
Si può fare ricorso all’ironia quando si trattano tematiche professionali?
Questa è una domanda che mi sono posta più volte e alla quale ho spesso cercato di rispondere pensando ai contesti in cui l’ironia può essere adoperata e agli scopi comunicativi che da essa derivano. Non sempre ho trovato risposta e non sempre ho saputo cosa fosse giusto fare quando mi sono trovata nella situazione di dover scegliere.
Meglio esprimere un’opinione con il tatto e l’austerità richiesta in determinati contesti professionali?
Dosare l’ironia e servirsene come veicolo di provocazione o per fare sfoggio della propria abilità narrativa?
Trasformarla in vanto personale o in strumento funzionale alla trasmissione del messaggio che vogliamo dare?
La risposta non è mai stata facile né scontata, forse perché mi sono posta la domanda sbagliata.
Credo che non contino solo modalità e contesto ma soprattutto la motivazione che ci spinge a ricorrere all’ironia.
Il dizionario può essere un buon punto di partenza.
Il termine ironia deriva dal greco eironèia ovvero “finzione” e Treccani specifica che nell’uso comune l’ironia è la dissimulazione del proprio pensiero con parole che significano il contrario di ciò che si vuol dire, con tono tuttavia che lascia intendere il vero sentimento.

Se siamo dei comici, o facciamo dell’ironia il nostro punto di forza per una professione che ne presuppone l’utilizzo, il dilemma è presto risolto: essere ironici è il nostro strumento comunicativo.
Come comportarsi con l’ironia sul lavoro?
La comunicazione prevede una costellazione infinita di possibilità e strumenti, dunque la domanda risiede nell’obiettivo comunicativo che vogliamo raggiungere.
In base ad esso sceglieremo il mezzo migliore da utilizzare.
La scelta dipende anche dai destinatari del messaggio: A chi ci rivolgiamo? Stiamo parlando ad amici o a possibili clienti?
Declinare il messaggio in base a chi lo riceve, e definire preventivamente lo scopo che vogliamo raggiungere, è il fulcro che guida le scelte stilistiche quando ci componiamo testi o a facciamo content marketing.
Naturalmente se scriviamo comunicati stampa, stiamo creando contenuti per un sito aziendale o stiamo descrivendo le funzionalità di un nuovo prodotto, dovremo necessariamente attenerci alle regole aziendali e al tono di voce scelto per questa tipologia di documenti.
Il dilemma si pone di nuovo quando dobbiamo scrivere un testo personale, a nostra firma, restando tuttavia portatori di una certa professionalità e portavoce dell’azienda in cui lavoriamo.
Quello che scriviamo o facciamo sul web è tracciato e basta una foto fuori luogo, un commento poco carino o un contenuto mal presentato per dare idea di chi siamo realmente e quindi anche dell’azienda che ha deciso di investire su di noi.
La credibilità online può essere un campo minato se non si sanno scegliere i tempi giusti, calibrare i termini, individuare i contesti, se si tende a polemizzare senza apportare alcun contenuto innovativo o che sia fonte di dibattito e confronto.
Il valore aggiunto è la chiave di volta. Da esso deriva l’utilità di un testo e il valore che esso è in grado di trasferire a chi lo legge. Lo stesso discorso vale per la comunicazione faccia a faccia.
Dobbiamo parlare solo per essere presenti in rete e far girare il nostro nome o vogliamo dire qualcosa di sensato che possa servire a chi ci legge?
A chi serve ciò che scriviamo?
Laura Ressa
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