

“E tu che fai nella vita?” – è questa la fastidiosa domanda a cui tutti abbiamo dovuto rispondere almeno una volta.
La definisco fastidiosa perché diamo per scontato che non potremmo parlare, ad esempio, della nostra collezione di francobolli o dei libri che amiamo o del fatto che ci piace scattare foto ai gelati perché l’inevitabile risposta dovrà riguardare quel che facciamo per portare a casa la pagnotta. Per alcuni la domanda definisce un vero interesse verso di noi, per molti altri delinea una mera curiosità spicciola. La curiosità (e la pretesa) di sapere dove lavori, in quale azienda, in quale settore, per capire anche a quanto ammonta più o meno il tuo stipendio e a che livello ti collochi nella scala gerarchica.
Sarò io a pensar male: si dice che a farlo si fa peccato ma che spesso ci si azzecca. Così ho sempre immaginato la mente di chi pone questa domanda come un grande frullatore in cui sono inseriti e mescolati assieme tutti i tipi di lavori che hanno ascoltato dalle risposte. Nel loro frullatore attribuiscono interesse, prestigio, rispetto alla persona che hanno di fronte a seconda di quello che hanno registrato nel frullatore grazie all’idea che la società gli ha fornito.
Cose del tipo: se hai di fronte un medico, tienitelo amico ché potrebbe servirti.
Anch’io a quella domanda su cosa faccio nella vita, a parte esistere e respirare, ho dovuto rispondere molte volte. Non sempre mi è dispiaciuto farlo, la trovo tutto sommato anche una prima domanda di approccio utile per rompere il ghiaccio quando ci si conosce. Però pensateci, non sarebbe più carino cominciare chiedendo “che colore preferisci?”
La risposta alla domanda sul cosa fai (e quindi cosa sei, come ti collochi nel mondo) viene facile se lavori, se invece non stai lavorando la cosa si fa imbarazzante. Eh sì perché nel mondo tu ti puoi collocare fintanto che puoi dire che lavoro svolgi.
Mi immagino che chi fa questa domanda si aspetti sempre una risposta brillante e soddisfatta. Quando la risposta è invece un “purtroppo sono ancora alla ricerca ma prima facevo…” lo sguardo dei presenti si fa triste, la faccia tipica di compatimento viene malcelata da un frase tipo “vabbè dai è il periodo, la crisi, sicuramente con la tua esperienza troverai presto qualcosa”.

Descriversi è una fatica. Un eterno compromesso tra noi, le nostre ambizioni, il nostro orgoglio, ciò che gli altri vogliono sentire, e il confronto sociale sempre in agguato.
Descrivere se stessi però non vuol dire solo rispondere alla domanda di un’altra persona. Significa in principio rispondere prima a noi stessi quando ci immaginiamo nel mondo. A cosa serviamo? Quale scopo abbiamo? Davvero viviamo solo per portare la pagnotta a casa? Davvero ci basta poter rispondere di avere un lavoro per essere felici e appagati?
Io non credo. Anche perché molte persone che mostrano appagamento, di fatto sono le prime a comportarsi sempre in maniera forzata, come se la vita gli stesse stretta e la realtà delle cose fosse un mostro da cui fuggire.
Descriversi… dare forma a se stessi. Definirsi. Che bella sfida! Me lo pongo in pratica da sempre.
Forse soltanto in questi ultimi anni sto riuscendo a costruire quel che sono davvero. Prima con il lavoro, adesso con ciò che mi piace fare oltre il lavoro, con la scrittura, con gli hobby, con le relazioni che ti cambiano, con le persone che ti aprono le prospettive.
Descrivere se stessi non è facile, però vorrei provare a darti un consiglio.
Quando fai fatica a descriverti e non trovi le parole, pensa a ciò che ti piace, a quello che fai perché senti che è la cosa giusta e perché trovi le persone con cui vale la pena costruire.
La risposta a chi sei è racchiusa lì. Sicuro. Quella risposta risiede nelle persone, spesso in quello che facciamo oppure nei luoghi che più amiamo. Anche in quelli della mente, o in quelli virtuali.

