Da qualche mese sento ripetere a più riprese una formula di saluto che recita “Buongiorno (o buon pomeriggio, buonasera) A TUTTE E A TUTTI”.
Mi chiedo perché questa formula di saluto sia diventata così diffusa, permeante e a volte (lo dico) urticante.
Il fatto di specificare quel “tutte” prima del “tutti” dovrebbe farmi sentire una donna più emancipata, più importante dei “tutti”, più considerata, più intrisa di una visione femminista, più facente parte di una comunità in cui la donna è al primo posto?
Indipendentemente dalla buona fede con cui viene pronunciato, questo saluto reiterato mi sembra una presa in giro. Perché non penso che il femminismo o il sentirsi donne emancipate o considerate dalla società passi dal mettere un aggettivo o un pronome prima dell’altro. Come se la questione delle parità fosse più una rimonta sull’ordine delle parole che uno stare allo stesso livello. E come se la comunicazione fosse diventata un unico grande minestrone in cui buttar dentro anche quelle che “battaglie” non sono.
Come, infine, se la rivalsa di una categoria di persone fosse equiparabile alla scelta di quale antipasto far arrivare prima sulla tavola.

Mi sorge il dubbio che questa nuova formula linguistica che ultimamente sento spesso, forse perché sono aumentate le occasioni di ascoltarla nelle varie dirette social-pandemiche, sia più uno strizzare l’occhio a un tema attuale, che attira consensi facili e facili disapprovazioni (che comunque fanno notizia).
Pare che l’equazione sia: sei ok e sei femminista solo se sciorini sempre la formula “buongiorno a tutte e a tutti” e variazioni sul tema.

No, per me il femminismo non è questo!
A dire il vero per me non è neanche nei termini che usiamo per definire professioni e declinare aggettivi, e se vorrete leggerlo più giù in questo testo vi spiegherò il perché.

Lottare per sostenere questa o quella categoria di persone, rischia spesso di diventare scimmiottamento e rischia di aumentare ancor di più la distanza tra persone.
Ricordate la locuzione latina “Divide et impera“? Perché dividere le persone in categorie e alimentare questo modo di pensare?

Pensiamo a un caso limite: un uomo violento con le donne che ascolta la formula “buongiorno a tutte e a tutti” secondo voi smetterà magicamente di essere violento?
Una persona che sente parlare per categorizzazioni secondo voi cambierà modo di pensare e di agire solo perché ne sente parlare più spesso? O forse continuare a parlare ovunque per categorie non farà che alimentare un modo di pensare che ci vede divisi?

La questione “linguistica” poi sui nomi delle professioni o sulla E del “tutte” pronunciata prima della I del “tutti” mi fa chiedere quanto sia davvero utile che il femminismo diventi una questione di terminologia.
Nella mia esperienza, ho notato che non serve a molto disquisire di termini e di quali di questi usare se prima non si affronta la questione nel nostro agire quotidiano.
In soldoni: che dico a fare “Buongiorno Direttora!” se dopo qualche minuto comincerò a giudicare la stessa persona per i vestiti che indossa, le scarpe che porta o il suo taglio di capelli?

A meno che ciò a cui si mira con le belle disquisizioni sulla terminologia non sia vendere libri, contare click e visualizzazioni a siti o pagine web, alimentare la moda degli hashtag, far salire un argomento tra i trend topic. E poi? Che altro resta dopo questa famelica corsa al social, al proclama, al libro di tendenza?
Parlare spesso e volentieri di certi argomenti in voga per me è un mero tentativo di vendere i propri contenuti, i propri libri, ottenere qualche click in più su un articolo, far iscrivere qualcuno a un corso, ottenere visualizzazioni per una testata giornalistica o accontentare le richieste di un certo pubblico su certi temi.
Se chi lo fa, utilizza questi mezzi per pagare le bollette potrei capire. Purché tutto ciò non venga chiamato femminismo, però.
Voglio sperare, in fondo, che non sia così perché altrimenti il cosiddetto “femminismo” moderno, che vedo spesso declinato solo nei social e raramente agito nella vita reale, avrebbe motivo di essere quantomeno ridimensionato.
Andrebbe visto insomma per quel che è il più delle volte: ovvero un’operazione di marketing.

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Photo by Alex Vasey on Unsplash

 

Forse ho problemi io a pensarla così? Forse ho traumi infantili irrisolti? Può essere.
Di recente, sui social, ho ascoltato una professionista, che calca spesso sul tema del femminismo, asserire che se sei donna e non sei femminista evidentemente hai qualche problema con le donne. Ma di quale femminismo parliamo?
Appuro che, ancora una volta, siamo tutti un po’ psicologi di qualcun altro ma naturalmente mai di noi stessi.

