
Il balcone di casa di mia nonna affacciava, e affaccia ancora, su una strada piccola e stretta. L’affaccio da quel balcone offriva una visuale su vari angoli della strada oltre i quali non era dato poter osservare. Uno di questi angoli in particolare era più vicino e quindi più visibile dal balcone.
Si trattava dell’angolo che conduceva a casa mia: ecco, non era proprio dietro l’angolo casa mia allora ma la direzione per arrivarci era quella.
A quante scene ha assistito il balcone di nonna!
Ha visto il mio primo giorno di asilo e il mio primo giorno di scuola elementare, questo è certo perché casa di nonna affacciava sulla mia scuola. Sì, saranno davvero tante le scene a cui avrà assistito quell’affaccio, e quei muri, e quel palazzo antico. Tante quante ne può osservare una nonna che guarda sua nipote crescere e affacciarsi al mondo come mettendo fuori la testa su un balcone.
Casa di nonna è un luogo che racchiude bellezza e lacrime. Quando parlo di lacrime non mi riferisco solo agli ultimi tempi in cui è stata abitata, quando nonna fu costretta a lasciarla perché non poteva più vivere da sola. Nonna non piangeva mai, o almeno io la ricordo come una donna tutta d’un pezzo spesso arrabbiata oppure, al contrario, sorridente.
La sua casa quindi non mi ricorda le sue lacrime ma le mie, quelle del periodo d’infanzia in cui avevo il terrore delle scale e dovevo salire da nonna senza ascensore, all’ultimo piano di un palazzo antico con rampe sgangherate.
Nei sogni più brutti le percorro ancora quelle scale, ci scivolo su come in preda a sonnambulismo ma le scale appaiono reali e sembra si stiano per accartocciare sotto i piedi mentre scendo.
Qualche volta, prima di chiudere gli occhi per dormire, rivedo anche il balcone di nonna. In quelle immagini, però, anche il balcone si sgretola come le scale, si distrugge sotto i miei piedi ed è come se stessi cadendo anch’io trascinata da un improvviso cedimento strutturale.
Forse l’assenza della nonna si fa sentire adesso che sono più matura e che potrei chiederle di raccontarmi la sua storia. Percepisco di aver perso un patrimonio che difficilmente riuscirò a recuperare per intero: si sgretola la speranza di poter scrivere la sua storia e di conoscerla davvero.
Non so perché le immagini di qualcosa che cade, che si rompe o si distrugge, siano così frequenti nei miei pensieri negli ultimi anni: evidentemente non ho avuto abbastanza tempo cosciente da vivere con lei. Io e nonna ci saremmo dovute incontrare in un altro tempo, da coetanee magari, e raccontarci le nostre vite.
Sarebbe bello sapere che in un universo parallelo questo sta avvenendo davvero!
Mia nonna compare spesso nei miei sogni: in quel caso non c’è niente che si sgretola, di solito nonna mi dona qualcosa o mi guarda senza dire nulla.
Una delle ultime volte che l’ho sognata mi porgeva un paio di scarpe nuove che, per chi crede all’interpretazione dei sogni, potrebbero essere il simbolo di un istinto al cambiamento o al miglioramento della propria vita.
Sì, voglio interpretarlo così il sogno: mia nonna che cerca di dirmi che devo fare di tutto per star bene, cambiando all’occorrenza qualcosa che mi va stretto o che va rinnovato.
Il balcone di mia nonna è il simbolo della mia infanzia a casa sua, dei pomeriggi passati a finire i compiti di scuola o a guardare con lei le soap opera che le piacevano e di cui dimenticava sempre la trama e i nomi dei protagonisti. La sua frase tipica quando cercava di raccontare le storie delle telenovelas era qualcosa del tipo “cudd ha ditt a chedd ca stev co cudd e co u marit d chedd” – Frase in dialetto in cui i nomi delle persone non esistono e i personaggi sono tutti citati senza nome e appellati come “quello” o “quella”.

Protezione, Osservazione, Crescita
Perché penso al senso di protezione quando ricordo quel balcone? Perché agli occhi della nonna che mi osservava andar via, io associo il suo istinto di protezione.
