
Le piattaforme dell’usato e quella strana sensazione
Oggi ho fatto una perlustrazione approfondita nel famoso sito in cui si vendono e si comprano oggetti usati, per lo più indumenti ma anche libri, soprammobili, giocattoli, gioielleria, bigiotteria, persino il servizio buono di tazze e bicchieri della nonna.
In questo turbine e scroll forsennato di una quantità enorme di oggetti e decine di bacheche, porto con me un senso di tristezza, una specie di saudade da scroll compulsivo. La tecnologia da un lato ci aiuta e dall’altro ci attanaglia.
Non metto in dubbio che quella piattaforma di compra-vendita che ho visitato e perlustrato possa avere una qualche utilità, tuttavia la sensazione che mi lascia è desolante e pesante. Questa è, per ora, la sensazione che ha lasciato addosso a me. Una sensazione certamente non universale e soggettiva.
Miriadi di oggetti, una serie infinita di indumenti stropicciati, strappati dai loro armadi e fotografati alla meglio. Appesi a una gruccia, adagiati su un manichino oppure indossati per un selfie in cui sembra che si cerchi di vendere persino se stessi insieme a quel pezzo di stoffa. Magari la mia è una sensazione falsata e momentanea, e magari domani farò proprio su quella piattaforma l’acquisto che mi cambierà la vita. Finora però la sensazione resta quella di aver perso tempo a cercare qualcosa che non sapevo nemmeno io cosa fosse, tempo perso a valutare stato dei prodotti e relativi prezzi, tempo passato a far scorrere sotto i miei occhi oggetti che per qualcuno ricordano qualcosa: un momento, un luogo, una persona. Tempo che sento di aver sprecato, sebbene una persona mi abbia detto che “non è mai tempo perso fintanto che ti ha aiutato a giungere ad una riflessione”.
Cosa sono per noi gli indumenti e quell’involucro che spesso ci definisce e ci categorizza? Che senso ha per noi quello che definiamo scarto? Che valore diamo al tempo e agli oggetti che ci appartengono o che potrebbero diventare nostri? Cosa centra il senso di possesso e il bisogno? E quanto di tutto questo è realmente “sostenibile” (come si ama ripetere di questi tempi)?
Nella moda diffusa del comprare e del vendere, e in generale del consumare, non vediamo più l’oggetto come qualcosa che possa servire a chi ne ha davvero bisogno ma come qualcosa che assume un determinato valore economico e di cui siamo disposti a cancellare anche il ricordo per donarlo al miglior offerente. L’oggetto non ci appartiene più, ce ne dobbiamo disfare, e con esso ci liberiamo anche di un pezzo della nostra storia che, forse, prenderà strade diverse oppure sarà solo l’ennesimo pezzo insensato di una serie infinita di cose da possedere e poi da lasciar andar via.
Mi chiedo tutto questo e nel mentre osservo, rifletto, lascio che le bacheche e gli oggetti e gli indumenti continuino a scorrere sotto i miei occhi.
Tutto questo conduce inevitabilmente ad un’altra riflessione che anticipavo poco sopra. Al di là del senso che a ciascuno di noi possa trasmettere una piattaforma di compra-vendita, ci sono dei dati da considerare e delle inchieste condotte sul tema.
Vorrei quindi passare in rassegna alcuni elementi che aiutino a comprendere meglio il fenomeno e anche a fare chiarezza sui meccanismi che ne sono artefici.

Moda dell’usato tra dichiarata sostenibilità e consumismo
Dopo aver navigato in lungo e in largo sulla piattaforma attualmente tra le più famose per il mercato dell’usato, ho spostato la mia ricerca online su articoli e inchieste svolte in tal senso per ottenere un quadro sul fenomeno dei siti e delle app per comprare e vendere oggetti (soprattutto indumenti) usati.
Parto da un articolo di Rodolfo Casadei pubblicato su Tempi e intitolato Il business degli abiti usati via app è il trionfo del consumismo.
“Acquistare vestiti di seconda mano seminuovi nei marketplace che si trovano in rete, tipo Vinted, per dare concretezza all’economia circolare e consumare in un modo ecologicamente compatibile: balle, sonore balle. È la conclusione a cui giunge un servizio di quattro pagine con le firme di cinque inviati apparso su Liberation, il quotidiano francese fondato da Jean-Paul Sartre.
