
A gennaio 2015 mi trovavo a Torino e cercavo disperatamente lavoro al termine di un tirocinio che non aveva portato ad alcuna prospettiva successiva.
Ero nauseata perché quello che trovavo spulciando le offerte di lavoro erano colloqui in aziende fasulle, in call center o in altre situazioni poco chiare e con pessime recensioni e segnalazioni negative. Non scherzava l’autista di un autobus che mi disse “A Torino il lavoro non si trova.”
La situazione occupazionale, lì come in altri territori, è ancora disastrata in Italia.
In uno dei tentativi di ricerca di un lavoro che avesse almeno la parvenza di una prospettiva seria, mi capitò di imbattermi in un’azienda, o sedicente tale, per la quale avrei dovuto occuparmi di inserimento dati e attività di segreteria. Ma presto scoprii che dietro c’era altro.
Il primo colloquio mi sembrò sin da subito una presa in giro.
Circa l’identità dell’azienda fu detto poco o nulla ma questa specie di guru che tenne il colloquio mi parlò di una serie di prospettive da sogno per me, qualora la selezione fosse andata bene.
Pochissime domande su di me e sul mio percorso, molta aria fritta e teorie assurde sulla crescita esponenziale del proprio stipendio: da ultimo arrivato, secondo questa guru convintissima, in pochi mesi il lavoratore bravo sarebbe diventato come lei grande manager dell’azienda con stipendio da capogiro.
Mi congedò dicendo che la fase successiva della selezione consisteva in un colloquio “sul campo”, senza ovviamente specificare né dove si sarebbe tenuto né in cosa consisteva. Mi sembrava di essere alle selezioni per un reality show in cui per vincere fosse necessario sopravvivere nella giungla o su un’isola deserta.
Nonostante gli avvertimenti e i consigli delle persone care, decisi di partecipare a quel colloquio sul campo.
Ero inesperta, forse un po’ ingenua, disperata ma in fondo curiosa di capire dove andassero a parare.
Questo tipo di esperienza è capitata a molte altre persone, ma penso che quasi tutti si siano fermati in tempo o abbiano abbandonato la barca prima di andare fino in fondo.
Io invece sono rimasta, rimasi fino alla fine di quel colloquio sul campo. E oggi lo racconto a distanza di anni, recuperando tra ricordi ancora vividi e tra i messaggi che scambiai in quel periodo con le persone care raccontando di questa paradossale vicenda.
Era il 7 gennaio 2015 e i fortunati vincitori del colloquio sul campo erano stati convocati al mattino presso il luogo in cui si era svolto il primo colloquio.
Ci fecero uscire quasi subito dall’edificio e ci divisero in coppie, ogni coppia di candidati sarebbe stata affiancata da una coppia di “esperti” che già lavoravano lì. Io capitai con un’altra ragazza candidata, gli esperti che ci avrebbero valutato invece erano due uomini.
I due sembravano invasati convinti di diventare manager entro 12 mesi e di potersi comprare così la casa dei sogni e potersi permettere tour intorno al mondo in hotel di lusso.
Uno dei due era poco più che ventenne, con poche idee in testa molto confuse. Viveva in una mansarda e su di lui penso che il lavaggio del cervello avesse avuto un effetto così grande che era convinto di poter passare nel giro di pochi mesi dalla mansarda in cui viveva ad una casa tutta sua, magari una villa, e di arrivare agli alti livelli della scala gerarchica aziendale.
L’altro esperto era un uomo sulla cinquantina che pretendeva che prendessimo appunti mentre parlava e che aveva assunto il ruolo di capo della ciurma. Un bravo millantatore di quelli che parlano molto senza dire nulla.

Fu una giornata gettata via, ma forse ora a distanza di tempo è addirittura divertente parlarne.
Quel colloquio “sul campo” consisteva in un viaggio da Torino a Germagnano in treno con i due espertoni delle vendite porta a porta, o meglio delle truffe. Il biglietto del treno naturalmente lo pagai io.
Lo stillicidio durò circa 7 ore, dal mattino presto alla sera. In quelle ore andammo in giro a citofonare a casa di poveri malcapitati per cercare di vendere presunti nuovi e vantaggiosi servizi energetici.
In treno verso Germagnano ci fu chiesto di spegnere i cellulari (forse per non farci localizzare?). Una richiesta degna di un sequestro di persona.
