A intermittenza, per le strade, resistono aggrappate ai balconi o alle finestre le lucine colorate di Natale. Sul tragitto che ci conduce a teatro, il 22 gennaio a Bari per il concerto di Niccolò Fabi, sembra che le feste natalizie non siano ancora finite. Sembra che quella intermittenza scintillante voglia accompagnarci fin sotto al palco, fin dove stiamo per ascoltare le note che trascinano nei luoghi fra un emisfero e l’altro della mente, che ti strappano un ricordo, chi ti prendono dal bavero e ti catapultano nelle immagini proiettate sugli schermi, nelle viscere del futuro, nelle stringhe di testo del passato, nelle parole che avremmo voluto dire o scrivere.
Quelle parole che qualcuno, anche per noi, ha messo sul foglio e nella voce.
Le parole che vi voglio raccontare qui, le parole di quella sera di gennaio in cui qualcuno non aveva ancora messo via gli addobbi natalizi: forse per dimenticanza o forse per godere un altro po’ dell’atmosfera di attesa che precede una festa.

Dal luccichio scintillante e intermittente delle luci per strada, al luccichio che si intravede dal palco. Su quel palco dal quale assistiamo a uno scintillio diverso, scintillio umano che illumina le gote. È lo sguardo di un cantautore che si accende sulle parole di una canzone, e che dopo l’applauso commosso del pubblico lascia scendere qualche goccia sulle guance.
È Niccolò Fabi, un cantautore che si concede la libertà e la spudoratezza di fare qualcosa che potrebbe essere considerato debole, e che invece apre squarci negli altri. Qualcosa che apre la parete immaginaria tra chi sta in platea e chi quella platea la guarda nascosto dietro agli strumenti musicali.
Un luccichio che si fa fatica a percepire persino dalle prime file, perché potrebbe essere dovuto al calore delle luci. Ma è un luccichio che non somiglia al sudore.
È il sudore (e la fatica) di portare agli altri anche la parte più dolorosa della propria esistenza: non per spiattellarla a tutti come un trofeo, ma per tradurla in arte. Per scindere il dolore tra quel che si può buttare e quello che rimane e può diventare linfa nuova.
Qualche occhiata di complicità ai compagni musicisti, poi Fabi dà un altro sguardo al pubblico e ripete quel “grazie mille” prima del brano seguente.

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foto di Pierfilippo Mancini

Ve lo avevo già detto che un concerto di Niccolò Fabi non è solo una track-list o una somma di brani? Ve lo avevo già raccontato che se ci andrete vi potrà spuntare qualche luce intermittente sul viso?
Forse lo avevo già detto, ma ancora non vi avevo detto che quelle luci possono scappare pure sul volto di chi canta. Perché in fondo chi canta, chi scrive, chi dona la propria arte ha bisogno della pacca sulla spalla, ha bisogno dello scroscio di applausi indistinti della folla. Ha bisogno che chi ascolta gli faccia capire in qualche modo questo: “Abbiamo provato anche noi quello che ci racconti. E lo sai fare così bene che ci lasci senza fiato. Ti abbiamo scelto perché hai saputo raccontare anche il nostro smarrimento, la nostra gioia, i nostri laceramenti, il disappunto”.

Quest’anno mi sono regalata la terza fila a un concerto di Niccolò Fabi. Qualcosa che non mi era mai capitato: un posto prenotato il giorno in cui si erano aperte le vendite, un acquisto fatto appena prima che si scaricasse la batteria del mio cellulare.
Ero nella sala d’aspetto del medico in quel momento, e con il biglietto per il concerto di Niccolò Fabi del 22 gennaio stavo comprando una medicina che possiede un principio attivo diverso rispetto a quelle che prescrive il medico.

Quale necessità vi spinge ad ascoltare una musica, a scegliere le parole che cercavate, ad avvicinarvi a un libro, a scrivere ciò che provate?
Quali patologie e sintomi cercate di curare quando vi avvicinate all’arte o ad un artista che apprezzate?
Certe volte la cura di sé parte dalla cura dei ricordi e dalla potatura, comincia con il mettere un’etichetta sui propri cassetti chiusi, comincia con la scelta di aprirli quei cassetti. Ed è sempre una questione di scelte, come ammette il bravo Niccolò.
La cura di sé è quella che ci concediamo quando facciamo ordine dentro, e comincia spesso con la cura del proprio tempo. Passa pure dalla cura delle passioni, dai regali da farsi anche se non ci sono ricorrenze precise in calendario. Quel tipo di cura passa dalla capacità di essere ancora colpiti al cuore dalle parole, perché la musica non è un frastuono che serve a dimenticare tutto ma è melodia che ci aiuta a sottolineare chi siamo: è un’onda che ci culla e che naviga insieme a noi anche in mezzo alla tempesta e in quel che ci fa ancora male.