Tutto può essere, potrei anche rifiutare questo moderno femminismo perché ho problemi con le donne. Non fatico a mettere in dubbio me stessa.
In effetti detesto ogni persona che giudichi gli altri dall’aspetto o dalla professione: e questo è un fenomeno a cui mi è capitato spesso di assistere sia ascoltando donne sia ascoltando uomini. Devo dire, contando le volte in cui mi è capitato, che i commenti peggiori li ho sentiti proprio pronunciare dalle donne su altre donne.
Ma forse – mi sono detta – dipende dal fatto che ho avuto a che fare più con gruppi di donne che di uomini e che dunque questo non è un dato da prendere sempre per vero.
Da tempo sul tema taccio reputandomi una persona non adatta e non sufficientemente informata per dibattere di questo argomento.
Eppure, secondo alcuni, basta essere donna per avere gran voce in capitolo sui temi femminismo e conquista delle opportunità.
Dunque essendo donna ma prima di tutto essere umano pensante, e dacché anche i muri parlano ormai di femminismo a parole, posso dire che ho le tasche piene di vivere in una società in cui sembra che per molti le lotte si facciano nella maggior parte dei casi su questioni di aggettivi/pronomi o di vocali e/i da mettere prima o dopo.

Cito l’enciclopedia Treccani alla voce “Femminismo“.
“Movimento di rivendicazione dei diritti economici, civili e politici delle donne; in senso più generale, insieme delle teorie che criticano la condizione tradizionale della donna e propongono nuove relazioni tra i generi nella sfera privata e una diversa collocazione sociale in quella pubblica.”

Le lotte in passato sono state molte e di certo oggi la questione gender gap resta delicata, se affrontata nella prospettiva giusta. In passato non avevamo i mezzi di comunicazione di oggi, ma ho idea che i mezzi odierni siano usati male e troppo spesso per veicolare messaggi che restano veri solo a parole.

Ci sono ovunque nel mondo donne che subiscono soprusi, violenze, che non hanno potere decisionale sul proprio corpo, che vengono discriminate e che vivono in una condizione di libertà negata e segregazione, di alienazione e privazione di diritti che altrove invece sono stati raggiunti da tempo. Così come accade spesso la stessa cosa anche per gli uomini, che siano appartenenti a minoranze oppure no, che faccia notizia oppure no.

Io sono ovviamente dalla parte delle donne e degli uomini, sono dalla parte delle persone. Non solo perché donna (e quindi più sensibile secondo lo stereotipo?) ma soprattutto in quanto essere umano.
Ciononostante non vado in giro con la bandiera del femminismo stampata in fronte come fosse un feticcio da esporre, e non perché non creda in questo o me ne vergogni ma perché sbandierare cose ovvie mi sembra anacronistico e fuor di logica. Soprattutto su questo tema, su cui troppe parole vengono spese a vanvera e scambiate per lotta.

I proclami digital sul femminismo, confezionati spesso per strizzare l’occhio a un pubblico preciso su un argomento di tendenza, mi sembrano un po’ come gli atteggiamenti di chi in virtù del “sono innamorato/a e voglio dirlo al mondo” se ne frega di porre un filtro a ciò che mostra del proprio privato in virtù della libertà di espressione.
Tutto bellissimo, ma esattamente al mondo cosa importa di un’emozione privata e per giunta ovvia?
Dove finisce la libertà di espressione e comincia l’inutilità di un messaggio per le persone e la società? I social sono questo: puoi esprimere un’opinione, scrivere un bellissimo testo, scrivere un testo sgrammaticato, condividere foto di vacanze e cibo, selfie in veranda, ma di certo non puoi portare avanti efficacemente lotte o battaglie di dignità. Perché credo che quelle reali si facciano altrove, fuori dalle metriche.

Il femminismo non è marketing, però mi sembra che lo sia diventato per molti!

Ritengo ovvio il fatto che le persone (LE PERSONE) debbano avere tutte gli stessi diritti e gli stessi doveri, senza alcuna distinzione!
Dacché questo concetto mi pare ovvio, mi comporto come se la cosa fosse scontata. Esco di casa, mi rapporto con gli altri e mi aspetto di vivere in un mondo in cui questa concezione sia normale, data per certa, assodata. Se così non è, penso a come rimediare, nel mio piccolo, per cambiare almeno il pezzo di mondo che abito.
Non parlo male delle altre donne, e non le giudico per il mestiere che fanno o per le loro scelte di vita. Non mi faccio portavoce del femminismo come ci si farebbe testimonial di una marca di deodorante, per poi scendere di casa senza averlo usato.

Non mi metto a scrivere un trattato online su quanto io sia femminista, su come sia bello declinare i termini con la “a” finale, su quanto io voglia avere voce. Non parlo di questa o quella competenza come se fosse possibile declinarla “al femminile”.
Persino il fitness, ho letto qualche giorno fa per strada, è divenuta un’attività definibile “al femminile”.
Per quanto chi si occupa di questi temi “femminili” possa essere un professionista preparato, non credo sia questo il modo migliore di portare avanti quelle che definiamo erroneamente “battaglie”. A meno che non si abbia il coraggio di ammettere che da certe attività si ricavano introiti e che bisogna pur campare. Ma anche in quel caso lo ribadisco: non è femminismo ma lavoro, marketing, pubblicità, chiamatela come volete. E per me, in ottica di etica, ricavare profitti da cause di dignità e parità non è etico.
Chi decide quando una competenza umana diviene femminile? E chi ha deciso che sia necessario, ad esempio, che la leadership non sia più una competenza delle persone ma sia etichettabile a seconda del genere?