Io lo spensi e stetti al gioco. Ormai ero salita sul treno e mi ero messa l’anima in pace pensando che la giornata sarebbe andata avanti così.
Mentre i due uomini ci raccontavano delle loro straordinarie vite, di come quel lavoro gli avesse donato tanti soldi e una vita eccezionale e di quanto eravamo fortunate ad avere quella opportunità, cominciarono a fare discorsi “tecnici” con tanto di disegnini ed elenchi puntati su concetti da tenere bene a mente.
Ci chiesero di prendere appunti su ogni cosa mentre loro parlavano: e forse io presi anche qualche appunto che poi è andato a finire dritto nella spazzatura a fine giornata.
Dopo più di un’ora di treno, arrivammo a Germagnano.
Faceva molto freddo e ricordo che il paesino era tranquillo, un po’ in altura. C’erano case sparse ma poca gente. Prima di cominciare, ci fermammo a mangiare in un punto ristoro poco distante dalla stazione e i due venditori, che ovviamente non si definirono mai venditori, continuarono a parlarci delle loro tecniche di persuasione, delle teorie filosofiche sulla vita, sul lavoro, sulle opportunità e su quanto la loro vita fosse diventata grandiosa grazie a quel lavoro.
Il tutto condito sempre da elenchi puntati, massime e disegnini a cui io e l’altra valutata dovevamo stare molto attente, perché quei temi sarebbero stati argomenti di un test a fine giornata.
Terminata la pausa, ci fu detto che saremmo andati in giro per il paese a proporre nuovi eccezionali servizi ai residenti e segnando di volta in volta una serie di considerazioni su ogni tentativo di vendita. Ci dividemmo in coppie: io avrei dovuto seguire lo sbarbatello, l’altra ragazza l’uomo maturo.
Ogni coppia prese la propria strada, con l’impegno di ritrovarci a fine giornata nei pressi della stazione per tornare a Torino.
Il freddo mi ghiacciava le ossa, c’erano molte salite e discese da fare. Dovevo seguire il giovane venditore per carpire le sue tecniche, imparare e comprendere in cosa consistesse il suo grande compito, che per lui suonava davvero come una missione.
Bussava senza sosta alla porta di chiunque, qualcuno gli rispondeva e altri lo mandavano al diavolo.
Mi sono poi chiesta se avessero scelto un paesino con molti anziani perché lì le possibilità di essere mandati subito al diavolo erano più ridotte rispetto alla città.
Lo guardavo mentre vagava valutando le case e annusando l’aria di montagna e dentro di me pensavo di chiedergli “quale trauma ti ha portato qui?”
Eravamo due girovaghi infreddoliti che cercavano qualcuno che rispondesse al citofono, qualcuno che stesse ad ascoltare le sue fandonie e che magari si facesse abbindolare e firmasse un contratto.
Vidi molti volti, soprattutto di persone anziane o sole che avrebbero voluto fare due chiacchiere per sentire meno pressante la tristezza e la solitudine. Alcune erano deluse dai servizi energetici di cui avevano usufruito fino a quel momento, e dunque più facilmente abbindolabili dallo sguardo di un giovane che, in fondo, poteva ispirare fiducia.
Lo stratagemma per provare a entrare in casa era sempre lo stesso. Il mio giovane “tutor”, se così potremmo definirlo, mi mostrava i trucchi del mestiere. Si fingeva trafelato e stanco dalle salite impervie del paesino, fingeva un respiro affannoso e quasi a tutti chiedeva un bicchiere d’acqua.
Con la richiesta d’acqua si mostrava debole. Cercava così, tra un sorso d’acqua e uno sguardo innocente, di catturare la fiducia dell’altra persona e di carpire informazioni sull’attuale contratto energetico del malcapitato.
Appuntava tutte le informazioni che riusciva a ottenere su una cartellina e poi partiva con la proposta di nuovi servizi mostrando anche un fac-simile del contratto che avrebbe voluto far firmare.
Le sue prede preferite erano gli anziani, che si facevano attirare più facilmente da qualcuno che poteva sembrare un affettuoso nipote.
Entrammo in casa di una signora anziana, se non ricordo male fu l’unica che ci fece entrare. Ci sedemmo nel soggiorno vicino ad un tavolo con centrini bianchi e fiori colorati disposti in piccoli vasi. I mobili erano antichi e si respirava profumo di nostalgia, ma anche l’odore di quelle tipiche case che custodiscono ricordi e forse un po’ di rammarico per il tempo che è passato.
