
Ci siamo dimenticati come si lotta per una causa comune. Oppure semplicemente non ci interessa farlo perché “tengo famiglia” o perché ci piace raccogliere le briciole che ci lascia chi “ce l’ha fatta”.
Manca la lotta di classe ma, senza rispolverare il perso romanticismo da lotta, ci manca pure un passaggio precedente e cioè la capacità di comprendere le difficoltà altrui.
Ci ripetiamo “meglio a lui che a me”, e tiriamo avanti sperando che al prossimo turno della roulette russa gli sfortunati non saremo noi. Non siamo avvezzi a guardare cosa ci succede accanto perché altrimenti capiremmo che a volte chi dà il pane, in realtà sta concedendo solo le sue briciole.
Ci ho pensato, me lo chiedo da tempo. Cosa stiamo lasciando a chi verrà e ai nostri figli? Quale messaggio portiamo ogni giorno alle persone? Di quale idea ci facciamo portavoce? Cosa raccontiamo o capiamo di ogni esperienza che viviamo (anche lavorativa)? Ci basta fare i furbi e non sapere per vivere da felici imbecilli?
Io penso che non siamo solo nati per arrabattarci nel mostrarci interessanti, realizzati, presi da mille impegni, persone di successo. Dietro questa patina di fasulla presenza scenica, il nostro applauso in realtà si misura nelle retrovie dei macchinisti e nei camerini. Si misura nel modo in cui siamo in grado di ascoltare e comprendere le storie degli altri, in quanto di reale portiamo nel lavoro e nelle passioni che ci infiammano la mente e la aprono.
Eppure c’è chi ama esserci e basta, passare sul palco per fare l’inchino e sciorinare la propria parte a memoria senza porre accenti e senza pause. Senza intonazione e senza intensità. Senza trasportare chi lo ascolta in un altrove e senza lasciare qualcosa agli altri una volta varcata la quarta parete.
Una canzone dice “Quelli che vedi sono solo i miei vestiti. Adesso facci un giro e poi mi dici”. Dietro il modo in cui le vite degli altri ci appaiono, c’è sempre altro che non sappiamo e che ci sfuggirà. Dunque, come dice il detto, la ruota gira e non dovremmo guardare il nostro simile come uno che se la cava comunque anche se le cose gli vanno male. Dovremmo piuttosto imparare ad aprire gli occhi, a capire che siamo sulla stessa barca, che il lavoro è un diritto, che i privilegi di pochi eletti non fanno crescere il nostro paese e che è sbagliato alimentare il mantenimento di quei privilegi.
Qualche giorno fa, mentre guardavo il film Super Size Me, sono stata colpita da una scena in cui a una adolescente dicevano “Il mondo non cambia. Sei tu che devi cambiare”. Ed è questa l’idea a cui vorrei aderire anche io, pur sapendo che non è per niente facile cambiare la propria vita per non parlare poi della società, soprattutto se sei un piccolo bullone dell’ingranaggio.
Il cambiamento, nel lavoro e in tutto il resto, però arriva da una scelta e può giungere dalla voce di ognuno di noi, dalla consapevolezza che molti ancora non hanno il diritto più semplice: il diritto al lavoro.
Manca poi in Italia uno stile manageriale che sappia ispirare, che badi alla crescita delle persone, alla loro collocazione professionale e che non tenda solo al risultato immediato per tirare a campare.

Giovanni Stoto su LinkedIn ha scritto:
“La frase che un manager dovrebbe dire:
“Non portatemi soluzioni, non portatemi lamentele, portatemi problemi da analizzare e risolvere insieme”.
Ho lavorato con colleghi che: “Martina [nome inventato per indicare il capo] non vuole sentire problemi, quindi resta tutto inter nos e va tutto bene, il nostro compito è rassicurarla, tanto ‘ste cose tecniche non le capisce e poi va nel panico”.
E Martina è quel manager che una volta mi disse “Sei sempre catastrofico e pessimista, io non ho tempo per star dietro ai tuoi problemi o lamentele: è compito tuo smazzarti i problemi e venire da me solo a risoluzione fatta”.
“Don’t be a problem maker, be a problem solver” is the new “lasciami in pace”.
[Qui il post originale]
Nelle ultime settimane ho letto un articolo che mi ha fatto pensare ancora una volta alle storture di questa Italietta di privilegiati, di benpensanti, costellata da quelli che arrivano ai vertici senza possedere meriti particolari.