Così come non è utile parlare di competenze o di temi “al femminile”, non è utile secondo me opporsi a questo o a quel personaggio politico a colpi di condivisioni sui social. Quella che possiamo fare online non è lotta, e l’algoritmo social di certo non lo aggiri tu utente per arrivare a chi non la pensa come te.
Sai chi ti leggerà e chi condividerà le tue idee? Le persone che la pensano già come te!

Se qualcosa nella società non mi piace, cerco dunque di agire nei luoghi preposti, in occasioni in cui il mio messaggio non passi come una presa di posizione tout court o di moda, una posizione ganza per ottenere click o per vendere, ma come qualcosa di reale, tangibile.
Cerco di agire nella vita di tutti i giorni con la convinzione che su molte questioni l’ignorante non lo posso educare facendogli notare che io ne so più di lui o dicendogli “vieni qua zoticone, ora ti spiego l’importanza delle donne”.
L’ignorante, in quanto tale, il giorno dopo avrà dimenticato le mie parole forbite e le mie ragioni ben argomentate e magari tornerà a trattar male la moglie, a fissare il fondoschiena di tutte le passanti comprese le quindicenni, a fare apprezzamenti disgustosi tra un rutto e l’altro, tra il divertente (secondo lui) e il becero (decisamente sì).
E lo faranno anche le donne, perché tutte le persone quando vogliono tirare fuori il peggio o il meglio di sé sono uguali.

Cosa avrei risolto conducendo le mie cosiddette battaglie social? Nulla. Avrei parlato solo agli stessi che la pensano come me ma in compenso (meglio feriti che morti) avrei ottenuto like, visite al mio articolo, copie vendute del mio libro sul femminismo e via dicendo.
Non pensiate che non sappia quanto sia importante il femminismo, quello vero, o quanto penosa sia la discriminazione a tutti i livelli. Da ragazzina avrei tirato sassate contro i vecchi bavosi che mi seguivano con lo sguardo. Poi ho capito che le sassate non risolvono nulla.
E la cosa più assurda per me sapete qual era all’epoca? Il fatto che alcune donne andassero persino fiere di certe “attenzioni”! O che ci ridessero su con leggerezza.
Non molto tempo fa, ad esempio, una mia collega rideva quando i passanti esternavano apprezzamenti pesanti su di lei o la fissavano. Senza giudizi di merito sul suo comportamento, questo è stato uno dei motivi per i quali, in seguito, l’ho allontanata dalla mia cerchia di conoscenze.

Sono sempre stata dalla parte delle minoranze o delle persone in difficoltà, e questo perché di base sono dalla parte di tutti gli esseri umani. Ammesso che non abbiano fatto del male a qualcuno: e tuttavia anche in quel caso può sempre trattarsi di persone pronte a redimersi e a rendersi utili alla società o a porre rimedio al male fatto.

A questo punto della storia umana credo che faremmo la scelta migliore considerando come genere solo il genere umano, senza questa continua puntualizzazione sulle peculiarità di questo o quel genere nella dicotomia maschio/femmina che è nel nostro essere per nascita e in alcuni casi anche per scelta.
Siamo in tanti ad abitare questo mondo: ognuno ha le proprie caratteristiche e ognuno è diverso dagli altri.
Le differenze esistono, dunque, e sono evidenti. Sono le opportunità a dover essere garantite per qualsiasi persona.
Chiaramente in passato anche il diritto al voto è stato ottenuto dalle donne con fatica, come il diritto allo studio e la possibilità di accedere a tante altre opportunità che prima le donne non potevano avere.

Nel tempo, come dicevo, molte conquiste sono state fatte. Altre si dovranno fare nelle sedi adeguate, prima di tutto con l’esempio, con l’educazione dei figli, con la consapevolezza degli adulti, con la scuola, con lo studio e l’approfondimento della storia.
Che insegnamento può dare, per dirne una, un genitore che guardando la nuova fidanzata di un amico della figlia dice “Eh no, ha sbagliato. Era decisamente più bella l’altra!”
Ho sentito queste frasi con le mie orecchie e non è stato molto bello.

Cosa potremo insegnare proprio noi donne, prime detrattrici di noi stesse, se guardando le foto di altre donne staremo lì a contare le loro rughe, la loro età, il loro modo di vestire, i loro tacchi con definizioni becere e al veleno?
Anche a questo mi è capitato di assistere e, lo ammetto con vergogna, ho assistito senza dire nulla, a volte annuendo, senza controbattere né difendere le donne bersaglio.
Non capisco quali lotte sosteniamo quando banalizziamo la rivalsa delle opportunità per le donne come una questione di etichetta, di aggettivi, di parole per indicare le varie professioni, di formalismi, di corsi sulla leadership al femminile, di campagne per fare in modo che le donne abbiano voce, di hashtag.
Non so voi, ma quando leggo cose del genere a me vengono i brividi lungo la schiena che al confronto una forchetta strisciata nel piatto renderebbe la pena più leggera.