E poi Osservazione. Sì, nella vita bisogna avere anche spirito di osservazione e io da quel balcone imparavo piano piano a capire le persone o almeno a guardare senza giudicare troppo. Mi lasciavo trasportare dal film che poi era la realtà, da quello che correva e scorreva davanti a me senza titoli di testa, dal vociare per strada, dalle auto e dai loro clacson.
Il balcone può sembrare un elemento statico, ma in realtà con sé trascina scene di vita.
Il balcone di mia nonna, ad esempio, ha visto mio nonno: l’unico vero esempio di padre che io abbia mai avuto.
Ho potuto godere della sua presenza dolce e malinconica solo per poco tempo: va spesso a finire così quando hai qualcosa di bello fra le mani, sembra che il tempo te lo voglia portar via, sembra un sogno dal quale prima o poi qualcuno ti sveglia bruscamente.
Però di nonno ricordo alcune immagini che, se non lo avessi mai conosciuto, oggi non potrei custodire.
Dunque il tempo che ci viene concesso con le persone è sacro in ogni caso, a prescindere da quanto ci sembri lungo o breve.
Il balcone di nonna non c’era ancora quando fu costruito il palazzo in cui abitava. Lei e mia madre sì invece: nel periodo della costruzione vivevano infatti nel sottoscala del palazzo di fronte. Erano tempi piuttosto duri, ma la nonna si è tolta un dente in casa da sola senza anestetici quindi figuriamoci se si faceva abbattere dall’idea di abitare in un lugubre sottoscala.
All’epoca sognava una casa vera guardando il palazzo in costruzione e, per quanto non ne abbia mai avuto una che fosse di sua proprietà, quella sua ultima casa è stata l’unica vera casa che abbia mai abitato.
Se penso a ciò che il balcone, in quanto luogo della memoria, ha lasciato in me penso a questi tre patrimoni quindi: senso di protezione, capacità di osservazione (che non è morbosa voglia di guardare le vite degli altri) e crescita intesa come evoluzione nei passaggi del tempo. Un tempo che non era solo il mio ma anche quello della nonna nei momenti in cui mi raccontava gli episodi della sua vita.
I luoghi sono vivi, vestono i panni di un vero personaggio: l’involucro, l’incarto che ci ospita, il tetto che ci copre, la coperta che ci tiene caldi.
C’è chi quell’involucro vuole riempirlo di mobili e oggetti costosi, chi di foto, chi solo di ricordi. Nella mia famiglia abbiamo sempre riempito i luoghi di ciò che ci serviva per vivere. Accorgendoci, puntualmente, quando è stato il momento di lasciarli, che quel che contava non erano i mobili o la zona della città in cui erano collocati o l’affaccio ma quello che in quei luoghi avevamo vissuto: la tristezza, la gioia, le frasi brutte e quelle belle, gli attimi d’ira furibonda, gli abbandoni, gli abbracci, i ritorni.
Il balcone di mia nonna è un posto che rivedo di frequente: ci abito vicino. Però quel luogo così vicino a me sembra in verità molto lontano, come se si trovasse in un’altra città.
Magari il tempo trasforma i luoghi e li fa entrare nella loro dimensione cosicché un luogo vicino fisicamente ci appare lontano perché i ricordi legati a esso sono distanti dal nostro tempo attuale.
Che poi, a pensarci, io l’ho sempre odiato il tempo! E magari lo odio proprio perché mi allontana anche dalle cose e dai ricordi legati alle persone che non ci sono più.
Più il tempo scorre e più il ricordo del passato rischia di diventare fioco e svanire. Bisogna fare un esercizio costante di ricordo, di riaffioramento, di narrazione e racconto.
Nonna, devo ammetterlo, è onnipresente nei nostri racconti e sono certa che ne sarebbe entusiasta. La nominiamo a una frequenza spaventosa.
Ad alcuni non piace rievocare il passato, qualcuno storce il naso se gli chiedi di guardare insieme vecchie foto. A noi invece piace rievocare ciò che è stato: ci convinciamo che questo serva ad avere sempre traccia perenne dei legami che non vogliamo che il tempo cancelli.
Ricordare, Perdonare, Saper salutare
Quando penso al modo in cui il balcone di mia nonna ha influito nella mia trasformazione, mi vengono subito in mente tre verbi: Ricordare, Perdonare, Saper salutare.
Rievocando l’angolo cieco di cui raccontavo all’inizio, questi tre verbi hanno molto a che fare con gli angoli.