«Le piattaforme come Vinted o Vestiaire collective sono le teste di ariete della fast-fashion di seconda mano», dichiara agli autori dell’inchiesta Eloise Moigno, fondatrice del marchio di moda ecoresponsbaile SloWeAre. «Esse spingono i consumatori verso abitudini di acquisto tipiche del mercato della fast fashion: si acquistano enormi quantità di abiti a buon mercato sapendo che non li si indosserà, che si potranno rivendere. Queste applicazioni stimolano nel consumatore il lato impulsivo e immediato nei riguardi dell’acquisto». E non solo: la produzione di rifiuti generati dagli acquisti di usato online è nettamente superiore a quella di acquisti nei negozi, una quantità astronomica di imballaggi viene utilizzata dai venditori per preparare scatole, scatoloni e pacchetti da spedire ai centri di raccolta dell’organizzazione o direttamente agli acquirenti.
Poi c’è l’impatto ambientale dovuto ai trasporti: i vestiti viaggiano su e giù per grandi paesi come Italia, Francia, Germania, con le relative emissioni e consumo energetico, anche in questo caso superando di molto i chilometraggi e i consumi dei trasporti di grandi stock di abiti nuovi dai produttori ai grossisti ai negozi. Insomma, il mercato dell’usato, non combatte il consumismo: lo alimenta, con le conseguenze culturali e ambientali del caso. […]
Acquisti compulsivi
Le interviste alle acquirenti/venditrici (nel 90 per cento dei casi gli iscritti al sito francese di Vinted sono donne) mostrano chiaramente che a muovere il mercato è una nuova forma di consumismo, e non certo la motivazione del rispetto per l’ambiente che i siti dell’usato mettono in primo piano nelle pubblicità. Una parigina di 38 anni che aveva svuotato letteralmente il suo armadio su Vinted prima di partire per l’estero scrive: «Da quando sono tornata acquisto più di quanto vendo, perché mi mancano delle cose, ma non solo per quello. In un certo periodo potevo passare un’ora sull’applicazione senza accorgermi del tempo che passava. Ora mi costringo a limitare i tempi». […]
Nessuno acquista per l’ambiente
Elodie Juge, ricercatrice all’università di Lilla, studia da otto anni i comportamenti delle utenti di Vinted: «È la migliore scuola di commercio in Francia», dice. «Si impara a negoziare e a vendere, ma il denaro guadagnato è sempre reinvestito nel sistema. Le utenti – che hanno, secondo le mie ricerche, fra i 20 e i 40 anni in grande maggioranza – cercano di realizzare dei piccoli profitti senza pesare sul bilancio familiare. Il loro guardaroba diventa un capitale da valorizzare. Siamo molto lontani dalla sharing economy evocata alle origini, siamo in piena economia neoliberale».
Delle velleità ecologiste ostentate da questo genere di piattaforme dice: «Non ho trovato nessuna, fra le persone a cui ho rivolto le mie domande, che dichiarasse di fare queste cose perché si tratta di un sistema “virtuoso”. Non cercano di mettersi a posto la coscienza, perché sanno che sarebbe una mistificazione. Non sono delle militanti. Sono dipendenti da shopping compulsivo». […]“.
L’articolo di Aldea Bellantonio illustra gli impatti del fast fashion sull’ambiente:
“Oltre 900 milioni di capi di abbigliamento in plastica, usati e non riciclati, sono finiti in Kenya, nel 2021. Circa 150 milioni provengono dall’Europa e dal Regno Unito. Oltre un milione arriva dall’Italia. Sono alcuni dei dati contenuti in una recente indagine condotta da Clean Up Kenya, una campagna fondata nel 2015.
L’inchiesta è stata chiamata Trashion, un termine formato dalle parole “trash (spazzatura) e fashion (moda). Lo studio è stato realizzato con Wildlight per Changing Markets Foundation e mette in evidenza “la dipendenza della fast fashion da tessuti di plastica a basso costo per produrre abiti che non sono progettati per essere riparati o riciclati e che sono sempre più considerati usa e getta”.