Possibile che nel 2020 noi donne per prime pensiamo di non avere voce e di dover chiedere per averla? Penso inevitabilmente alla famosa frase riferita agli animali: “gli manca solo la parola”.
Io sono donna, ma prima di tutto persona, e la voce ce l’ho! Non ho bisogno di implorare per essere ascoltata. Non ho bisogno di pregare nessuno. Se lo facessi, declasserei la mia voce e mi darei la zappa sui piedi ammettendo di non averla quella voce.
Parlo naturalmente di me, nel mio paese e nella mia condizione sociale. Se fossi in altre condizioni o abitassi in altri paesi la mia voce sarebbe totalmente inascoltata. E in quel caso le lotte vere diventano ancora più difficili perché le culture di altri paesi sono ostacoli più grandi di noi quando si tratta di disuguaglianze.
A chi tra le “femministe” italiane importa davvero di risollevare le sorti delle donne in altri paesi? Queste donne in quei paesi leggeranno mai i nostri libri, le nostre lotte a suon di hashtag, i nostri proclami social? Pensate davvero che dire “buongiorno a tutte e a tutti” scuota l’opinione pubblica e i governi e salvi le donne da abusi, morte e diritti negati?

Che la mia comunicazione si rivolga a vertici aziendali o a vertici di governo poco importa: non mi abbasso, in quanto essere umano, a pregare di avere voce in capitolo in qualcosa. Do per assodato che, in quanto essere umano, avere voce in capitolo sia già un mio diritto per natura!
E dunque agisco in modo da averla, quella voce. Agisco nel quotidiano e in quello che dico e faccio. Non mi metto a distribuire hashtag qua e là, perché il mondo non lo cambi dal caldo della tua scrivania intrisa di cultura e libri, dallo schermo del tuo laptop o del tuo smartphone.
Dunque meglio agire nel modo più vero e concreto possibile. Ci sono molti modi per farlo che prevedono, sì, anche la comunicazione ma non la banalizzazione o la solita dicotomia “donne competenti e sensibili” vs “uomini con troppo potere e troppi soldi”.

L’azione concreta riguarda le leggi, i servizi, la conciliazione, le opportunità di crescita in vari ambiti.
Tutto questo passa da una “rieducazione” delle menti, eppure non mi risulta che la rieducazione delle menti e la consapevolezza passino attraverso corsi di formazione esclusivi, hashtag o libri di nicchia.
Può passare dai libri di storia al massimo (per chi li legge), dai mass media. Ma il tuo libro sul tema di certo non lo leggerà chi maltratta le donne, il tuo video in diretta sui social non arriverà a chi non la pensa come te. Tutt’al più lo potrà leggere/vedere il dirigente aziendale che può decidere di aumentare (mah!?) lo stipendio alle donne o rispettarle di più, oppure un’altra donna che già la pensa come te.
Benissimo, anche quella è comunicazione. Ma quali coscienze hai smosso con quella comunicazione?

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Photo by Isabelle Gilman on Unsplash

 

Perché affronto questo discorso? Perché siamo troppo abituati a ragionare per dicotomie e per categorie ma non è affatto vero che possiamo dirci persone attente o sensibili solo in base al genere a cui apparteniamo. Così come è vero che dirsi femminista non significa esserlo davvero se, voltato lo sguardo dai social, si comincia a guardar male l’amica per come è vestita o a riempire di insulti (“per scherzare eh”) altre donne, o a reputarsi libere in quei contesti in cui secondo noi la libertà passa dal non porre freni alle parole.

Vi spiego il mio pensiero con alcuni esempi per dimostrare che tutto il mondo è paese e che attribuire valori o difetti a una categoria di persone è sempre sbagliato.
Difetti e pregi attengono ai singoli, ed è una responsabilità e una scelta quotidiana di tutti decidere che persone essere.
A prescindere dal genere al quale si appartiene.

Ecco il primo esempio.
Anni fa mi trovai a cena con un gruppo di ragazze che conoscevo solo attraverso i social. Dovevamo incontrarci per imbastire un progetto di scrittura di contenuti per il web.
Ero entusiasta, mi aspettavo di passare la serata a metter su il nostro progetto, una serata in cui ognuna di noi si sarebbe raccontata e avrebbe parlato dei propri interessi e passioni. E invece non andò così!
Passai la serata quasi sempre in silenzio ad ascoltare. Le altre, che si conoscevano già quasi tutte, non fecero che parlare per tutto il tempo di intrighi amorosi, del modo (brutto naturalmente) in cui facevano l’amore i loro ex, degli attuali fidanzati mosci, delle loro pratiche di fellatio, del colore dei peli dei loro lui, di sciacqui e di bicchieri d’acqua poggiati sul comodino per aiutare la deglutizione nei momenti di panico sessuale, di ragazzi che si fanno il bidet prima di uscire dall’ufficio e di altre inutili sciocchezze che neanche nei bagni delle scuole superiori avevo mai sentito.
Non voglio fare la suor Maria Goretti o la bacchettona della situazione. A tutte sarà capitata una seratina un po’ “goliardica”, ma non mi aspettavo che una serata nata per parlare d’altro si trasformasse in una serie completa di Sex and the city dei poveri.

