È di qualche giorno fa l’articolo Dallo smart working al south working. “Per lavorare a Milano vivendo a Palermo” che racconta di un progetto pilota per rendere lo smart working una modalità di lavoro più diffusa e consentire alle persone di lavorare da remoto potendo così tornare a vivere nella propria città d’origine.

L’idea è di Elena Militello, ricercatrice dell’Università del Lussemburgo che si occupa di procedura penale comparata. Elena ha 27 anni ed è originaria di Palermo, città che ha dovuto lasciare nel 2010 per trasferirsi a Milano per studio.
Colgo l’occasione per raccontarvi ciò che ho letto sul tema di recente e di come la penso sullo smart working e sulla paura che credo esso scateni in alcune persone.

Cito l’articolo in questione: “La prospettiva è quella di mettere in discussione le logiche che hanno portato le menti migliori a dover gravitare attorno a pochi grandi agglomerati urbani, in Italia come all’estero, costringendo le stesse aziende a limitare il reclutamento a determinate aree geografiche vicine alla propria sede. Parliamo di città congestionate, dove inevitabilmente il prezzo delle abitazioni è stellare e buona parte di quel che si guadagna viene speso per arrivare a fine mese.”

Non è un mistero il fatto che in Italia le città con maggiori opportunità lavorative siano pochissime, al nord, e che gran parte delle attività aziendali gravitino attorno a Milano. Questo non è affatto un male ma pensiamo a quanti giovani si spostano dal sud per raggiungerla. Si trasferiscono per studiare e lavorare lasciando, non per propria colpa, che le città di origine e i paesi si svuotino.

“Il progetto si chiama South Working e come primo terreno di prova avrà Milano e Palermo”, racconta Elena nell’articolo. “Penso si possa cominciare ad immaginare un mondo diverso rispetto a quello di ieri grazie alla tecnologia e al lavoro agile. Un mondo nel quale alle persone sia consentito per periodi più o meno lunghi di trasferirsi al sud dove la qualità della vita è più alta e il costo molto più basso mantenendo il proprio posto nelle aziende attuali.”

Giorgio Soffiato qualche giorno fa ha scritto su LinkedIn un post sull’argomento:

“Forse sullo Smart Working non stiamo cogliendo un punto: la gentrificazione da turismo è ben chiara, lo era meno quella da lavoro. Un tempo i quartieri residenziali alimentavano il commercio e le periferie il lavoro (fabbriche). L’economia dei servizi ha reso il centro il luogo del lavoro e la periferia il luogo dove dormire, con la particolarità che la bottega è divenuta un pied a terre chic dei knowledge worker. È questo che manda nei matti Beppe Sala: la fabbrica del capitale cognitivo sta in uno zaino, e si muove. Se viene meno il patto sociale per cui quel capitale va prodotto per pura convenzione in certi luoghi, viene meno il senso dei luoghi. Ed il relativo mercato immobiliare e commerciale. Per non sparire le grandi città devono lavorare per divenire insostituibili, la verità è che uno choc termico ha svelato che semplicemente non serviva essere così spesso sul posto, così in tanti. Bel casino.”

Non serve essere in così tanti sul posto, esatto. Soffiato coglie il senso di molte parole spese in queste ultime settimane sul tema smart working sottolineando quanto poco conti il luogo e quanto realmente invece conti il lavoro con la L maiuscola. Come se non bastasse a questo argomento si è aggiunto quello, non meno importante, della sempreverde dicotomia nord/sud.

L’idea di Elena Militello mi pare un ottimo punto di partenza dunque per cominciare a cambiare la nostra cultura e quella radicata idea secondo cui quando lavori ci dev’essere qualcuno che possa vederti incollato alla sedia da una certa ora a un’altra. Il capitale di conoscenze e saper fare è fluido, mobile, e va molto oltre la parabola della timbratura del cartellino o dell’onnipresenza in certi contesti, luoghi, città, eventi, situazioni. Si può essere perfettamente produttivi lavorando da casa o dal giardino vicino casa o in un altrove non precisato. In fondo quel che conta non è il risultato e il raggiungimento degli obiettivi? Quel che conta non è lavorare davvero? Oppure conta solo esserci? Certo, tutto sta a misurare correttamente gli obiettivi e a riconoscerli ma la sostanza del discorso non cambia. Molti da oggi in poi dovranno fare i conti con l’inutilità di svolgere le proprie attività da un unico posto preciso, e con l’inutilità di quell’idea radicata secondo cui “dal vivo è sempre meglio a prescindere”.

Cominciamo invece a valutare realmente l’apporto di ognuno in azienda, l’apporto in termini di attività e impegno di ciascuno. Ridoniamo dignità alle competenze e alle capacità delle persone.

No, non è vero che dal vivo è sempre meglio che da remoto e questa consapevolezza di certo spaventa il mercato immobiliare e quel tessuto che va avanti grazie agli affitti salati che le persone pagano per lavorare o studiare in una certa città che, un po’ per vicissitudini varie e un po’ per scelte strategiche, si è costruita addosso la nomea di ombelico del mondo (o almeno d’Italia). Per quanto produttiva, l’economia di un paese intero non può e non deve gravitare attorno a pochi centri urbani sovraffollati.