Che la nostra società sia malata è un dato di fatto.
Lo dimostrano le disparità. No, non le disparità di paga tra uomini e donne di cui si parla tanto ma quelle tra vertici e basi, tra giovani e “adulti”, tra chi ha troppo e chi ha niente, tra chi ricopre posizioni di rilievo e chi arriva a stento a fine mese.
Eppure in tanti continuano a prendersela con chi rovista nei rifiuti, mentre quegli altri, quelli che detengono la ricchezza e che hanno più del necessario per vivere dignitosamente, ridono di quanto sia stato facile arrivare dove sono.
Ridono anche perché questa disparità tra persone non dipende dal merito da self-made man, come ci piace pensare, ma più spesso da un diritto di nascita che appartiene a poche élite.
Sì, la nostra società è malata e funziona al contrario, ma siamo noi ad averla costruita così e ad averla lasciata così per lungo tempo.
Ancora adesso ci sta bene che le cose vadano in questo modo, raccogliamo le briciole che ci vengono concesse e le poniamo in saccoccia incrociando le dita.
Del resto c’è una buona fetta di persone che la vuole ancora così l’Italia e che ha tutto l’interesse che la società proceda seguendo questa logica di privilegi, altrimenti perderebbe il proprio riconoscimento e i propri lussi. Perderebbe la propria appartenenza a certe cerchie.
Ma quindi chi deve agire? – ci chiediamo – e soprattutto: Ha ancora senso porsi questa domanda? Mentre ce lo chiediamo facendo spallucce, arretriamo di fronte alla possibilità di una situazione diversa.
Arretriamo perché non sappiamo da dove partire per costruire tutto daccapo, nessuno di fatto vuole farlo e abbiamo paura di perdere le nostre briciole.
Dovrebbe agire chi ha il potere di farlo. Già, dovrebbe. Ma chi ha il potere di farlo, ha davvero interesse ad agire affinché le dignità, le possibilità, le fortune, i privilegi, i meriti appartengano a chi se li merita e siano distribuiti in modo meno assurdo?
L’articolo di cui sopra recita così: “Non è un gioco, è la realtà. Se sommiamo le ricchezze dei sei milioni di italiani più poveri, la cifra che otteniamo non raggiunge il patrimonio posseduto dai tre miliardari più ricchi del paese. Insomma, solo tre persone concentrano nelle loro tasche più soldi di quanti ne ha il 10% della popolazione italiana.”
Mi chiedo quanto conti parlare ancora di quanto siano ingiuste e non naturali le disparità. Mi chiedo a cosa servano studi e ricerche in questo senso se poi la classe dirigente e politica restano sempre uguali a se stesse e si tramandano i privilegi di generazione in generazione, di padre in figlio.
Forse parlarne serve a svegliare le menti, mi dico. Ma poi mi guardo intorno e la necessità di lavorare e tirare a campare è talmente forte che tutti pensano non convenga schierarsi né avere un’opinione.
Ci illudiamo che il nostro paese stia crescendo guardando l’esempio di certe grandi aziende, senza accorgerci delle tasche piene di chi le ha create e di quelle invece semivuote di chi manda avanti la baracca. Ma non ne faccio solo una questione di denaro e non parlo di imprenditori illuminati, che sicuramente ci sono ma sono rarità. Parlo prima di tutto di quelli a cui nessun privilegio è negato.
Ci camminano accanto e dobbiamo immaginarceli senza fare chissà quale sforzo e senza pensare a vertici troppo in alto.
A proposito di imprenditori illuminati e ruoli privilegiati, non posso che ricordare le parole di mia nonna, una donna che ha lavorato come domestica e che ha sempre condotto una vita assai modesta ma non per questo meno degna.
Lei sosteneva che se vuoi dare compiti a qualcuno, devi sapere come si fa quello che stai chiedendo di fare. Sto parafrasando, lei lo diceva in dialetto, ma si riferiva soprattutto ai lavori domestici. Tuttavia questa teoria è facile da applicare a qualsiasi altro lavoro e sicuramente oggi ha molto senso dato che la dignità di chi lavora viene calpestata con facilità come fosse normale.
Per dire agli altri cosa devono fare, per delegare devi aver fatto almeno una volta ciò che chiedi o perlomeno dovresti sapere come si fa.
Non è una teoria facile però da applicare perché ci sono molte persone abituate da sempre ad eseguire, e molte altre abituate a delegare.