Capisco che ci può essere stato un periodo, a cavallo fra i ’90 e i 2000, in cui abbiamo desiderato essere Carrie Bradshaw, ma continuo a pensare che la maturità sessuale e la libertà di parlare di sesso senza vergogna non significhi ispirarsi a un telefilm o parlare senza un briciolo di pudore e senza porre alcun filtro a ciò che si dice.
Questa è la forma di emancipazione che vogliamo? Davvero le femministe del passato hanno lottato per questo?
Tra il sentirsi libere di parlare di tutto e lo sciorinare le proprie pratiche sessuali in luoghi pubblici, anche di fronte a persone sconosciute, c’è una bella differenza. Non conoscere questa differenza è quanto di più falsamente emancipato possa esistere.
Esercizio di potere? Pratica di auto-compiacimento? Presunta libertà di essere o dire quel che si vuole? Dubito che la libertà stia nel dire tutto ciò che passa per la mente.

Non è questo l’esempio a cui aspiro quando penso a noi donne! E in generale a noi esseri umani. Ma l’inconveniente capita e dopo quella sera non le rividi più.

Di esempi di cattiva percezione del proprio ruolo nel mondo ce ne sono stati altri.
Una volta conoscevo una persona, una donna, che mi raccontò con dovizia di particolari di un collega più grande di lei che pare la volesse conquistare ad ogni costo.
A lei non interessava, però le piacevano quelle attenzioni. Ci rideva, mi diceva di averlo stuzzicato spesso di proposito, così un giorno le dissi “Se non ti interessa, non gli parlare e fai capire l’antifona”. Lei con naturalezza e ghigno beffardo mi rispose: “Voglio vedere fin dove arriva”.
Naturalmente chi mi legge sa bene che questa non è la sede adatta per parlare di violenza e che certe dinamiche relazionali non devono essere guidate da stereotipi o giudicate dall’esterno. Qui parlo di episodi che fanno ripensare al nostro vivere e al nostro essere giudicati buoni o cattivi in base al genere.

Mi spiego meglio. Giocare con le reazioni degli altri a suon di “vediamo fin dove arriva” non ti rende una donna libera delle tue azioni, ma piuttosto una che non ha ancora capito cosa voglia realmente e dunque aspetta di vedere le reazioni dell’altro. Per quanto la si possa vendere come intelligenza e sapiente capacità di lettura dell’animo umano, questa non è affatto intelligenza ma piuttosto forte insicurezza con una punta (concedetemelo) di idiozia.
Ognuno vive la vita che vuole! – direte – Ovvio che sì, purché poi non vada a fare la morale agli altri o la femminista di facciata (come è accaduto nel caso in questione): atteggiamento doppio che ho spesso notato in persone che “predicavano bene” ma in quanto a razzolare, non erano il massimo della coerenza.

Non dico di non aver fatto anch’io errori e di non aver preso scivoloni. Ne ho presi molti anzi!
Però posso dire di non averlo fatto apposta: cadevo perché credevo nelle persone, o almeno così pensavo. Magari ero stupida e non capivo l’evidenza ma non cercavo di sfruttare gli altri, non parlavo di vicende intime se non ero in intimità con una persona, non avevo voglia di “stuzzicare per vedere fin dove arrivavano gli altri”, non facevo di argomenti sessuali l’unico tema di discussione di un’intera serata.
E non ho mai pensato che la libertà da conquistare fosse in una minigonna o nella possibilità e nel coraggio di intavolare una conversazione sboccata.

Una menzione a parte va dedicata alle declinazioni linguistiche “al femminile”.
Nel repertorio la più vecchia è lo stereotipo della “donna con le palle” che nell’immaginario dovrebbe rappresentare il tipo di donna che sa il fatto suo.

Ma esistono anche altri cliché radicati: tra i tanti quello secondo cui la donna si prenda cura di sé solo per volersi bene.
Sono d’accordo in linea di principio ma in quante ci trucchiamo, scegliamo un vestito o facciamo una dieta (magari sconsigliata dai medici) per piacere agli altri piuttosto che voler bene a noi stesse? A me è capitato e credo non ci sia nulla di male, finché riesci a fermarti prima di farti del male sul serio.
C’è invece qualcosa di male nel voler sempre nascondere le proprie vere ragioni.

Non c’è nulla di male nel fare scelte per sé o per piacere a qualcuno ma sarebbe bello, nell’ottica di un mondo migliore, non raccontarsi fandonie e non confondere la voglia di essere con il desiderio di apparire o di piacere.
Voler piacere non è sbagliato, ma onestamente quante volte proprio dalla bocca di chi si reputa “femminista” avete ascoltato commenti poco gentili riferiti ad altre donne su vestiti, trucco e via dicendo. “Lo fa per farsi notare!” – e allora? Tu non hai mai fatto lo stesso?