👩🌾 Da quando ho capito di essere apprendista artigiana di manufatti narrativi?
Il bello del definirti è che non c’è nulla di male a cambiare idea. Io sono moltissime cose, ad esempio, e tante le ho raccontate proprio qui nella pagina “Chi sono”.
Non metto limiti alle possibilità, di certo non potrei diventare prima ballerina o pianista concertista. Ma potrei imparare di certo a ballare e a suonare il pianoforte, se lo volessi. Per un periodo ho persino frequentato il conservatorio convinto che avrei fatto la cantante lirica un giorno.
Oggi sono altro, una me più definita e più grande che si accorge del tempo che passa. Me ne accorgo anche se non ci bado troppo ma faccio attenzione a definirmi. Cioè cerco ogni giorno di capire dove vado a parare, qual è il mio scopo, cosa posso fare per dare un senso alla mia vita, cosa posso lasciare, che traccia potrei donare agli altri.
Quindi qualche giorno fa mi sono fermata a riflettere e ho cominciato ad elencare: sono una marketing specialist, sono una blogger, mi cimento nei podcast, accumulo scatole di latta e libri ancora da leggere.
E poi l’illuminazione tra le cose che sono. Illuminazione arrivata, e forse stava sedimentando da un po’, durante il tavolo di lavoro del 15 maggio 2021 della Piccola Scuola Jepis Bottega, quello in cui ognuno dei partecipanti al tavolo ha scelto quale personaggio prendere in considerazione per raccontare la famiglia.
Il personaggio che ho scelto è Filumena Marturano, quella interpretata da Sophia Loren nel film di Vittorio De Sica “Matrimonio all’italiana“. Ho pensato a tante cose durante e dopo quel tavolo di lavoro: ai ricordi legati al film, alle parole pronunciate nella mia famiglia e simili a quelle del film. Per tanto tempo, ad esempio, mia madre ci ha ripetuto di voler piangere ma di non riuscirci.
Anche Filumena Marturano, in una scena del film, dice “Lo sai quando si piange? Quando si conosce il bene e non lo si può avere”.
Questo film è stato un filo rosso nella mia vita, sempre legato a doppia mandata ai miei pensieri, ai miei ricordi. Visto tante volte e impresso nel cuore.

👨🏼🔧 L’idea del manufatto narrativo nasce dalle parole di Giuseppe Jepis Rivello nell’articolo Gli esperimenti di narrazione nella Piccola Scuola quando, raccontando la Piccola Scuola, scrive “Ogni esperimento si conclude con la creazione di uno o più manufatti narrativi. Cortometraggi, serie, piccoli racconti scritti e pubblicati sui blog dei partecipanti, podcast e tanto altro.”
Seguo attivamente i tavoli di lavoro della Piccola Scuola da agosto 2020 ormai, è passato del tempo dall’inizio. Abbiamo realizzato insieme tanti bei manufatti e molti altri ne realizzeremo.
Ma il 15 maggio 2021 ho capito davvero di essere un’apprendista artigiana di manufatti narrativi e quindi ho cominciato a crederci. L’ho scritto nella mia biografia ovunque: su Facebook, su Instagram, persino su LinkedIn.
Sono orgogliosa di questo approdo. Sono felice di poter essere molte cose in una e di potermi definire a mio modo artigiana.
Aspetto con gioia il giorno in cui qualcuno mi chiederà di nuovo “e tu cosa fai nella vita?” e io con fierezza risponderò “Piacere, tra le altre cose sono apprendista artigiana di manufatti narrativi.” 🌻
Ho scelto proprio il girasole come immagine che accompagna questa mia nuova definizione perché il girasole è un’infiorescenza, ciò significa che è “composto da un insieme di numerosi fiori.”
Proprio come i manufatti narrativi, che sono la commistione di tante storie e tanti innesti diversi, di tante diverse interpretazioni e prospettive. Un divenire fatto di tante possibilità. Un manufatto narrativo per me, in definitiva, è un fiore composto da altri fiori.
Laura Ressa
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