

Alice Avallone è etnografa digitale per le aziende e insegna alla Scuola Holden di Torino. Io l’ho conosciuta proprio alla Holden durante due corsi online rispettivamente sugli small data e sull’arte di raccontare storie in rete.
La connessione tra le parole, i comportamenti delle persone e la rete è molto forte, soprattutto da quando il digitale è estensione naturale delle nostre vite.
Per questo Alice ha deciso di unire alle scienze sociali la ricerca in Rete con lo scopo di comprendere le relazioni umane online analizzando codici, comportamenti e linguaggi che le persone usano. Alice è una bravissima docente e una professionista in grado di trasmettere con passione le sue competenze affinché possano farsi patrimonio di chiunque sia curioso di capire il perché dei comportamenti online e le tracce umane che animano quegli ambienti digitali.
Alice ha fondato la rivista di antropologia digitale Be Unsocial, ha scritto una guida di viaggio con la rivista Nuok (Bur) e il manuale Strategia Digitale (Apogeo), ha curato il libro Come diventare scrittore di viaggio (Lonely Planet). Per Franco Cesati Editore ha pubblicato inoltre il saggio People Watching in Rete. Ricercare, osservare, descrivere con l’etnografia digitale e il manuale di scrittura per il turismo Immaginari per viaggiatori. Tornerà presto in libreria con #Datastories. Seguire le impronte umane sul digitale per la collana Tracce di Hoepli.
In questa intervista racconta il suo lavoro, il perché di questa scelta professionale e quello che possiamo scoprire analizzando le tracce umane in rete.
1) Conosciamo Alice Avallone antropologa digitale, docente della Scuola Holden, scrittrice e direttrice dell’Osservatorio di Antropologia digitale Be Unsocial. Ma cosa volevi fare da bambina?
“Ho cambiato così tante idee da piccola. A sei anni ho accarezzato anche il sogno di diventare ballerina, fino a che, alla prima lezione di prova, ho capito che coordinamento e senso del ritmo non erano decisamente il mio forte. Senza dubbio, in casa mi hanno sempre lasciata molto libera di sperimentare con la creatività. Mi piaceva anche molto presentare fittizi telegiornali e momenti del meteo; facevo tutto da sola, dalla sigla ai grafici. In una scheda di valutazione della scuola materna, la mia maestra scrisse che amavo coordinare le attività dei bambini più piccoli, e intrattenerli. Qualche traccia, insomma, è rimasta nel mio lavoro oggi. Credo molto nelle attitudini naturali che dimostriamo fin dalla più tenera età, sono spesso indizi di ciò che ci ritroveremo a fare.”

2) Cosa rappresenta nella tua vita l’etnografia digitale e che sguardi sul mondo ti ha aperto?
“È stato un punto di svolta. Ricordo ancora il momento in cui, cinque anni fa, mi sono ritrovata ad affiancare due esperti in materia all’interno di un progetto legato al turismo. Quanto ero diffidente! Fino a quel momento mi ero sempre mossa nel perimetro della comunicazione, del marketing e delle metriche quantitative; imparare le metodologie della ricerca sociale in Rete è stata una rivelazione. L’etnografia digitale, in particolare, mi ha permesso di allenare il muscolo dell’osservazione, senza giudizi e pregiudizi, andando in profondità rispetto ai comportamenti e ai linguaggi di noi esseri umani sui territori online. Dopo quel primo colpo di fulmine, non ho mai più abbandonato la disciplina e ho cercato di integrarla sia nel lavoro che nella formazione.”
3) Il tuo background è ibrido, a cavallo tra lettere moderne e pubblicità. Mentre cercavi di portare un approccio più umanistico al tuo lavoro di digital strategist, sei approdata per caso all’etnografia digitale. Hai affermato che la netnografia ti ha fatto capire che era possibile affiancare al marketing uno sguardo più autentico e vicino alle persone.
Cosa consiglieresti dunque sul piano professionale a chi si occupa di marketing? Su quali strategie si dovrebbe puntare affinché il cosiddetto parametro “business” abbia un approccio davvero umano?
“Innanzitutto, integrando la ricerca quantitativa a quella qualitativa. Chi si occupa di marketing dovrebbe, ancora prima di analizzare dati e pianificare strategie, comprendere a fondo i contesti e i comportamenti culturali delle persone che si vogliono raggiungere. E non con semplicistiche proiezioni di target e costruzioni (spesso irreali) di personas, ma con un approfondimento verticale su gesti, abitudini, credenze, valori ed emozioni che solo un’attenta osservazione umana può restituire. Certo, richiede molto più tempo, e molta più sensibilità. Anche le tensioni culturali nell’aria, hanno una forte influenza; vanno tenute d’occhio, va affinata una certa attitudine al mettersi in ascolto.”