Quante donne, in teoria promotrici dei diritti delle donne, ho sentito esprimersi usando termini deplorevoli verso le fattezze di altre donne o le loro scelte di vita!
Troppe volte per le mie orecchie!
Altro esempio è il giudizio di valore basato sulla professione.
Qualche anno fa una donna, abbastanza giovane, dopo aver ascoltato il racconto di un’altra donna che aveva lavorato in villaggi turistici, si rallegrava di non aver fatto mai esperienze del genere e di non aver avuto tutte quelle avventure sentimentali che l’altra le stava raccontando.
Lo fece con un tono denigratorio che, nel tempo, ho imparato a riconoscere. Non so se fosse invidia, radicata morale cattolica o disprezzo ma penso non si trattasse di una mia distorsione uditiva. Credo che fosse reale disappunto, come a voler segnare un confine tra sé e le altre (in questo caso “quelle” che lavorano nei villaggi). Come se quel lavoro fosse disdicevole o non fosse un vero lavoro.

Passiamo all’altro lato della barricata. Passiamo a una fetta di universo maschile.
Per evidenziare che tutto il mondo è paese (e che anche tutto il genere è paese) ho avuto larghe dimostrazioni anche di quanto gli uomini siano a volte poveri di argomenti, non solo in situazioni da “macho man” tra maschi e rutto libero ma anche in situazioni di dialogo con le donne.

Gli esempi sono vari: da chi pensa di capire chi sei da un disegno a quello che è certo di capire da uno sguardo le intenzioni di una donna, da quello che diceva che il mio problema era che non “zucculeggiavo” fino al filosofo finto tuttologo che guardava la lunghezza delle dita dei piedi delle donne per capirne la spregiudicatezza nelle prestazioni sessuali.
Alcuni episodi, a pensarci oggi, sono esilaranti: non pensavo che ne avrei mai scritto ma in fondo anche nelle espressioni basse capiamo che siamo tutti uguali e che le persone hanno molte cose in comune.

C’è stato un periodo in cui ho ascoltato discorsi, teorie o “filosofie” di vita maschili, se vogliamo chiamarle così.

Come ho scritto sopra, sto portando a galla esempi negativi per mostrare, appunto, che siamo tutti umani e che il giudizio di valore non si può attribuire in base all’appartenenza di genere né basandosi su altri dati fisici o di appartenenza a una categoria.
Rimestando nei ricordi del passato, nei casi più eclatanti l’uomo di turno era in grado, con una sguardo, di capire se di fronte aveva “una tardona sessualmente inattiva da un po'”, “una con la faccia da porcona”, “una alla quale potrei interessare io ma difficilmente potrebbe accadere il contrario”.
Poi ho ascoltato simpatiche teorie sul peso ideale, su come dovrebbe essere il corpo di una donna per fare di lei una persona appetibile e interessante.

Ho ascoltato la teoria secondo cui la donna con un illice più lungo dell’alluce è più focosa nelle situazioni intime e anche la teoria secondo la quale i “dentini a castoro” potrebbero aiutare molto in certe situazioni. E naturalmente ho ascoltato alcuni dettagli, non richiesti, circa relazioni passate che forse non era il caso di raccontare né a me né a nessun altro.

Magari erano teorie funzionali a certi tipi di argomenti, magari erano frasi buttate lì tanto per ridere o attirare l’attenzione. Ma credo che di fronte a certe chiacchiere da bar siamo tutti uguali, siamo tutti desiderosi di attenzione. C’è chi si mostra per quel che è, e c’è poi chi si riempie la bocca delle parole peggiori per poi farsi paladino o paladina di questa o quella battaglia.

Ritorno sui binari d’origine, perché questi sono esempi ma di certo non racconti così profondi. Credo però che questi aneddoti possano aiutarci a trarre qualcosa di interessante.
L’insegnamento io l’ho capito tardi perché quando ero molto giovane anche le castronerie avevano un certo peso su di me.
Quando lo dicevano le donne, non ci facevo caso. Se lo diceva un uomo, in me facevano più rumore. Nel secondo caso le etichettavo come cose più gravi, più sconvenienti da dire. Forse sono cresciuta con l’idea che le persone del mio genere dovessero somigliarmi di più, essere come me, essere affidabili, genuine sempre.
E invece ho scoperto, nel tempo, che sono state spesso anche le donne che ho incrociato a portarmi lontano dai miei veri lidi. A convincermi che erano persone leali e vicine al mio pensiero, anche quando non lo erano.

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Photo by Jonatan Pie on Unsplash

 

L’idiozia o la frase fuori posto non è quindi questione di genere, come non lo è il valore di una persona. E ora lo so bene.

Questa consapevolezza di essere tutti sulla stessa barca mi fa considerare le persone come tali, senza definizioni vere solo per una categoria.
Cerco, adesso, di non ragionare con i paraocchi del mio genere di appartenenza e, anzi, mettendo insieme i tasselli.
Nella mente ripercorro le parole più offensive che ho sentito, le frasi date per scontate. 

Adesso ne sono convinta: non posso mai in nessuna situazione dire che una categoria sia migliore dell’altra ma piuttosto posso capire se una persona sia migliore per me in base al suo modo di esprimersi e ragionare. E anche in quel caso non potrei giudicare in termini di giusto/sbagliato in assoluto, ma potrei prendere le distanze se necessario.
Ecco dove sta l’inutilità del ragionare per categorie! Ecco dov’è l’inutilità di considerare le categorie umane come dicotomie buoni/cattivi.
Le donne non sono tutte buone e valorose, come vuole spesso l’iconografia, così come gli uomini non sono tutti malati di sesso, noncuranti, assetati di potere o prepotenti.