Forse le lucine intermittenti viste per strada ci stavano dicendo che il tragitto per arrivare al teatro preannunciava una festa. Una festa di luci, un palco senza cantautore al centro dove non assisti ad un one-man show ma a una commistione di suoni che sono specchio di uno specchio più profondo che ci aiuta a guardarci dentro, ognuno con la sua dose di sensibilità, ritrosia, cinismo, voglia di liberazione.

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foto di Pierfilippo Mancini

Il cantautore degno di questo appellativo per me è colui che si sporca le mani, che si tira su le maniche e mette in parole e musica la propria esperienza umana, fatta di umana e trascinante debolezza, fatta di solitario dolore ma anche di istanti di lucentezza. Fatta di prospettive che ci indicano che la vita non è finita anche quando pensiamo che invece lo sia.
Il cantautore mette le mani anche nel nostro fango oltre che nel suo, ci fa sporcare insieme a lui e con lui, ci permette di non dimenticare, di non lasciar andare, di ripescare, di affacciarci al suo mondo come se stessimo parlando con un caro amico.

Le parole sanno salvarci e hanno il potere di farci immaginare la nostra vita vista attraverso la prospettiva di un altro, negli occhi di qualcuno che ha compreso che anche nello spettacolo è sempre la verità che ci conduce al senso.
L’arte non è un posa – e ce lo spiega bene Niccolò Fabi con le sue scelte e con le sue parole cesellate come intarsi preziosi, delicate come piume, pesanti come pietre. Macigni sul cuore che sembrano difficili da spostare e che restano dentro come le sue musiche, tonalità e frasi che cerchiamo ancora e di nuovo fino a renderle parte del DNA, o del percorso che facciamo da casa a lavoro e viceversa.
Le parole ci accompagnano, ci traghettano.

Il messaggio di un cantautore per me è universale e perenne e non ne faccio tanto una questione di epoca storica in cui viviamo, che pure andrebbe salvata per quanto è intrisa di rabbia, di ansie, di incomprensione del diverso, di non accettazione dei nostri limiti. Non ne faccio neanche una questione di scelte musicali che non condivido, perché ognuno può scegliere cosa ascoltare e a cosa appassionarsi.
Ne faccio però una questione di essenza, perché ognuno sceglie anche il proprio senso e non è detto che lo voglia trovare. Ma non è nemmeno detto che quel senso sia uguale per tutti.

Essere amante della musica che mi porta al senso, che mi fa anche piangere o sperare, riflettere o rimuginare all’infinito, non mi rende migliore di altri.
Però mi fa vedere il meglio negli altri, mi fa vedere il meglio in chi quella musica la costruisce e me la regala.
Quindi sarò sempre riconoscente a chi con l’arte mi ha donato parole lucenti, immagini a cui non avrei mai pensato, uno stimolo per guardare fuori dal finestrino con leggerezza e tenacia, con rimpianto ma senza freni a mano costantemente tirati.
Mi fa sperare di poter essere migliore ed è questa la musica che amo di più, quella che parla alle mie tante debolezze e dà loro il coraggio di trasformarsi in altro o di venire allo scoperto.

Quando ascolto la musica che mi piace, posso trovarmi scaraventata tra i sobbalzi delle buche per la strada, posso essere sommersa dal frastuono dei mezzi pubblici ma con la mente potrò viaggiare altrove. Avrò il permesso di andare dove voglio, a cercare la meraviglia nel quotidiano anche quando stento a trovarla.
E riuscirò allora a capire che quella meraviglia c’è e, appunto, non è solo una posa e neanche la forzatura di dover sembrare fintamente positivi a tutti i costi.

Niccolò Fabi mi insegna come si abbraccia il dolore, l’ignoto, i lati oscuri dell’essenza.
Mi ha insegnato a vedere nel buio, non con gli occhi della compassione o dell’istinto ad auto-compatirsi ma con la convinzione che la bellezza è in larga parte presente anche nelle esperienze di dolore, anche in quelle deludenti o che lasciano il vuoto quando finiscono.

Fabi Silvestri Gazzè live at Bush Hall, London 02/10/2014
foto di Giuseppe Milo

La musica e le parole insegnano questo, ma lo fanno senza mettersi in cattedra e senza chiamarmi alla lavagna. Lo fanno senza assegnarmi un voto e senza pretendere che io conosca a memoria la lezione.
La musica e le parole sono la “mano sugli occhi prima del sonno”, il mio sguardo che si posa sulle cose a fine giornata, il riordino dei miei pezzi sparsi in giro o per i meandri della mente, quando penso di non avere vie d’uscita.

La musica e le parole sono la pace che non trovi, sono l’esigenza di avere qualcuno che ti racconti la tua vita attraverso la sua.
Per questo gli applausi di chi ha capito davvero il senso delle parole di Fabi colpiscono come frecce il cantautore sul palco. Prima di essere un’entità distante, un personaggio noto (quasi percepito come divino quando il fan diventa sfegatato) il cantautore è prima di tutto una persona. Nei casi migliori, è una persona che ha scelto di parlare della sua umana debolezza con l’arte e con una soavità che disarma.
Il cantautore lo fa con la delicatezza di chi non ama vantarsi e non fa della musica un metro per misurare al millimetro le proprie prestazioni rispetto ad altri colleghi.
Fabi si accosta alla musica con la consapevolezza di averla come amica, come compagna, come complice, come la nave per lasciare il porto o ritornarci quando è buio per avere un posto dove sa di poter sempre tornare.