La ruota gira così, e benché si parli tanto di leadership efficace, di innovazione e di attenzione alle persone, queste parole sono solo un fritto misto di apparenze per racimolare consensi qua e là. Il fondamento, se c’è, si vede nei fatti e temo che nei fatti, qui in Italia, siamo ancora distanti dal trasformare i grandi proclami commoventi e “umanistici” in realtà per chi lavora (e per chi un lavoro ancora non ce l’ha).
Una buona volta potremmo chiederci con serietà e intelligenza se questa società costellata di furbi ci piace e se noi potremmo in qualche modo essere parte del cambiamento.
Agire scendendo in piazza ad oggi ci risulta impossibile, siamo un popolo paralizzato nella propria fissità, contento di una finta bambagia di sicurezze oppure buttato allo sbaraglio alla mercé di questo o quel lavoretto temporaneo.
Un paese in cui tanti giovani dai grandi meriti e capacità sono costretti ad aspettare mesi, anni, decenni per ottenere un barlume di stabilità lavorativa. Un paese in cui se appartieni a questa o a quella corrente politica o sei di un ceto medio-alto, hai ancora più porte aperte rispetto agli altri.
Ho idea che molte persone non vogliano capire tutto questo e non vogliano poter scegliere. A volte per pigrizia e altre volte perché il gioco non vale la candela: bisogna procedere a testa bassa e continuare a raccogliere briciole perché, forse, il tempo un giorno ci darà ragione.
Io invece voglio parlare ancora di più di questi temi. Voglio ancora parlare di Dignità, di Rispetto, di Diritto al lavoro, di Merito, di Responsabilità verso noi stessi e verso le persone che il lavoro lo attendono non più come un diritto sacrosanto ma come un terno, un treno fortunato, una manna dal cielo inaspettata.
Bisogna cominciare a cambiare prospettiva, sì, ma ricordandosi di non voltare le spalle a quel che siamo.
Cosa comprendi davvero di quel che fai, cosa lasci agli altri, cosa impari di nuovo, come lo comunichi, quale valore aggiunto (che non siano solo parole vuote) metti in quel che fai ogni giorno?
Ecco, in un’era in cui si fa un gran parlare di lavoro umano che non può essere sostituito dai robot sono questi i veri interrogativi che dovremmo porci tutti.
Voglio essere un puntino nel cosmo delle mie personali necessità e dei racconti da uomo/donna vincente oppure voglio dare il mio apporto, anche piccolo ma vero, a ogni mio passo (nel lavoro e fuori)?
Che senso avrebbe altrimenti quel che facciamo? Che senso avrebbero il nostro lavoro e le nostre passioni? Che traccia lasciamo che non sia effimera, momentanea o di convenienza reciproca?
Proviamo a rifletterci. Forse, pensandoci su, realizzeremmo tutti obiettivi più alti di noi stessi, che invece siamo piccoli.
Piccoli, sì, nonostante molti di noi si sentano arrivati e si pongano di fronte agli altri con un atteggiamento di malcelata superiorità solo per via di una posizione raggiunta.
Parliamo sempre delle stesse persone che non rinuncerebbero mai ai propri privilegi, che non hanno dovuto faticare troppo per ottenerli e che non hanno grandi meriti se non quello di aver agguantato vette che ad altri restano precluse.
Questa Italietta di privilegiati mi sta stretta, ma chi sono io per cambiarla?
Io non sono proprio nessuno e come tanti mi cullo nell’idea di essere stata baciata dalla fortuna pur non essendo nella cerchia dei privilegiati.
Provate a pensarci. Se vivete in Italia e avete un lavoro vi sentite fortunati, giusto? Sentite di essere stati gli eletti, i pochi baciati da un destino non avverso. E che altro potremmo pensare? – mi direte.
Questa sensazione che ci fa sfregare le mani e pensare, con un sospiro di sollievo, “stavolta non è capitato a me di essere quello sfortunato” ci sta facendo chiudere gli occhi su molte cose.
Non ci permette di avere una vista lucida, ci annebbia, ci riempie di falso ottimismo e della illusione che finché io tiro a campare andrà tutto bene. Per me.
No, io voglio qualcosa di più. Voglio che a tutti sia concesso il diritto di lavorare, a seconda delle proprie capacità.