Assodato ciò, torno alla questione delle lotte per le pari opportunità e all’inutilità di lotte e proclami solo online.
Certi slogan, certi hashtag, certe prese di posizione assunte sui social perché va di moda mi fanno l’effetto di quelle teorie su illice e alluce: cioè mi sembrano qualcosa da dire per ridere maldestramente o riempire un vuoto sostanziale.
Siamo d’accordo: le donne, le persone, devono avere pari opportunità.
Come lo raggiungiamo l’obiettivo?
Scrivendo un lungo post che leggeranno solo quelli che la pensano come te, pubblicando un libro che acquisterà, leggerà e recensirà solo chi la pensa già come te, dicendo “buongiorno a tutte e a tutti” in video che (secondo l’algoritmo) non arriveranno mai all’ignorante che considera le donne carne da macello, mettendo in bio su instagram la parola “attivista” per questo/quello, tenendo corsi di formazione su quanto sia bello avere donne leader?

Tutto allettante, ma a chi ti rivolgi? A chi le dici queste belle cose? E in che modo pensi che queste cose cambieranno la realtà nelle aziende e nella vita quotidiana?
Chi raggiungi davvero? Come cambi la società?
Come cambi le teste degli altri? Cosa fai nel concreto affinché la richiesta di maggiori diritti non sia per te solo un hashtag di tendenza?

Come parli dell’argomento a chi è molto distante da te per estrazione sociale, cultura, geografia, convinzioni radicate?
Non potremo smuovere montagne, ma almeno direzionare i nostri messaggi e dare alle nostre azioni quotidiane le sembianze di ciò in cui crediamo.
E soprattutto evitare che il femminismo diventi una questione di puro marketing, vendite e visualizzazioni.

Negli ultimi anni sul blog ho intervistato molte donne. Ultimamente mi sono chiesta qual è la domanda che sento spesso fare alle donne e che mi dà più fastidio.
A una donna non chiederò mai “com’è vivere e lavorare in quanto donna? quanto è stato facile o difficile farsi strada?”
Non lo farò mai perché sarebbe come chiedere a una persona con le gambe funzionanti “come hai fatto a camminare fino a qui?”

Dimostrerei, cioè, di pensare che il fatto di essere donna ti renda monca, inerme, in difficoltà a prescindere, portatrice di un handicap, senza arti e senza voce per il solo fatto di appartenere a quel genere.

No, non farò mai una domanda simile e questa per me è una scelta e un’azione!
Piccola, ma pur sempre un’azione vera.
Quanto invece di altre cose resta solo una scia dimenticata, una moda o una posa?

In questo testo ovviamente anch’io cerco un pubblico che possa capire quel che scrivo, ma è chiaro che non farò la rivoluzione con queste parole e non aprirò di certo le menti o le coscienze. Non è il mio compito qui.
Mi rivolgo a un piccolo pubblico che, spero, possa trarre una riflessione utile oppure dirmi che sbaglio. E in quel caso se ne potrà parlare.
Non sto facendo una lotta, non sto facendo femminismo qui. Semplicemente perché non è così che si fa. Dovremmo ricordarcelo tutti.

Cito di nuovo Treccani a proposito del termine Femminismo:
“Movimento di rivendicazione dei diritti economici, civili e politici delle donne; in senso più generale, insieme delle teorie che criticano la condizione tradizionale della donna e propongono nuove relazioni tra i generi nella sfera privata e una diversa collocazione sociale in quella pubblica.”
Il femminismo è un movimento non un gruppo di opinionisti social. Non un gruppo di scrittori con la spilletta “sono femminista” sulla giacca, non un bavaglio provocatorio messo sulla bocca, non un selfie, non una diretta social che seguiranno in dieci al massimo. Su alcune cose si può agire a piccoli passi, su altri argomenti il terreno invece è troppo delicato per semplificarlo con una manciata di slogan.
La storia, è ovvio, la cambi anche a piccoli passi ma a me certi passi sembrano autoreferenziali, inutili allo scopo nobile, ritriti in un misto di moralità e finzione, funzionali ad altre logiche utilitaristiche.
Le future generazioni meritano un’eredità migliore di questa!

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manifesto We Can Do It! (con una mia modifica)

 

Prendo in prestito questo famoso manifesto “We Can Do It!” e lo modifico in “We Can Post It!” perché mi sembra che da un po’ di tempo con il vessillo del cosiddetto “femminismo” moderno si tenda più a dire che a fare, più a postare che ad agire.

Continuare a ragionare, in ogni discorso, per categorie significa fare un po’ di passi indietro. La comunicazione così diventa un circolo chiuso a tenuta stagna che non porta cambiamenti positivi ma ulteriori (anche tragiche) distanze.