Quando si volta pagina, si chiude un capitolo della vita o si cambia, si chiude una porta con la speranza di aprire un portone, è come se ci lasciassimo dietro una strada già percorsa. Non possiamo vederla nel presente perché abbiamo svoltato l’angolo: però quella strada è lì anche senza di noi, continua a esistere, da lì le persone continuano a passare e a vivere. E anche se quella strada verrà distrutta e ne arriverà un’altra al suo posto, il posto che occupa nella nostra memoria resterà intatto e inviolato. Quasi cristallizzato per sempre.
Perché Ricordare diventa essenziale quando parlo di luoghi?
Su balcone della nonna ho sviluppato molti ricordi, ma la cosa curiosa è che i ricordi non sono riferiti solo ai momenti in cui mi trovavo sul balcone.
I ricordi sono associati anche ai momenti in cui il balcone lo guardavo dalla strada o da dentro casa della nonna.
Il balcone era fondamentale anche nelle ore troppo calde, quando la nonna guardava la strada da dietro alle imposte oppure si sedeva di spalle al sole con la schiena scoperta. Lo faceva sempre, ogni giorno di ogni estate.
Lo faceva perché da giovane aveva sofferto di pleurite e aveva anche rischiato la pelle, quindi da allora la sua fissazione era assorbire quanto più possibile il calore del sole soprattutto sulla schiena: glielo aveva consigliato il medico – diceva.
In tutti questi ricordi il balcone è protagonista indiscusso e a volte indiretto, da qualsiasi angolazione lo si osservasse o lo si vivesse.
Lo si poteva vivere seduti alla sediolina, quando la nonna i pomeriggi di primavera e d’estate posizionava la sua sedia grande accanto alla mia sedia piccola e stavamo lì, a guardare, a volte a parlare.
Ricordo di aver ascoltato dal balcone le rondini e il loro canto forsennato. Un pomeriggio di primavera una di quelle rondini entrò persino in casa e fu un dramma riuscire a farla tornare fuori a correre tra i palazzi. Era uno spettacolo poter osservare le rondini da così vicino: sfrecciavano talmente veloci che spesso ho temuto che una di loro mi si schiantasse sulla fronte durante il volo.
Il balcone della nonna era anche il pane lasciato al sole per far sì che si indurisse e ricavare il pan grattato, era il canto delle rondini e il frusciare delle loro ali, era la voce delle dirimpettaie con cui nonna chiacchierava, era il balcone di Pasquina (l’inquilina del piano di sotto), era la “zoca” (termine dialettale) ovvero la corda con cui la nonna calava giù il cesto in vimini con dentro le pietanze che preparava per noi. La usava soprattutto quando non c’era tempo per salire a prenderle o quando ci dimenticavamo qualcosa.
Il balcone della nonna era il saluto che le rivolgevo al mattino prima della scuola e la mano con cui mimavo il “Ciao” quando nel tardo pomeriggio mamma, dopo il lavoro, mi veniva a prendere e andavamo via.
Nonna si affacciava sempre. Sempre.
Non c’è stato giorno in cui non si sia affacciata al balcone per guardarmi mentre svoltavo l’angolo. Sembrava mi volesse proteggere con lo sguardo e seguire i miei passi finché le fosse stato possibile, finché fossi stata alla portata dei suoi occhi.
Ero convinta che lo avrebbe potuto fare per sempre, e poi mi sono convinta anche che in qualche modo lo fa ancora.
Potevo metterci la mano sul fuoco: se andando via da lei o arrivando da lei avessi alzato lo sguardo, avrei trovato sempre il suo che mi guardava e la sua mano che mi salutava.
Perché ho scelto il verbo perdonare per ricordare il balcone?
A volte, anche se è accaduto raramente, presa dalla foga della mia esuberanza e giocosità infantile mi sono dimenticata di alzare lo sguardo e salutarla. Nulla di strano, succede. Nonna era sempre lì affacciata ad aspettare però, esattamente come si aspetta un regalo agognato e ci rimaneva male se mi dimenticavo di salutarla.
La scena era bellissima e si consumava in pochi istanti. Il bello è che aspettavamo sempre l’ultimo istante per chiudere la scena.
Io uscivo dal portone e cominciavo a camminare. Nonna osservava il breve tragitto dal suo portone all’angolo della strada: sapeva che pochi attimi prima di svoltare l’angolo mi sarei fermata, avrei girato e alzato la testa salutandola con la mano.
