona.

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Tightrope walking

 

Quindi è da qui che voglio ripartire: dall’idea che la morte nella sua tragicità ci insegni come vivere, o almeno come continuare a farlo restando con le mani ben aperte pronte a ricevere e a donare.
La morte ci aiuta a proseguire sul percorso che abbiamo di fronte imparando a camminare anche su un piede solo, su una fune sospesa nel vuoto, senza un braccio, senza un occhio, senza un pezzo del nostro cuore. 

In fondo siamo nati funamboli e ci abituiamo presto ai percorsi a ostacoli.

Da veri equilibristi, ci viene richiesto di imparare a farcela da soli anche quando ci sembra di non avere appigli concreti.
Le persone meravigliose sono appigli e quelle persone non vanno via: loro si trasformano. Restano accanto a noi sulla fune sospesa nel vuoto, solo che non riusciamo a vederle. Calibrano il vento che abbiamo contro spostandolo un po’ più in là, controllano il nostro assetto, ci sussurrano dove spostare il peso del corpo per continuare a mantenere l’equilibrio.
Le persone meravigliose non vanno via: una volta mi sembrava una frase fatta, ora invece mi basta guardare gli occhi di chi ha perso qualcuno per sentirmi pervadere da un sentimento di profondità che supera i confini delle poche parole che possiamo mettere in fila per descrivere quel senso di profondo.
Le persone meravigliose, o quelle che sono state speciali per noi, restano nel nostro cassetto più interno, nell’assetto che manteniamo in equilibrio su un piede, nelle pieghe dei nostri giorni e di ogni nuovo passo che affidiamo alla fune sospesa. Fosse anche solo per un attimo vissuto insieme, per un dono che da loro abbiamo ricevuto senza la paura di non riuscire a ricambiare adeguatamente.

La bellezza non è sommatoria degli anni vissuti insieme.
La bellezza persiste senza scadenze o calendari e, ne sono certa, alcuni fra noi sono capaci di rendere eterni e speciali anche gli attimi.

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Tightrope 1

 

 

Laura Ressa

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Copertina: Tightrope 1

Scritto da:

Laura Ressa

Classe 1986 🌻 Digital Marketing Specialist & Web Writer 🌻 Frasivolanti