Cosa hanno in comune Primo Levi e il lavoro ben fatto?
Ad Aprile 2017 sul blog #lavorobenfatto fu lanciato un amo interessante. Vincenzo Moretti riportò questo virgolettato di Tiziano Arrigoni: «Stavo leggendo l’intervista di Primo Levi a Philip Roth del 1986, un passo che non ricordavo mi ha colpito […]: “Ad Auschwitz ho notato spesso un fenomeno curioso: il bisogno del lavoro ben fatto è talmente radicato da spingere a far bene anche il lavoro imposto, schiavistico. Il muratore italiano che mi ha salvato la vita, portandomi cibo di nascosto per sei mesi, detestava i tedeschi, il loro cibo, la loro lingua, la loro guerra; ma quando lo mettevano a tirar su muri, li faceva dritti e solidi, non per obbedienza ma per dignità professionale”. […] Può esistere un lavoro ben fatto senza la dignità del lavoro, in questo caso in uno stato di schiavitù?».

Per cercare di capire cosa provasse, nel compiere il suo lavoro, il muratore raccontato da Primo Levi è necessario un esercizio di immedesimazione non indifferente.
Ho raccolto l’amo lanciato in quel post del 2017 partendo dalla dignità del lavoro declinata nel mio contesto. Le riflessioni sul lavorare bene toccano un raggio d’azione molto vasto perché le persone portano in ogni cosa che fanno il proprio lato umano, con le accezioni negative e positive che questo aggettivo trascina con sé.

Puoi essere umano facendo male le cose, puoi essere umano nel farle bene in qualsiasi condizione. Dipende da te, dalla tua storia, dipende da quale significato attribuisci al termine “umano” e al termine “lavoro”.

daniel-clay-1395318-unsplash
Photo by Daniel Clay on Unsplash

 

Immedesimarci in quel muratore però è quasi impossibile se ragioniamo nei nostri panni, perché occorre fare uno sforzo che esula dalle nostre umane inclinazioni. Occorre uno sforzo sovrumano.
Probabilmente il muratore pensava alla morte, a cosa ne sarebbe stato di lui, a cosa sarebbe accaduto dopo la vita, se sarebbe uscito vivo dal campo e se avrebbe avuto un’altra possibilità di ricominciare e dimenticare. Magari pensava che, se avesse svolto correttamente tutto i compiti che gli venivano affidati dai tedeschi, si sarebbe salvato o avrebbe ottenuto la loro stima e quindi, di conseguenza, la salvezza.
I meccanismi della mente sono complessi e in alcune situazioni agiamo in maniera automatica seguendo una processo di sforzo-ricompensa. Metaforicamente è un po’ quello che potrebbe accadere a chiunque di noi quando svolge un compito per un capo che non stima: sa di dover lavorare anche se la persona per la quale lavora non gli va a genio.
Del resto non scegli le persone con cui lavorerai, devi essere pronto ad accettare chi ti capita e a far bene il tuo dovere anche in mezzo a tanti ostacoli. O almeno questo avviene quando non puoi scegliere di fare altrimenti.
Il lavoro del muratore in quel frangente però non si avvicina neanche un po’ al nostro lavoro quotidiano, è per me piuttosto un urlo: il grido “sono ancora vivo e vorrei continuare ad esserlo”. Oppure svolgere un compito al meglio delle proprie capacità potrebbe essere inteso come un ultimo tributo alla vita, un saluto al mondo, un modo per assicurarsi un buon trattamento nell’altrove.
Lavorare bene potrebbe essere un modo per affermare “nella mia vita ho dedicato il mio tempo a far bene quello che mi è stato chiesto”, oppure “ho trascorso i miei ultimi giorni facendo quello che mi piace fare”.

Che ci piaccia o no, non viviamo solo per poter dire “ho un lavoro e lo faccio bene” ma anche perché qualcuno, una buona volta, riconosca che siamo stati bravi, che abbiamo talento, che abbiamo la stoffa per fare qualcosa che solo noi sappiamo fare in quel modo.
Viviamo quindi anche di stima, di ricompense, di soddisfazioni personali, e non solo per poter dire “questo muro è opera mia” ma perché almeno qualcuno là fuori se ne accorga e in qualche modo ci applauda.

aleyna-rentz-684235-unsplash
Photo by Aleyna Rentz on Unsplash

 

In questo istinto viene fuori la nostra umanità, e in situazioni in cui la vita è in pericolo più che far bene le cose per compiacersi in un “come sono stato bravo!” credo che una persona cerchi di ristabilire un contatto profondo con il sé perduto, con la natura, con gli errori del passato, con tutte le volte in cui ha sbagliato.
Il muratore raccontato da Levi forse stava facendo ammenda, stava mettendo tutto se stesso in un’attività che gli riusciva bene, che lo faceva sentire vivo ma che gli consentiva anche di fare pace con il mondo per poi poterlo lasciare senza massi sul cuore. I massi li stava svuotando tutti lì, usandoli poi per costruire il suo muro anziché per portarli dentro di sé.
Il punto è che lui non poteva sapere se il volo lo avrebbe spiccato fuori dal cancello del campo o fuori dal cancello del suo campo vitale.

E qui torno a noi e alla nostra quotidianità. Fare bene le cose è anche un’indole: a volte la impari nel tempo, più spesso la custodisci dentro di te perché l’hai sempre osservata nelle figure basilari e in quelle con le quali sei cresciuto.
La schiavitù come si inserisce in questo discorso?
Quando lotti per la vita, credo che poco importino i diritti… ti preme solo sapere se ti sarà concesso di vivere ancora. Quel muratore per me non è uno schiavo, se non dell’idea di non sapere cosa ne sarà di lui. Cerca di liberarsi di questo dubbio trovando nel lavoro una strada: in questo senso i mattoni hanno un significato in più perché servono per costruire, per erigere, per spingersi in alto. Fanno pensare a un nuovo inizio, a un palazzo in costruzione o a qualcosa che comincia.

Cos’è invece la schiavitù per noi? Calata nel nostro vivere quotidiano, la nostra schiavitù è legata alla precarietà del lavoro ma non solo.
La schiavitù è anche trovare il lavoro ma non ambire a qualcosa in più perché “devi ritenerti già molto fortunato ad avere un lavoro”, la schiavitù è pensare che le cose vadano fatte in un modo solo, la schiavitù è arroccarsi nei propri privilegi smettendo di ascoltare le idee degli altri, la schiavitù è pensare di non essere bravi perché nessuno ce lo hai mai detto, la schiavitù è avere paura di chi è più bravo di noi, la schiavitù è tarparsi le ali e impigrirsi senza sperimentare i propri talenti.

Nella schiavitù c’è spazio per il lavoro ben fatto?
Certo che c’è! Senza lavoro ben fatto non potremmo sbrogliare i nodi con i quali ci leghiamo i polsi.

ronald-cuyan-434484-unsplash
Photo by Ronald Cuyan on Unsplash

 

Laura Ressa

Licenza Creative Commons
frasivolanti di frasivolanti.wordpress.com/ è distribuito con Licenza Creative Commons Attribuzione – Non commerciale – Non opere derivate 4.0 Internazionale.


Per partecipare alla discussione e leggere il testo completo: Primo Levi, il lavoro ben fatto e le domande di Tiziano


Copertina: Photo by Daniel Clay on Unsplash

 

Scritto da:

Laura Ressa

Classe 1986 🌻 Digital Marketing Specialist & Web Writer 🌻 Frasivolanti