I numeri e l’impatto della fast fashion
L’impatto della moda, soprattutto di quella di bassa qualità, è enorme. Per produrre i 6,6 milioni di tonnellate di tessuti consumati nel vecchio continente sono state emesse 121 milioni di tonnellate di CO2, pari a 270 chilogrammi a persona. Negli ultimi 20 anni il fenomeno della fast fashion ha trainato il consumo dei prodotti tessili. È stato calcolato che un vestito fast fashion viene indossato in media solo 8 volte prima di essere buttato. Il 40% dei vestiti sono scartati quasi subito perchè perdono di elasticità, si logorano facilmente e perdono rapidamente il colore. Non solo, attualmente si stima che oltre i due terzi dei tessuti siano realizzati in plastica e si prevede che questa percentuale aumenterà fino al 73% entro il 2030.
Rispetto a 20 anni fa, infatti, la durata di un capo d’abbigliamento è scesa del 36%. Lo ha stabilito l’Agenzia europea dell’ambiente che ha calcolato l’impronta del settore tessile indicando alcune priorità per invertire la rotta e andare verso un consumo sostenibile e circolare. Anche in questo caso riuso, riciclo ed economia circolare potrebbero invertire la rotta di un mercato devastante, per l’ambiente e per le persone. […]“.

Alex Minissale titola così il suo interessantissimo articolo su Strade: Mettilo su Vinted! L’E-Commerce dell’usato e le ‘omeostasi’ ecologiche del capitalismo. Di seguito alcuni stralci tratti dal testo: ho voluto riportare larga parte dell’articolo poiché lo trovo completo e assai centrato sul fenomeno e sulle motivazioni psicologiche alla base.
“Abbiamo troppe cose, la società dei consumi pur convintamente difesa qualche mese fa proprio da queste parti – il capitalismo d’accumulazione, basato sul sottoconsumo, non generò null’altro che miseria – la società dei consumi comunque presenta il conto due volte: in termini economici poco prima dell’uso e in termini spaziali subito dopo il disuso. Si tratta di spazio privato, con gli armadi che scoppiano e i cassetti pieni del sogno di svuotarli un po’, cantine e sgabuzzini e box (per chi li ha) con la superficie calpestabile ridotta ai minimi termini; e anche e soprattutto di spazio pubblico – siamo già alla questione ecologica – perché nella stragrande maggioranza dei casi quel che si acquista al massimo si può deteriorare un po’, può incappare nella propria obsolescenza programmata, materiale o “ex lege”, ma mica si smaltisce da sé prima del disuso o subito dopo. Accumuliamo un sacco di vestiti. Ogni secondo l’equivalente di un camion carico di vestiti – per l’appunto – viene bruciato o portato in discarica, scriveva su Repubblica Daniele Di Stefano, lo scorso 23 dicembre. Dal 2025 in UE si differenzieranno anche i rifiuti tessili, in Italia forse dal 2022, ma intanto che si fa? Non lo metti? Mettilo su Vinted!
Dove altro metterlo, altrimenti?
I punti vendita di alcuni marchi di fast fashion, principali responsabili del sovra-consumo di abiti cool ma a buon mercato, ricevono indumenti usati per riciclarne i tessuti meno usurati; poi c’è la Caritas; poi ci sono le “campane” (nei comuni che funzionano…) e infine c’è la criminalità organizzata. Vinted non è la prima piattaforma di abiti usati (strutturata come un social network, dunque funzionante), già dieci anni fa nacque l’assai pionieristica Depop, ma vista la massiccia campagna mediatica e l’impatto della stessa e complice la pandemia – riordiniamo casa, i cassetti gli armadi le cantine ecc., ottimizziamo gli spazi – è certamente la piattaforma che ha innescato la massificazione del fenomeno. Spiritualmente, peraltro, la “de-stigmatizzazione” totale degli indumenti usati, è già pressoché completata altrove – si avviò probabilmente qualche decennio fa in USA – e a buon punto dalle nostre parti. Magari a brevissimo (o forse di già) acquistare una polo second-hand o pre-loved (!), come dicono nei Paesi anglofoni, sarà socialmente e dunque individualmente accettato come acquistare un’auto usata.