Un gesto magico e mistico al tempo stesso.
Non saprei quantificare quante volte l’ho ripetuto. Era un gesto atavico, una specie di azione involontaria del corpo simile all’istinto di rannicchiarsi in posizione fetale quando si paventa un imminente pericolo.
Nonna non c’è più dal 2016 ma sono convinta che in qualche modo lei ci sia ancora. Non è illusione consolatoria: sono convinta che, anche quando il palazzo in cui abitava verrà a breve abbattuto, nonna e il suo balcone resteranno lì a guardarmi passare e svoltare l’angolo svanendo.
L’anno dopo la sua morte sono passata da quella strada. Ci sono passata varie volte in realtà ma quella volta era tardo pomeriggio, e forse era autunno come adesso.
Stavo per svoltare il famoso angolo, quello che mi portava a casa mia e da cui nonna mi osservava svanire.
D’istinto mi sono fermata, ho girato e alzato la testa guardando il suo balcone ormai vuoto e disabitato da quando lei lo ha lasciato. Il tempo era fermo, immobile, le imposte erano le stesse di molti anni fa, così come la ringhiera in ferro del balcone.
Guardando in su, l’ho immaginata affacciata.
Poi ho alzato la mano, l’ho sventolata e ho detto “Ciao, nonna”.
Il languore del rientro
Voglio ricordare un ultimo gesto legato al balcone: la postura di rassegnazione quando si rientra in casa. Secondo me tutti ne abbiamo avuto percezione ma forse non sempre ci abbiamo fatto caso.
Quando mi è capitato di osservare da un balcone qualcuno che andava via, quando quel qualcuno è sparito dalla mia visuale ho sentito sempre un fremito di vuoto. Un senso di tristezza, ma non quella che proviamo per un dolore o un dispiacere. Si trattava di una sorta di rassegnazione. Ho visto quella reazione automatica in me stessa, l’ho vista in mia madre.
E credo che la nonna provasse lo stesso senso di piccolo momentaneo e triste vuoto. Guardare la sua nipotina, le sue nipotine che andavano via, nella sua visione fatalista della vita, forse era un modo per dare un ultimo saluto qualora fosse stato davvero l’ultimo.
Non tanto una visione pessimista del domani ma, appunto, fatalista. Tipica di una persona che mette in conto tutto e vuole poter sempre salutare tutti ché di domani nessuno può dire se ci saremo ancora. Non la chiamo tristezza o paranoia, ma lieve languore da distacco.
Mi convinco, così, che la nonna con quel gesto mi ha insegnato che bisogna imparare a salutare. Saper salutare è un gesto facile, lo facciamo con molte persone, ma quando dobbiamo salutare le persone che amiamo e sappiamo o pensiamo che non lo potremo fare più, quel gesto diventa difficile, diventa una cera lacca sulla lettera dei ricordi e del tempo.
Ciao nonna, prometto di salutarti prima di svoltare l’angolo. Tu però, quando mi volterò, resta sempre pronta a sventolare la tua mano!

Questo racconto è nato anche per essere ascoltato. Il podcast è su Spreaker e Spotify:
Postilla:
Nella Piccola Scuola Jepis Bottega abbiamo avviato una nuova sperimentazione narrativa: raccontare i luoghi. Questo mio testo è uno degli esperimenti in questione.
Siamo partiti con il primo tavolo di lavoro in diretta sul gruppo Facebook della piccola scuola. In quella occasione ci siamo confrontati sul luogo che ciascuno di noi avrebbe voluto raccontare, abbiamo specificato perché raccontarlo e quali ricordi sono legati a esso. Poi abbiamo esplicitato i linguaggi che avremmo utilizzato, i canali attraverso cui veicolare il racconto e abbiamo individuato gli elementi Carattere e Trasformazione, ovvero i due punti cardine da cui partire per restituire una direzione alla narrazione.
I linguaggi che ho scelto per raccontare il balcone di mia nonna sono: testo, foto d’epoca, podcast con alcune frasi della nonna in dialetto acquavivese (dialetto di Acquaviva, in provincia di Bari).
[il post è in aggiornamento, di volta in volta lo integrerò con foto e nuovi metodi narrativi]
Laura Ressa
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