
Giuseppe era il suo nome.
Grandi mani forti, pollici leggermente ricurvi e imponenti. Lineamenti del volto marcati a fare da contorno a due occhi simili a fessure. O forse me li ricordo stretti per via del suo sorriso.
Rideva spesso, e a volte cantava quando eravamo insieme. Aveva combattuto la seconda guerra mondiale come sergente maggiore dell’esercito, ma non ho fatto in tempo a chiedergli di raccontarmi qualche aneddoto di quegli anni.
Lo osservavo, incantata, mentre sbucciava la sua frutta. Sedeva a capotavola, e io accanto a lui restavo seduta sul divano con cui confinava il tavolo del soggiorno di nonna. Le mie gambe erano corte e non riuscivo nemmeno a toccare il pavimento con i piedi.
Seguivo la linea tracciata dai gesti del nonno senza staccare un secondo lo sguardo da quello spettacolo. Sbucciava le arance incidendone prima la buccia con il coltello a formare dei raggi, e tirando poi via quei raggi con una pressione delle dita.

Dal coltello al pulviscolo, il profumo in un lampo si diffondeva ovunque nella stanza. Respiravo a fondo l’aria intorno per non perdere nemmeno un granello di quegli attimi e intanto, dalla lama del coltello, l’arancia trovava il giusto rimbalzo per sprigionare i freschi lapilli del suo succo. Particelle di gioia scagliate a gran velocità verso l’alto come goccioline d’acqua salata scagliate dai capelli appena la testa riemerge dal pelo del mare.
Quando puliva altri frutti, il nonno stava attento a non staccare mai il coltello dal frutto e a non recidere mai la buccia prima di aver terminato. Creava così una girandola perfetta da mostrarci alla fine dell’operazione di pulitura. La buccia, magicamente staccata dal frutto, diveniva in quel modo una lunga ghirlanda colorata che oscillava in su e in giù sotto i nostri occhi meravigliati.
Ridevamo per quel modo buffo di mangiare la frutta e adoravamo osservare le girandole che il nonno creava: sembravano piccoli soli fluttuanti, piccoli folletti magici che volavano e saltavano solo per il gusto di farci sorridere.

Lo spettacolo di averlo lì accanto a noi non si limitava solo alla frutta pulita dalle sue mani esperte. Le sorprese, culinarie e affettive, che ci dispensava non eran poche: dal suo paese, infatti, il nonno ci portava sempre i taralli scaldati, tondi e croccanti. Quelli che immergevo nel tè fino a farli spappare, finché non vedevo sul pelo della tazza le piccole bolle che si creavano quando li spingevo fin verso il fondo.

Diversamente dal gesto di spingere i taralli sul fondo della tazza con il cucchiaio, non ho mai scavato a fondo nella vita del nonno o nella storia vissuta prima che arrivassimo noi nipoti. Non ne ho avuto il tempo e l’età per farlo. Non ne ho avuto la consapevolezza, perché da bambina volevo guardare in direzioni diverse da quelle che si mettono a fuoco da adulti. Da bambini si parte dalla superficie, dai colori e dalle forme. Per poi atterrare fino nel fondo delle cose, là dove di solito vuoi arrivare quando cerchi di dare una spiegazione tridimensionale alla tua vita.
Il nonno era per noi un’entità impalpabile. Per capirlo mi fermavo a guardare quel suo modo di sbucciare la frutta, che ad un adulto sarebbe sembrato scontato ma che per me era unico al mondo.
Mi bastava quello, e non per pigrizia. Mi bastava perché il modo più diretto di comunicare, in certi casi, è rannicchiato tutto nei gesti.
Per me nonno era una creatura tra mondo reale e mondo delle favole raccontate, quel tipo di padre che vedevamo sorridere mentre ci portava tante “cose buone”. Doni generosi, perché le cose buone le portano le persone buone ma non si tratta solo di cibo o di beni materiali ma del dono intricato dell’esserci, della presenza. Quel dono che ad alcuni pare impossibile da realizzare.
Alla fine non ho mai capito a quale mondo appartenesse il nonno. Non lo capisco neanche oggi anche se, secondo l’anagrafe, dovrei trovarmi dalla parte degli adulti.

La sua risata esplodeva e si apriva come le arance sbucciate di cui sollevava quei grossi raggi arancioni. E dalla sua risata si sprigionava, come un fiore che sboccia, un profumo inebriante.
Odorava di frutta mista a dopobarba: quell’odore lo sentivo abbracciandolo e standogli seduta accanto. Se rideva si intravedevano anche i suoi denti finti e quelli rovinati dal tempo. Quando li mostrava, il nonno rideva più forte di prima e noi ridevamo insieme a lui in una gara a chi mostrava di più i denti: noi con gli spazi vuoti lasciati dai denti da latte per far posto a quelli nuovi, e lui con gli spazi che i denti adulti avevano lasciato a una nuova età della sua vita.
Negli anni, scavando a modo mio nelle bucce del passato, ho compreso che non sempre i ricordi chiedono di essere interpretati.
Rappresentano la storia che è stata, e a volte non serve leggere altro in essa.
Ci affatichiamo così tanto a capire cosa le persone siano state per noi, ma i loro gesti scorrono dentro senza per forza trasformarsi in parole. Certe volte i loro ricordi si affacciano forzatamente quando non siamo ancora pronti ad aprire la porta, altre volte bussano con delicatezza e aspettano educatamente di entrare dal nostro ingresso principale.
Qualsiasi strada imbocchino, i ricordi si lasciano sfogliare come pagine di un libro illustrato. Immagini a colori o in bianco e nero, sfocate o messe bene a fuoco, con un paesaggio di sfondo o un solo soggetto in primo piano. Oppure sono frasi brevi che talvolta rievochiamo come nenie, proverbi tramandati, odori di cucina, rumori di pentole e tazzine nel lavello, sfrigolio di olio bollente, rumore soffice di frittelle appena cotte e poggiate sul panno, abbracci di cui senti ancora precisa addosso la stretta, occhi che sono spicchi d’arancia con gli angoli in su e il profumo di frutta appena colta.

Alcuni ricordi non chiedono altro che di restare lì dove sono.
A dirci nulla o a dirci tutto.
Nonno Giuseppe sta lì. A dirmi tutto, a dirmi nulla.
Le sue arance stanno lì, nei miei pensieri, e le bucce che staccava continuano ad essere girandole colorate. Continuano a tessere nella mia mente le trame di caldi orizzonti assolati.
Alcuni ricordi restano lì, come le persone. Certe volte sembra possano farsi presente anziché restare avvolte nel nastro del passato.
Alcune persone restano lì: nei giri di coltello che fai sulla frutta, in ogni arancia che vedi sbucciare, nel coltello che premi sulla pelle della pesca, tra le dita con cui apri i raggi della buccia, sui denti da latte e su quelli ricostruiti che usi per addentare o per sorridere.
Alcuni ricordi non chiedono di essere un libro aperto da studiare né un quaderno da riempire di segni interpretativi. Certi ricordi sono una foto fissa in un cassetto, un fermo immagine intatto, chiaro e vivido il cui riverbero attiene anche al tuo presente.
Certe scene restano lì, e non ti chiedono altro che di continuare a esistere insieme a te.
Non chiedono altro che di camminare al tuo fianco.
Ghirlande volanti che ti prendono per mano.

Laura Ressa
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