Tempo fa una professionista che si occupa di scrittura e copywriting presentò online, e con orgoglio, un’intervista che aveva appena rilasciato. Lo fece affermando che si era trattato di una lunga chiacchierata e non di un elenco di domande a cui rispondere via email.
Un paragone, questo, che lasciava intendere il piacere di aver avuto quello scambio ma che portava con sé un’opinione personale facilmente interpretabile come una “denuncia” nei confronti di chi confeziona le proprie interviste scambiando domande e risposte via email.
Il messaggio può essere travisato, come del resto le intenzioni di chi scrive. Ma per uno strano effetto suscitato in me da quelle parole (forse perché mi capita spesso di concordare interviste in cui lo scambio avviene via email), quello che ho percepito più di tutto il resto è stata la contrapposizione tra i termini chiacchierata e email.
È stato come se, nella mia mente, avessi visto la faccina sorridente in corrispondenza della parola “chiacchierata” e la faccina inorridita vicino al termine “email”. Le parole avevano assunto un colore preciso, un volto, un’espressione ben definita.

Era dunque entrata in gioco la mia interpretazione ma erano entrati in gioco anche due mezzi persuasivi potenti: il giudizio di valore presentato denigrando velatamente altri modi di fare e, ancor più potente, l’autorevolezza in materia, utile se si vuol parlare della materia in questione ma pericolosa se usata per contrapporre la bontà di alcuni metodi rispetto ad altri.

Non credo nei giudizi di valore dati sui metodi altrui: non ci ho mai creduto neanche quando a darli sono stati gli esperti in materia.
I giudizi, anche se presentati in una forma edulcorata e liberamente interpretabile, non servono a chi li scrive o li dice. E non servono neanche a chi li legge o li ascolta. Al contrario i giudizi aumentano le distanze, più o meno marcate e più o meno percepite, ostacolando la comprensione di un concetto nuovo potenzialmente interessante.

Credo che il metodo che si sceglie per fare qualcosa, di qualsiasi cosa si tratti, venga deciso di comune accordo con le persone coinvolte, con criterio, sulla base degli obiettivi o delle proprie inclinazioni personali.
Sono partita da questo piccolo esempio chiacchierata versus email ma ne esistono molti altri, meno velati, in cui il giudizio è dichiarato apertamente e senza mezzi termini.

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Ho tirato le somme.
Dire (o lasciar intendere) quale sia il modo migliore per fare le cose, cosa sia giusto o sbagliato, cosa sia lodevole o meno, a priori o sulla base del gusto personale, ci porta ad esprimere pareri facendo un confronto tra noi e gli altri e fra ciò che ci piace e ciò che non ci piace. Tanto che alla fine non si capisce perché ci piaccia così tanto un modo di fare e se lo apprezziamo solo perché lo abbiamo adoperato noi.

Il giudizio ci fa giungere a una deriva: anziché dar peso a quello che ci piace, concentriamo le nostre energie nel tentativo di denigrare quello che ci piace meno.
Ciò che ci piace infine va in ombra e diventa il pretesto per “parlar male” di altro.

Ecco un esempio lampante: qualche mese fa ho letto su Facebook un lungo post in cui venivano descritte le doti di un noto attore italiano. Per tessere le lodi del suo beniamino l’autrice dell’elogio denigrò un altro attore, reo di aver sempre recitato da cane.
C’è poi, da qualche parte nell’etere, l’esperto o l’esperta reduce dalla pubblicazione del proprio libro o dal raggiungimento di un traguardo epico per la propria carriera che vuole tenerci sempre aggiornati (con post o tweet) circa le malefatte o le strane richieste dei propri contatti social. L’intento di queste lamentationes sembra quello di screditare una categoria di persone e prendersi gioco degli altri.

Gli esempi sono tanti, l’obiettivo in alcuni casi è il desiderio di affermare la distinzione valoriale tra un modo di essere/fare/lavorare/vivere in opposizione a un altro modo di fare le cose considerato deprecabile o semplicemente meno apprezzabile.

Se un libro, un film, un attore, un’intervista, un evento, una persona ci piacciono può essere più utile spiegare perché ci siano piaciuti.
L’inciampo di sfociare in considerazioni denigratorie su altri metodi, altri modi di fare, altre persone, altri attori, altri autori, altri libri, altri film non solo rimpicciolisce ciò che stiamo dicendo o scrivendo ma rimpicciolisce noi stessi.

Rimpicciolirsi è un attimo anche quando pensiamo, a ragion veduta, di essere professionisti stimati e con una solida reputazione anche in fatto di comunicazione online.

Non c’è professionalità dichiarata che tenga, non sarà un microfono a rendere le nostre parole utili e speciali, non sarà un ricco portfolio a fare di noi dei veri professionisti. Nemmeno la quantità di libri che abbiamo scritto o di corsi che abbiamo tenuto può proteggerci dal rimpicciolimento.
Dai grandi comunicatori ai docenti, dai freelance ai manager, agli esperti di questo o quello: nessuno è immune dal rischio di rimpicciolirsi con le proprie mani, a volte senza quasi rendersene conto.

Quando leggo pareri forniti mettendo a confronto persone e modi di fare per screditare l’uno o l’altro, mi fermo a riflettere su chi ha scritto/espresso (velatamente o meno) quel parere. Mi metto nei suoi panni e mi chiedo: ne è valsa davvero la pena? Ne è valsa la pena trasformare un concetto che stava per volare alto in un concetto che, a volte, si sfracella al suolo?
Penso quindi che anche la scelta di denigrare in fondo possa essere intesa in chiave stilistica.
Può adattarsi a un pubblico e mirare a obiettivi precisi: forse screditare duramente gli altri, forse screditarli in maniera soft, forse sottolineare l’efficacia del proprio modo di agire rispetto ad altri. Oppure le ragioni sono diverse, e giuro che faccio ancora fatica a immaginare quali possano essere.

Del resto anche per me vale la regola aurea: chi sono io per affermare che il mio modo di fare sia migliore di quello?

 

Laura Ressa

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Scritto da:

Laura Ressa

Classe 1986 🌻 Digital Marketing Specialist & Web Writer 🌻 Frasivolanti