Ecco: le auto usate. Le auto usate sono il paradigma delle asimmetrie informative – il venditore ha più informazioni sul prodotto di quante non ne abbia l’acquirente – e cioè di una delle cause dei fallimenti del mercato; George Akerlof, economista statunitense, nel 2001 co-vinse il Nobel proprio grazie a un articolo sul mercato dei lemons (i bidoni, diremmo noi: è una traduzione un po’ impresentabile, ma tant’è) pubblicato nel 1970: le auto usate sono spesso e volentieri affette da quello che, in giuridichese, viene definito “vizio occulto della cosa”; più prosaicamente e forse esotericamente, dalle nostre parti in riferimento alle automobili-bidone si parla di “macchine maledette” (un po’ come la mela di Grimilde, t’avvelenano di appuntamenti in sequenza da meccanico ed elettrauto pur apparendo in ottime condizioni): ad ogni modo il venditore sa ma l’acquirente no, lo scoprirà.
L’acquirente, per tornare agli indumenti usati, scoprirà anche che quella polo è sagomata… asimmetricamente: deforma orribilmente il torace. È facile intuire, dunque, che l’e-commerce, soprattutto se si tratta di beni usati, tenderebbe a massimizzare il fenomeno… se non fosse che il mercato stesso e i policy maker da decenni riescono per converso a minimizzarlo: Vinted – tornando al punto e per farla breve – fra le altre cose non ti accredita nulla finché l’acquirente non spunta “è tutto ok” dopo aver ritirato il pacco. E poi ci sono le recensioni e tutti gli altri meccanismi – come la tutela puntualissima ed efficientissima approntata dal servizio clienti di tutte le piattaforme big – già arcinoti a chiunque bazzichi la rete. […]
Nulla di nuovo neanche sul piano più propriamente mercatologico: il brand è tutto – cavalli e coccodrilli, per fare un esempio, vanno a ruba, la potenza della loro riconoscibilità si proietta ben oltre la prima transazione di cui sono oggetto – e la vetrina è tutto, tante più sono le foto e tanto più sono ben fatte quanto meglio si venderà; si contratta, ma non tantissimo: ci siamo disabituati a mercanteggiare, vogliamo minimizzare i costi di transazione, ammenoché non siamo in spiaggia al cospetto di qualche ambulante pronti a monetizzare la nostra posizione di contraenti forti o quantomeno rilassati. […]
Sta di fatto che prima di ricevere un’offerta – molto probabilmente l’offerta di un francese – capita spesso di riscoprire l’utilità, il valore commerciale, “estetico” e magari affettivo di un capo abbandonato in fondo all’armadio; si sperimenta una sorta di psicologia della privazione potenziale, sarà una versione light e non patologica della disposofobia, la paura di disfarsi di qualcosa alla base del disturbo da accumulo, e magari quel capo lo si riqualifica pur non cominciando a re-indossarlo, o se va bene lo si re-indossa lo stesso giorno della riscoperta.
Forse, ottimisticamente, la democratizzazione – o, meglio, la massificazione – dei consumi ha innescato anche una democratizzazione della ri-vendita (il processo richiede i suoi tempi: E-bay fu fondata nel ’95) e forse, ancora, una sorta di “de-consumistizzazione” del nostro rapporto con le cose: la crescente sensibilità ecologica crea delle frizioni con gli “speedy-svuotamenti” indifferenziati a mezzo sacchi neri maleodoranti, mettere in vendita comporta dei costi in termini di tempo e praticità e pazienza che assai difficilmente vengono coperti dal prezzo della rivendita (fa’ delle foto passabili con una luce passabile, caricale, rifiuta l’offerta, fa’ una contro-offerta, fotografa l’etichetta per certificare l’autenticità dell’articolo, misura spalle e torace perché così t’ha chiesto quell’acquirente potenziale, confeziona, stampa l’etichetta, imballa, va al centro spedizioni). Fotografando le etichette, poi, si macroscopizzano tutti quei Made in Vietnam, Made in Sri Lanka, Made in China e per sovrappiù i più sensibili affrontano ulteriori costi psicologici pensando alla delocalizzazione e alle condizioni di lavoro della manodopera a bassissimo costo di altrove e alla leggerezza con cui si acquista qui.
