
Da quello che leggo negli ultimi tempi, da quando cioè l’emergenza sanitaria sembra un lontano ricordo su cui poter elargire intense prese di coscienza, ho la percezione che lo smart working faccia paura.
Magari mi sbaglio. Sarebbe interessante però, dal punto di vista divulgativo e tecnico, capire basandosi su dati oggettivi in che modo l’attività di ciascuno si sia intensificata in questo periodo e quanto abbia prodotto. Non solo in termini economici ma in termini di contenuti e attività che ognuno, in forme diverse, ha sicuramente messo in campo. Credo, e non sono la sola, che in questi ultimi mesi l’impegno delle persone, dipendenti o libere professioniste, si sia focalizzato su una causa comune, sia stato mirato, concentrato, attento.
Abbiamo anche inquinato meno! Ognuno, a prescindere da stipendi o fatture, ha sentito di portare avanti una causa alta e altra. Abbiamo sentito, ognuno nel proprio campo, di dover dimostrare, di dover fare più del dovuto o comunque più del solito. E invece come mai, da quel che leggo anche su articoli o commenti a freddo, ho la sensazione che lo smart working faccia paura? Paura a chi poi? – c’è da chiedersi.
Soprattutto, in che misura il lavoro agile potrebbe giovare anziché essere considerato (in maniera troppo spicciola) come un distacco dalla realtà con quell’immagine ritrita del dipendente costantemente in pigiama? Credo che la nostra cultura sul tema debba cambiare.
Ieri Cristiano Carriero ha condiviso su LinkedIn l’articolo Il sindaco Sala: «Stop a smart working, torniamo al lavoro. “Effetto grotta” è pericoloso» aggiungendo questa didascalia con la quale concordo e che mi sembra giusto riportare: “Le parole vanno contestualizzate, ma onestamente al di là del titolo ad effetto non mi sembra che il succo sia un altro: Sala considera lo smart working un surrogato del lavoro. E non va bene. Non va bene perché non me lo aspetto da un sindaco intelligente, di una città importante e che amo, ma che deve capire che non è il centro del mondo.
Lo smart working è una opportunità anche per consumare meno, non affollare treni di pendolari, non correre come ossessionati compulsivi, fare meno incidenti, avere più tempo. Il che non significa stare sempre a casa, ma considerare l’ipotesi di poter alternare le due cose, perché i tempi dell’ufficio 5 giorni su 5 sono finiti. Poi se ho letto male oppure ho travisato, ditemelo.”
Io la penso esattamente come Cristiano. E penso che dietro ad alcune parole ci siano altri obiettivi. Sto cercando di capire perché legga in giro pareri discordanti e ho tratto la conclusione che lo smart working fa decisamente paura. Ho tratto la conclusione sbagliata? Forse fa paura perché i mezzi pubblici e i mezzi di trasporto in genere verrebbero usati meno e dunque ci sarebbero meno introiti in quel settore. Magari fa paura perché ci si rende conto che anche in smart working le persone sono molto produttive, se non di più. È un tema interessante, interessante sarebbe andare alla radice di una ripresa che viene vista spesso come un semplice ritorno alle vecchie modalità. Credo ci sia una radice in parte culturale in tutto questo, in quella smania di riprendere tutto com’era per evitare (con malcelato timore) che qualcosa cambi. Un timore che si evince da alcune dichiarazioni pubbliche, da articoli sul tema, da facili considerazioni sull’argomento.
Penso si parta dal presupposto “dal vivo è meglio” ma non si ragiona sul perché dal vivo sia meglio e soprattutto per chi sia meglio. Le persone vivono in condizioni differenti, geograficamente ed economicamente differenti. Il dal vivo è sicuramente meglio con gli amici, ma vorrei leggere dati che dimostrano quanto il dal vivo sia davvero e sempre meglio in altri ambiti e non sia solo una frase fatta usata in modo trasversale. Chi gestisce persone naturalmente può prendere a proprio piacimento decisioni in merito al dove e al come, decisioni contestabili o meno nelle sedi opportune. Tuttavia far passare, anche dai media, il messaggio che lo smart working fa rendere meno e renda le persone meno produttive mi sembra un grande azzardo e una grande sciocchezza.
Il fatto che poi sia la classe politica a far passare il concetto che adesso si debba tornare al lavoro fa quantomeno sorridere. In questi mesi di lockdown molte persone hanno continuato a lavorare alacremente, in misura uguale o maggiore rispetto a prima.
Al di là dell’articolo specifico che qui ho riportato, la questione è più profonda e ovviamente non spalmabile su tutte le tipologie di professioni e di lavoratori. Chi lavora in fabbrica o sulla linea naturalmente non può fare smart working ma non tutti svolgono quel tipo di lavoro. Le professioni da videoterminale sono aumentate a dismisura negli ultimi decenni e molte attività si svolgono con due elementi fondamentali: computer e connessione internet. Inoltre non tutti i lavoratori hanno un mezzo di trasporto proprio, magari devono percorrere molti chilometri utilizzando mezzi pubblici e il tutto con dispendio di tempo, soldi ed energie.
Credo che si possa prendere in considerazione almeno l’idea che qualcosa cambi nelle modalità di certi tipi di lavori, senza pretendere che tutto resti invariato per questa o quella convenienza economica, politica e così via. Il cambiamento poi non va visto, a mio parere, come la possibile o eventuale rovina di certi altri settori (vedi la ristorazione o il trasporto pubblico).
Ogni cambiamento porta con sé un relativo adattamento, senza che esso causi perdite economiche. Inoltre dov’è finito il concetto di cura delle condizioni lavorative delle persone di cui diciamo tutti di preoccuparci? Chiediamolo a loro, alle persone, di quali servizi hanno bisogno per lavorare meglio e di quali modalità, ed evitiamo di comunicare per frasi fatte o utilizzando ragionamenti fuorvianti. Chi lavora e produce sa bene cosa serve per far meglio. E allora proviamo a costruire qualcosa di nuovo e sostenibile tutti insieme.
Mi rendo conto che cambiare una società costruita in questo modo è difficile. Ci sono spesso interessi che travalicano di gran lunga l’etica e la reputano ormai superata, anche e soprattutto nella classe politica. Ma almeno se ne può parlare, discutere, riflettere.
Uno dei commenti al post di Carriero di cui sopra, condiviso anche su Facebook, mi offre l’opportunità a tal proposito di ripescare due citazioni di Verga tratte da “Mastro don Gesualdo” che mi sembrano azzeccate circa il concetto di roba e, se vogliamo, di controllo:
“Disperato di dover morire, si mise a bastonare anatre e tacchini, a strappar gemme e sementi. Avrebbe voluto distruggere d’un colpo tutto quel ben di Dio che aveva accumulato a poco a poco. Voleva che la sua roba se ne andasse con lui, disperata come lui.”
e
“Oggi non si ha più riguardo a nessuno. Dicono che chi ha più denari, quello ha ragione.”

Laura Ressa
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