Non so se il tempo darà ragione ai vostri hashtag, ai vostri corsi, alle tavole rotonde strutte in cui buona parte degli astanti è intenta a controllare le notifiche sul cellulare.
Vorrei vedere un femminismo che sia impegno e non posa, che si esplichi nei gesti e che non sia una facciata usata per assolversi a vicenda.
Vorrei vedere che per le persone dirsi femminista non sia solo una questione di cosa e quanto postare sui social, mi piacerebbe che non fosse solo una questione di titoli di libri o titoli professionali, di saluti, di tag, di parole chiave, di SEO.
Infine, vorrei che nessuno si professasse femminista se non nel significato primario. Non usare quel termine, e non averne più bisogno un giorno, vorrebbe dire che avremo veramente vinto la battaglia più bella: quella di vederci solo come persone.

Come noterete, non ho inserito la parola “femminismo” tra le chiavi di lettura e i tag di questo articolo. Preferisco parlare qui di comunicazione e di libertà, dacché non è da qui che posso fare battaglie di umanità e dignità. Posso provare però a piantare germogli in chi vorrà usarli.

Spero con il cuore che qualcosa cambi anche grazie ai mezzi di comunicazione a cui siamo più avvezzi e che certe parole non siano solo un rumore di fondo ascoltato dagli amici di chi produce quel rumore.
Tuttavia dubito che con hashtag, selfie, workshop, formule linguistiche si cambi davvero paradigma a livello locale e globale. Se poi vogliamo cambiarlo a livello micro, le battaglie penso si facciano con l’esempio, con l’educazione, con l’approfondimento della storia, cominciando a boicottare realtà industriali e marchi che fanno comunicazione scorretta o sfruttano gli ultimi, le donne o chiunque altro viva in condizioni di emarginazione e sfruttamento.

Altrimenti diventeremmo cani che si mordono la coda, faremmo solo le lotte che ci convengono e solo in alcuni luoghi. Entreremmo, se già non ci siamo dentro, in un circolo vizioso in cui essere femminista “fa figo” ma resta un modus che non trova spazio nella realtà e ascolteremo solo noi stessi alimentando un business, un sistema capitalistico che si fa beffe di noi e guadagna sulla scorta delle nostre piccole parole e delle nostre scelte di acquisto.

Forse ci vorranno molti altri anni, molte altre idee ancora per arrivare al momento in cui le persone ragioneranno solo in quanto persone e non in quanto appartenenti a una categoria minoritaria o che necessita di cure e tutele.
Ma ho idea, senza offesa per nessuno, che i cambiamenti veri non proverranno da questa nostra epoca intrisa di parole poco agite e di stereotipizzazione strisciante.

 


Chiudo con una scena tratta dal film “La grande bellezza” in cui non solo emerge la grande ipocrisia di un certo modo di comunicare il proprio impegno e il proprio essere ma offre un ampio repertorio di stereotipi. Dal binomio “donna e madre” (usato da molte donne per dirsi migliori di quelle che madri non sono) alla “donna cazzuta”, fino alla “donna con le palle”.
In questa scena c’è uno smascheramento di tutta la società, beninteso, e di quelle battaglie che diciamo di sostenere ma che spesso, ahimè, sono solo pose, questioni di convenienza.
Una denuncia perfetta rivolta a un mondo e a una società che abbiamo voluto noi.

Dite che sarebbe stato più politically correct se la scena fosse stata girata a parti invertite? Dite che nemmeno un film, secondo quanto ho detto finora, può aprire le coscienze?
No, la critica di questa scena è rivolta a tutti. E più si estende a tutte le persone, meglio è. Perché il cinema arriva a più persone di quelle che leggono il mio sito, il mio blog, che comprano i miei corsi, che ascoltano il mio speech in un evento di settore, che leggono i miei libri di nicchia o per addetti ai lavori, che visitano il mio profilo social o ascoltano le mie dirette.
La critica in questa scena è rivolta a tutte le persone, e penso possa davvero arrivare a più persone.

Se in ogni discorso baderemo prima all’appartenenza di genere, a chi ha detto cosa, avremo sempre una visione ristretta dando un cattivo esempio agli altri su come e dove trattare certe questioni e su come condurre certe battaglie.

 

 

 

Laura Ressa

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Copertina: manifesto “We Can Do It!” modificato da me in “We Can Post It!”

 


Questo testo è dedicato a tutte le donne e a tutti gli uomini che mi hanno dato insegnamenti positivi ed esempi da seguire.

Questo testo è dedicato anche: alle donne che parlano male delle altre donne, alle donne che scambiano l’emancipazione per libertà di dire tutto di tutti in qualsiasi luogo, a chi ha bisogno di farsi paladino di grandi cause senza esserne esempio, a chi mi ha fatto sentire poco “appetibile”, a tutte queste persone che ho incontrato nella vita e che mi hanno fatto, senza volerlo, il dono della libertà di scegliere. La capacità di riconoscere la bellezza altrove, la possibilità di ragionare e di ascoltare ciò che dei loro discorsi andava tenuto e ciò che andava buttato.

P.S.: mi scuso se avete trovato indelicati alcuni termini che ho usato nel testo. Credo che a volte anche rimestando nelle nostre scorie si possa ricavare un insegnamento importante. Se pensate abbia sbagliato, sarei felice di confrontarmi con voi.

Scritto da:

Laura Ressa

Classe 1986 🌻 Digital Marketing Specialist & Web Writer 🌻 Frasivolanti