La presenza in un luogo fisico poi non definisce e non sancisce la qualità di una prestazione o competenza. Il poter svolgere eventi o incontri dal vivo, e spesso solo in una città, non è sempre fondamentale e allora perché incaponirsi nel dire che invece è così quando è sotto gli occhi di tutti che se vali e sai lavorare bene non hai bisogno di un determinato luogo per dimostrarlo?

Ci sono altri interessi in gioco dietro questa scelta di restare fedelmente legati ai luoghi e al dove?

Come la mettiamo poi con le persone che si trasferiscono al nord, in particolare a Milano o dovunque si possano scattare foto sfondo aperitivo, solo per mostrare di “avercela fatta”?

Dal post lockdown stiamo riflettendo parecchio su quanto abbiamo reso in questi mesi dal punto di vista lavorativo. Credo di parlare a nome di molti: io ho continuato a lavorare realizzando anche più di prima. Certo, il mio tipo di lavoro me lo ha permesso, e mi riferisco infatti a tutti quei lavoratori che svolgono le proprie attività attraverso due strumenti fondamentali: computer e connessione internet.

Vi consiglio di leggere a tal proposito il reportage di Cristiano Carriero Milano, dobbiamo parlare: c’è chi pensa di restare al Sud. Ne vale la pena, è preciso, lucido, accurato, e ci pone di fronte a una serie di domande e prese di coscienza su ciò che sta cambiando o potrebbe cambiare.

Sulla scorta di ciò che ho letto, qui vorrei proporvi un un ulteriore sguardo sull’argomento e raccontarvi di quel tipo di narrazione professionale che vedo spesso snocciolata sui social (e non solo).

L’antica storia del “sono arrivato a Milano e questo vuol dire che ce l’ho fatta” comincia a stancare ormai. Soprattutto se il racconto della propria professionalità passa per foto di aerei presi, cocktail assaporati, apericena consumati e così via. Tutto questo è condito a volte anche da una malcelata smania di dire al mondo “abitavo al sud, ma ora ho fatto il salto di qualità” salvo poi tornare al mare durante le vacanze o ad assaporare i piatti tipici sperando di fare invidia a chi rimane al nord ad agosto. Sì, ce ne sono di persone che credono ancora che mostrare ossessivamente di abitare al nord, nella fattispecie a Milano, sia di per sé sintomo di miglioramento e realizzazione personale. Si tratta spesso di chi segue il proprio narcisismo con l’intento, forse, di provocare l’invidia di qualcuno.

Viviamo per mostrare o per dare un senso al nostro vivere e agire? Su cosa si basa la nostra professionalità quando non facciamo che postare selfie sfondo aperitivo?

Ho idea che qualcuno (non pochissimi, a dire il vero) sia rimasto un po’ indietro nella concezione e costruzione del proprio personal branding, che si affidi alle vecchie regole da slogan, e che dia ancora molto peso a ciò che mostra, pratica diffusa quanto inutile se sei un professionista che vuole definirsi tale.

State attenti alla narrazione che fate di voi stessi e del vostro lavoro: anche da quella si evince la vostra reale professionalità, e il valore che associate a quel che fate.

Nell’immagine di copertina di questo articolo c’è un tre ruote. Nella mia città, Bari, vedo spesso i tre ruote per strada: camminano lenti e sembrano retaggio dei mezzi del passato. Vengono sorpassati facilmente da auto e scooter. Ho scelto proprio il tre ruote come copertina perché per me chi si affanna nel rinnegare le proprie origini, nel distorcere l’accento, nel voler farsi accettare come appartenente a un sistema produttivo che si innalza ma solo nelle pose, vedo dei tre ruote che arrancano. Tre ruote che vorrebbero accelerare come un’auto di grossa cilindrata ma poi, nel tentativo, sbandano e vanno fuori strada.

Non puoi pensare di essere migliore se cerchi in ogni modo di non somigliare alle tue origini e distorcere quel che sei. Non puoi crederti arrivato solo perché ti sei trasferito salvo poi gongolare quando in estate torni al paesino natio a farti i selfie sfondo mare o mentre ti ingozzi di piatti tipici.

La narrazione narcisistica, che impregna spesso anche il mondo professionale, consiste proprio nel sottolineare fino allo sfinimento la (presunta) soddisfazione di aver cambiato città e nel ribadirlo in ogni modo e contesto fino a farti venire il dubbio che chi lo fa abbia altri argomenti di conversazione. Consiste poi anche nel nascondersi costantemente dietro una maschera, che cambia a seconda della caratteristica che pare essere più in voga o utile in quel momento. Oggi sono milanese perché fa figo e son su, domani torno al paesello e rientro nei miei panni di amante della cucina tipica ruspante e fautore del chilometro 0.

Lasciate stare, la differenza non la farete mai così perché alla fine avrete troppe maschere tra cui pescare e prima o poi vi confonderete su quella da indossare.

 

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Laura Ressa

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Scritto da:

Laura Ressa

Classe 1986 🌻 Digital Marketing Specialist & Web Writer 🌻 Frasivolanti