4) Visto che insegni anche storytelling e l’arte di raccontare storie in rete, ti chiedo: cosa rappresenta per te la scrittura?
“Dopo il liceo ho scelto Lettere Moderne a Genova perché avevo il sogno romantico di diventare una scrittrice. Alle superiori scrivevo lunghi memoir melensi pieni zeppi di aggettivi e parentesi descrittive. Devo essere onesta: illeggibili oggi. Si trattava di un retaggio dovuto alle mie letture preferite degli anni dell’adolescenza, i grandi romanzieri francesi e russi. Durante l’università, ho poi capito che la forma che più mi apparteneva, per la sua brevità e velocità, aveva a che fare soprattutto con la scrittura persuasiva. Da qui, la scelta di fare altri tre anni in Pubblicità allo IED di Torino. Raccontare storie in Rete è la perfetta sintesi tra le due polarità, quella di narratrice e quella di pubblicitaria che deve coinvolgere un pubblico.”
5) Nella tua professione conta molto la capacità di osservare le persone in rete ma anche nella vita in carne e ossa. Quanto di questa capacità ha a che fare con la sensibilità e quanto riguarda invece deriva dallo studio?
“È un equilibrio sottile, in effetti. Studiare e fare propria la materia legata alla netnografia non è difficile; ci sono i manuali, c’è il percorso di applicazione tracciato da Robert Kozinets, ci sono le case studies. Anche l’osservazione è un muscolo che si può allenare e rendere più forte, per esempio. Detto questo, occorre fare i conti con il proprio carattere personale, perché serve pazienza, disciplina e soprattutto intuito. E la capacità di intuire, unire i puntini e vedere oltre, purtroppo, non si può imparare a scuola e nemmeno improvvisare. O ce l’hai, o non ce l’hai.”

6) Non giudicare e assumere un nuovo punto di vista: questo è il fulcro dell’attività di un bravo netnografo. Secondo te come si fa a sospendere il giudizio quando si osservano i comportamenti digitali?
“Già, che cosa complessa. Siamo esseri umani che osservano altri esseri umani, e questo complica tutto. Possiamo fare una similitudine. Essere un bravo netnografo è come essere un notaio, e non un giudice. Noi non siamo chiamati a dare un giudizio, a sentenziare se le conversazioni delle pancine su Facebook siano giuste o sbagliate, intelligenti o stupide, etiche o no. Siamo come i notai, che si limitano a “notare”, a fare “notazioni” rispetto ciò che ascoltano. Registriamo la realtà, e basta. Solo in una fase successiva potremmo tornare sui dati raccolti e dare un’interpretazione che, di nuovo, dovrà essere quanto più obiettiva possibile, sostenuti ad esempio di analisi e ricerche quantitative – tenendoci così ben alla larga da quello che gli antropologi chiamano il rischio di etnocentrismo.”
7) In una recente intervista hai scritto “l’osservazione umana va ben oltre le analisi di mercato.” Che valore hanno quindi gli small data per i brand?
“Gli small data sono piccole tracce umane che restituiscono profondità ai big data, ai numeri, e anche alle analisi di mercato, ai sondaggi, ai focus group. È proprio questa profondità il valore aggiunto di cui possono beneficiare le aziende, e poter fare la differenza, soprattutto all’interno di strategie digitali e di contenuto. Sono stelle più luminose, che spesso balzano agli occhi perché pulsano in maniera anomala. Come racconta bene l’esperto di branding e neuromarketing Martin Lindstrom nell’introduzione al suo libro Small data. I piccoli indizi che svelano i grandi trend (ed. Hoepli), si tratta di andare “alla ricerca di regolarità, parallelismi, correlazione e – non da ultimo – equilibri ed esagerazioni”.”