Peraltro, se da utenti appena iscritti si vuol svendere e l’utilità unica che si vuol conseguire è quella di ottimizzare gli spazi, poi quando si fissa il prezzo – rammentando il costo e rendendocisi conto di quanto è ben messo il capo: magari è in disuso perché poco dopo quella taglia andava stretta o larga – ci si trasforma un po’ in Ebenezer Scrooge, contrattando ci si impicca a un euro o poco più, si aggiornano compulsivamente notifiche e messaggi per monitorare lo stato delle cose, le visualizzazioni, quante volte un capo è stato aggiunto ai preferiti. Ansia di vendere congiuntamente ad ansia da social: stress.
Magari compreremo meno e compreremo meglio, pur senza indulgere nelle fantasie/distopie decrescitiste e antiliberiste che vanno per la maggiore: le piattaforme di e-commerce, in fondo, sono la quintessenza dell’efficienza allocativa e della “omeostasi” tipiche di un libero mercato munito di correttivi ordoliberisti minimi. Se si volesse qualificare il sovra-consumo, oltre una certa soglia, come un fallimento del mercato, allora quest’ultimo sta correggendo sé stesso senza la necessità di mani visibili o dello Stato-innovatore. C’è già Vinted.“
Alcuni dati interessanti compaiono anche nell’articolo Il second hand è davvero sostenibile? Ecco 4 modi per renderlo “eco-friendly”.
“[…] Secondo i dati dell’UE, infatti, la produzione di abbigliamento e scarpe è responsabile del 10% delle emissioni globali di anidride carbonica, più dei voli internazionali e del mondo delle spedizioni messi insieme. Il 70% delle emissioni di gas serra dell’industria della moda proviene dal processo di produzione. Se ne potrebbe dedurre che sia sufficiente contenere o tagliare la produzione per garantire al pianeta una migliore possibilità di sopravvivenza. Ma non è così facile, secondo quanto riferisce a Sifted Lee Smith, responsabile dell’area commerciale presso la società di consulenza Kantar. “La sostenibilità della moda di seconda mano ha molte componenti” spiega. “L’impatto ambientale della spedizione di articoli di seconda mano è ancora considerevole. Ma resta anche il dubbio se i consumatori stiano effettivamente sostituendo i nuovi acquisti di moda con l’usato, oppure ne stiano semplicemente aggiungendo altri a quelli che già possiedono”. Inoltre, è importante considerare i costi ambientali della gestione di grandi magazzini per pulire e conservare gli articoli usati prima di inviarli, i tassi di restituzione e la sostenibilità degli imballaggi. […]“.
Infine vorrei riportare una riflessione che scopre molti punti critici ed è stata sollevata nell’articolo di Stefania Cosimi intitolato Vinted è davvero sostenibile?
L’articolo si chiude così:
“[…] A prescindere dal più e meno, la riflessione dovrebbe a questo punto forse farsi più olistica e comprendere altri argomenti, anch’essi etici, ma di più ampio respiro, proprio come dovrebbe essere percepito il macro-tema della sostenibilità. Dovremmo considerare, ad esempio, se l’incentivazione dell’acquisto d’impulso, legato spesso alla disponibilità, al costo basso della merce e alla possibilità di rivendere, sia un fenomeno positivo o negativo per la società. Se è davvero sostenibile comprare qualcosa di usato solo per rivenderlo subito dopo, se non avrebbe più senso riflettere e farsi guidare nella scelta dalla domanda “Mi serve davvero?”
La sostenibilità non ha un canone solo, il bilancio è formato da più voci ed aspettarsi che siano tutte in positivo è certamente illusorio. Ma misurare il progresso di una azienda o della società un solo criterio alla volta, come avviene oggi per l’ambientalismo, non rende giustizia alla sua complessità e frena una riflessione più profonda – e più impegnativa – su che tipo di mondo vogliamo e che persone ci impegniamo ad essere domani.“
Per continuare ad approfondire:
- Sfilate inquinate
- Consumismo: il primo male per l’ambiente
- La moda del second-hand è davvero un’alternativa eco-friendly?
- Per dare una mano al pianeta basta una second hand, la tua!
- Tutti vogliono comprare vintage. Ma non c’entra l’etica o l’ambiente
- Il fashion second-hand è sostenibile?

Laura Ressa
Copertina: Photo by Becca McHaffie on Unsplash