La musica, le parole e l’arte non sono esigenze dell’Io, sono invece l’urlo che ci riporta al primo vagito. Sono il fulcro, il magma e il centro della Terra, sono la bellezza a cui possiamo aspirare quando cominciamo a guardare più in là del nostro ombelico.

Questo è il dono enorme che la musica (e l’arte in genere) ci fa: ci riavvicina a noi, oppure ci concede di allontanarci con consapevolezza.
Incide varchi, piaghe e ferite sulla nostra pelle il cui segno però non fa male: è una ferita benigna.

La musica è l’urlo che diventa melodia, le lacrime di un dolore profondo che si trasformano in acqua per innaffiare il nostro orto. Dal buio che inonda le viscere, le grida di una vita che ci sembra non abbia più nulla da dire si trasforma in altro. Fabi lo sa bene come si fa a rinascere, o almeno a trasformare l’urlo più nero in una ghirlanda di fiori, in note che sbocciano dai tasti di un pianoforte, tra le corde di una chitarra.
Intreccia le dita attorno agli strumenti come stesse realizzando cestini in vimini, maglioni fatti a mano, corone d’alloro per cingere teste.
Lo sa come si rinasce, e lo sa bene chiunque di noi affronti le prove che la vita impone.

Credo che nei baratri più enormi da scavalcare si nasconda anche il nostro dono più grande. Nel momento in cui le vicende ci attraversano e la tempesta ci sparpaglia le ossa, quell’urlo di disperazione ci strappa via tutto il fiato che abbiamo. E da quel corpo dilaniato nasciamo un’altra volta e usciamo a riprenderci i pezzi di ossa per ricostruirli e darci struttura.

La musica ci salva? Sì, più di quanto non riusciamo a immaginare. 
E sono convinta che le persone che sanno trasformare le lacrime che si ritrovano tra le mani quando alzano la testa, siano quelle a cui dobbiamo essere più grati e da cui ricevere, imparare. Sono persone che hanno una luccicanza, quelle che hanno navigato nelle onde e ci hanno donato la propria vita rinnovata.

Penso che ognuno di noi abbia bisogno di una storia che lo accarezzi, che lo ricongiunga all’essenza, che parli alla pancia delle persone senza dire bestialità.

Fabi
foto di Pierfilippo Mancini

Mi torna in mente un episodio che ha a che fare con il potere della musica.
Qualche settimana fa ero in casa di amici e mi stavo togliendo di dosso il cappotto in una stanza vuota. Senza che me ne accorgessi mi si è avvicinata di soppiatto la bestiolina di casa: un cane piccolo e docile. Mi ha guardato, sembrava avesse capito come stavo in quel momento. Sembrava volesse dirmi qualcosa – o almeno io ho pensato che fosse così – per alleviare in me un dispiacere sordo. Ovviamente non saprei dire se e cosa volesse dirmi.

Ecco, ora non voglio dire che un cantautore sia simile a un cane altrimenti finirei con l’essere fraintesa. Ma ciò che intendo è che quando esiste un legame profondo tra il tuo stato d’animo e quello di altri, oppure quando capisci che lo sguardo di un altro essere vivente ha compreso come stai, scocca una scintilla.
Ed è quella la magia che penso cerchiamo tutti, prima o poi, sulle mille vie della nostra vita. E cominciamo a cercarla nell’arte quando smettiamo di vedere le persone di successo come dei privilegiati e diventano solo persone normali in lotta come noi con i dolori e i dispiaceri, che sono tappe obbligate per tutti a prescindere dal conto in banca.

Dico grazie a Niccolò Fabi per averci aperto una di quelle vie e averci permesso di guardare nella sua. Gli dico grazie per le sue parole che per me sono carezze, lontane geograficamente ma ben note come fossero pronunciate da un amico caro.

Quando trovate quella forma d’arte che è in grado di scaturire in voi tumulti, ripensamenti, parole che non avevate detto e scelte che aspettavate di fare o quando trovate quell’arte capace di mostrarvi le scene della vostra vita sullo schermo della mente, non avete trovato solo una via di fuga ma soprattutto un porto in cui attraccare. Avete trovato l’abbraccio di chi amate, il perdono che vi concedete, l’ossigeno per tornare a respirare dopo la morsa alla gola.

Benevolenza, grazia, riprese, immersioni, assenze di gravità, ritorni.
L’arte vi posa questo e altro sull’uscio se le lasciate aperte le porte.

 

Laura Ressa

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Copertina: Foto di Pierfilippo Mancini

Scritto da:

Laura Ressa

Classe 1986 🌻 Digital Marketing Specialist & Web Writer 🌻 Frasivolanti