Mi fece tenerezza e tristezza vederla lì che ascoltava con lo sguardo malinconico: eravamo entrambe incappate in un meccanismo che cattura nel suo vortice persone deboli, quelle con meno strumenti per difendersi, persone deluse, quelle con eccessiva fiducia nel prossimo, con la speranza disperata di trovare lavoro o con troppa poca esperienza alle spalle (come ero io allora).
La giornata finì molto tardi, ero mentalmente estenuata e fisicamente stanca perché avevamo passato tutto il tempo a camminare in lungo e in largo per il paesino bussando a molte porte. Il ritorno in treno lo passammo in preda ad altre lezioni di vita dei due venditori, che tirarono le somme della giornata trascorsa “sul campo”.
Una volta scesi dal treno, ci attendeva ancora l’ultima fase del colloquio: l’incontro con la grande guru super-manager che ci avrebbe fatto qualche domanda e poi avrebbe dato il suo verdetto, consultandosi prima con i mentori circa il nostro comportamento.
Prima del colloquio però compilammo un breve questionario sui temi di cui ci avevano parlato durante la giornata.
Se la giornata era stata un susseguirsi di momenti assurdi, il colloquio finale fu ancora più sconcertante e ai limiti della presa per i fondelli.
Sulla porta della manager c’era un foglio A4 appiccicato con lo scotch.
Dentro lei aspettava ogni candidato con un fare da maestro Yoda, donandoci ancora una volta frasi illuminanti e spiegando finalmente in cosa consisteva il “lavoro”: passare la giornata per strada cercando qualcuno a cui far firmare contratti per nuovi servizi energetici.
La retribuzione era un argomento tabù, gli orari di lavoro variabili e flessibili a fronte di una disponibilità massima richiesta al fortunato selezionato.
Ovviamente rifiutai, purtroppo non aggiunsi alcuna parolaccia. Avrei dovuto voltare le spalle al mio giovane mentore-venditore molto prima e invece declinai l’offerta di lavoro solo a fine giornata, ossia quando la guru (guarda un po’ la fortuna) aveva deciso che potevo essere un buon elemento.
Stavo per uscire dall’edificio, quando il giovane venditore di cui avevo seguito le orme durante quella fredda e lunga giornata mi disse che il mio comportamento lo aveva deluso molto. Quasi a sottolineare che il tempo che aveva passato con me era stato per lui tempo perso dato che alla fine avevo rifiutato.
Prego, accomodati caro! Penso ci sia una discreta fila di persone che si dicono deluse. Ma ho imparato a trattare queste persone mostrando le mie spalle.
Il lavoro non è un hobby. Il lavoro va pagato. Il lavoro va inquadrato in orari e in un contratto dignitoso. Il lavoro è lavoro, non è una sottomissione o una transumanza che ci fa vagare di citofono in citofono proponendo alle persone di cambiare fornitore o prodotto con un fornitore o prodotto magari peggiore.
Io non so dove sia ora quel giovane che sognava di diventare manager, non so se viva ancora in una mansarda, se vaghi ancora di casa in casa a far firmare contratti alle vecchiette.
Non so se nel frattempo sia rinsavito o se creda ancora che con attività del genere si possa campare, comprare casa e diventare manager.
Spero per lui che si sia svegliato da quel torpore. Di guru ne abbiamo incontrati o ne incontreremo tanti, ma se non colleghiamo per tempo il cervello continueranno a vincere sempre i guru e il nostro cervello (insieme alla dignità) continuerà a morire lentamente.
Vorrei trarre un insegnamento o una morale da questo racconto, ma forse stavolta il racconto parla da sé.
Da certi passaggi e da certe tappe bisogna passare, a volte bisognerebbe quasi cercarsele per capire. Perché solo quando sbatti la testa contro un muro di mattoni puoi imparare a riconoscerne la consistenza.
Siamo come bambini che muovono i primi passi su terreni impervi: quando facciamo le prime esperienze in ogni campo siamo al livello 0, più impariamo a valutare l’inclinazione della superficie e più riusciamo ad adattare la posizione di gambe e piedi.
Il terreno impervio e inclinato di Germagnano quella volta mi aiutò a camminare per la prima volta. Tra discese e salite, tra i cani che abbaiavano da dietro ai cancelli e il freddo che gelava le vene, ho mosso i miei primi passi in un mondo che può divorarti se non sai come camminare e dove mettere i piedi.

Laura Ressa
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