8) Hai scritto “A livello individuale, a conti fatti, l’emergenza sanitaria non ci ha reso persone migliori; semplicemente, ci ha resi più “noi stessi”, più autentici agli occhi degli altri.”
Data la situazione che stiamo vivendo, con tutti i limiti e le incertezze della pandemia, cosa ti aspetti di vedere d’ora in poi nella comunicazione online?
“Mi aspetto una ricerca di senso maggiore. L’emergenza sanitaria ci ha spinto a rimodellare le nostre priorità, oltre che le nostre abitudini, spesso viziate da ritmi non naturali. Oggi cerchiamo più senso nei dati sulla diffusione di contagio, più senso nelle attività degli influencer, più senso nel nostro stesso modo di apparire e rappresentarci sui social media. La situazione attuale ci ha imposto una battuta d’arresto, che inevitabilmente ci ha spinti a riflettere di più sul significato di ciò che ci circonda e che fa parte della nostra quotidianità. La comunicazione online, e non solo, si sta spostando verso un impegno. Citando un corso in partenza di Paolo Iabichino nella nostra Scuola Holden, “non è più il tempo delle promesse pubblicitarie, ma dei patti di relazione. Per chi ha a che fare con la comunicazione, arriva finalmente un capovolgimento di fronte, dove la creatività si misura con l’impegno, le azioni e l’impatto. Dove i media sfilano dietro la quinta del nostro scrivere e l’atteggiamento progettuale si sposta sul territorio dell’attenzione. Per questo urgono nuove narrazioni, lontane dalle malizie della retorica e vicine ai lacci della credibilità e delle identità.” E quanto è vero.”
9) Nella stessa intervista che citavo prima, hai scritto anche “In antropologia, per artefatti culturali ci si riferisce a tutto ciò che è stato creato da un essere umano che può fornirci informazioni sulla cultura del suo creatore e degli utenti. Eccoci dunque a studiare gli strumenti – smartphone, tablet, assistenti vocali – ma anche l’uso che si fa di questi strumenti – selfie su Instagram, video su TikTok, recensioni su Amazon”.
Qual è la scoperta più inattesa e curiosa che hai fatto in questi anni di studio netnografico?
“In ogni lavoro di osservazione emerge sempre una scoperta non prevedibile, è la bellezza dell’etnografia digitale: ti sorprende. Questo accade non solo nei progetti di ricerca più complessi, ma anche in quelli più semplici, dove gli strumenti sono artigianali. Prendiamo le ricerche su Google Search, banalmente, e il completamento automatico proposto dal motore. Mi sorprende sempre osservare come le persone conducono le ricerche online, quale lessico e sintassi scelgono, nonché quali tematiche sono più popolari in un dato momento (e come altri media come la televisione ne influenzano il volume). Provate a cercare chiavi come “i piemontesi sono” – o qualsiasi altro riferimento regionale – e vedrete come si muovono i luoghi comuni, ad esempio.”
10) L’antropologia cerca di mostrare gli aspetti dell’umanità che non sono innati ma acquisiti: e quindi tutto ciò che riguarda comportamenti, relazioni, linguaggio. Come ti piacerebbe che fosse usato in futuro l’immenso patrimonio di conoscenze che possiamo trarre dalle nostre vite digitali?
“Mi piacerebbe vedere un avvicinamento delle materie scientifiche e quantitative a quelle umanistiche e qualitative; per mettere in dialogo questi due mondi che in Italia in particolare vengono sempre percepiti come distanti e a volte contrapposti. Mi piacerebbe che le aziende iniziassero a considerare che in Rete non ci sono “segmenti di target da colpire”, ma “persone con cui mettersi in ascolto”. E, nella vita di tutti noi, mi piacerebbe vedere un cambio di passo nella percezione del digitale, non come parte integrante della quotidianità analogica, ma come un tutt’uno, cancellando dunque i confini tra online e offline. Come fanno già, tra l’altro, in modo del tutto innato, i bambini della Generazione Alpha.”

Un bravo etnografo digitale, secondo me, deve essere in grado di empatizzare, di entrare in contatto con le persone in maniera genuina anche quando di mezzo c’è uno schermo freddo e fisso. Alice ha la capacità di andare oltre quello schermo: nelle sue lezioni online quel che mi colpiva, insieme alle conoscenze e alle pratiche che ci ha trasmesso, è stata la genuinità del suo sorriso.
E poi la gratitudine, la disponibilità e la voglia di approfondire, di curiosare insieme aspetti nuovi della materia sono caratteristiche che definiscono Alice e il suo modo di lavorare. Non pensiate che queste siano qualità scontate in qualsiasi formazione: fare i docenti è un mestiere complesso e non tutti sono in grado di trasmettere le conoscenze in maniera efficace facendo passare, insieme a esse, anche la propria personale passione.
Questa alchimia avviene quando il lavoro che svolgi ti fornisce spunti, osservazioni inedite, insight inattesi sul mondo e sulle persone, quando quello che fai è una scoperta incessante. In questo modo il lavoro di ricerca del netnografo non è mai noioso ma acquista un senso tangibile: è una ricerca scientifica sulle tracce delle persone, seguendo le orme del loro passaggio e soprattutto dei loro perché. Ogni buona ricerca parte dalla capacità del ricercatore di essere oggettivo: la netnografia in questo richiede uno sforzo in più che consiste nel sospendere il proprio giudizio personale sui comportamenti osservati online.
Credo sia un aspetto affascinante perché sappiamo benissimo quanto sia difficile osservare le persone online senza giudicarle!
Per tutti questi motivi Alice Avallone, in questo 2020 un po’ funesto, mi ha lasciato – a proposito di tracce – una traccia importante. Metterò in ciò che faccio una parte dei suoi insegnamenti, che saranno d’ora in poi un patrimonio essenziale per ricordarmi di non giudicare, di essere curiosa, di comprendere le ragioni dei comportamenti umani online, di non fermarmi al primo risultato, di costruire i miei progetti personali con la certezza che ci sarà sempre molto ancora da imparare.
Grazie Alice!
Laura Ressa
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Copertina: foto di Alice Avallone
Le immagini inserite nel testo e che ritraggono Alice Avallone sono state da lei gentilmente fornite