Voglio che la scala gerarchica sia meno netta e meno classista, voglio che il merito esista e con esso anche la meritocrazia, voglio che impariamo a non accontentarci delle briciole e a capire che se oggi è capitato qualcosa di brutto al mio vicino, domani sarò io il prossimo.
Abbiamo poi bisogno un po’ ovunque di manager che siano veri leader, capaci di guardare oltre il proprio dito, in grado di rimboccarsi le maniche in prima persona, in grado di mettere a frutto il lavoro, di ispirare e di andare oltre i paletti del proprio ruolo.
E invece noi continuiamo a camminare a testa bassa, portiamo addosso i pesi che ci vengono concessi, ringraziamo qualcuno per averci permesso di superare un’altra giornata. L’ennesima giornata in cui ci siamo sfregati le mani e abbiamo pensato: beh, qui tutto intorno va a rotoli ma io per oggi ce l’ho fatta. E tanto mi basta. Oppure un giorno in cui abbiamo pensato: va tutto male e non ho un lavoro, ma perché io dovrei riuscire a cambiare le cose?
Cambiare non è facile neanche quando ci poniamo limiti nella nostra vita. Ci preoccupiamo di dove saremo domani, di cosa faranno i nostri figli, e ci domandiamo pure se riusciremo a superare paure e limitazioni in un tempo che si restringe sempre di più come una clessidra.
Tutti abbiamo limiti e per molti non è semplice superarli, perché non basta la buona volontà. Naturalmente chi è privilegiato può avere mille motivi per stare male, un problema di salute, una instabilità mentale, un momento di profondo sconforto. Ma questo è un ragionamento successivo che sta alle vicende di ciascuno: la società invece, e chi la governa, dovrebbe garantire uguali diritti e uguali doveri di base.
Dovrebbe aiutare chiunque a trovare la propria collocazione e la propria utilità.
Tutto il resto dipende da quel che ci capita. Ma quel che ci capita dipende pure da quello che ci è stato concesso di farci capitare.
Io voglio che sia concesso a tutti di fare il proprio percorso con Dignità, con Rispetto per sé e per gli altri, con la Possibilità di scegliere cosa fare della propria vita, con il Merito premiato, per chi lo possiede, e con il Diritto al lavoro.
Da quando abbiamo cominciato a non pensarci più?
Da quando abbiamo cominciato a perdere di vista tutto questo?

Penso che il discorso di Joaquin Phoenix agli Oscar 2020 in occasione della sua vittoria come attore protagonista possa farci sentire molto ispirati anche su questo argomento, soprattutto quando ci sentiamo al centro dell’universo e sarebbe invece necessario fare un passo indietro. Ci può servire anche per metterci nei panni dell’altro o per provare a vedere le cose da un punto di vista che non sia solo il nostro.
Riporto qui sotto un estratto del testo e il video integrale.
“Mi sento così grato in questo momento. Non mi sento superiore rispetto agli altri candidati o a chiunque altro in questa sala, perché condividiamo lo stesso amore: quello per il cinema. E questa forma di espressione mi ha regalato una vita straordinaria. Non so dove sarei senza.
Ma penso che il regalo più grande che mi sia stato donato, come a molti altri in questa sala, sia l’opportunità di dar voce a chi non ce l’ha. Ho pensato molto ai problemi più angoscianti che ci troviamo ad affrontare come collettività. […]
Molti di noi sono figli di una visione egocentrica del mondo, per questo crediamo di essere il centro dell’universo. […]
Credo che abbiamo paura dell’idea del cambiamento personale perché pensiamo di dover sacrificare qualcosa, o rinunciare a qualcosa.
Ma gli esseri umani al loro meglio sono creativi e ingegnosi. Quando usiamo l’amore e la compassione come principi guida, possiamo creare, sviluppare e implementare sistemi di cambiamento che fanno bene a tutti gli esseri senzienti e all’ambiente.
Sono stato un cattivo per tutta la vita. Sono stato egoista, a volte crudele, una persona difficile con cui lavorare. E sono grato che molti di voi in questa sala mi hanno dato una seconda possibilità.
Credo che è proprio questo il nostro meglio: quando ci supportiamo a vicenda. Non quando ci annulliamo per errori passati, ma quando ci aiutiamo a crescere. Quando ci educhiamo a vicenda, quando ci guidiamo verso il riscatto. Questo è il meglio dell’umanità.
Quando aveva 17 anni mio fratello ha scritto queste parole: “Corri in soccorso con amore, e seguirà la pace”.”
Laura Ressa
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