
Per anni quasi chiunque, tra amici e conoscenti, ha cercato di convincermi che il modo in cui ero fatta non andava realmente bene. Per anni mi hanno consigliato e invogliato a non parlare delle mie debolezze, a tenerle per me per pudore o per sembrare perfetta. Non fraintendetemi, non sono neanche una di quelle persone che si lamentano h24 e che sembrano aver avuto tutte le disgrazie e una vita travagliata quando invece non è così. I miei limiti li ho sempre mostrati giocando, mi prendevo in giro nella certezza che prendersi troppo sul serio fosse assurdo, impossibile, irrealistico, da stupidi in definitiva. E ho quindi sempre pensato con convinzione che sapersi prendere in giro con bontà verso se stessi e intelligenza, fosse quanto di meglio si potesse fare e donare agli altri.
Mi hanno sempre detto che i limiti erano qualcosa da cui fuggire, invece, a volte anche da negare. Di sicuro qualcosa da nascondere. Sarà per questo che alcuni non capivano perché mi prendessi in giro senza timore di cosa avrebbero pensato di me le persone se avessi detto con disinvoltura tutto ciò che non sapevo fare.
Poi un giorno alla mia porta ha bussato il fantasma della perfezione, quello che mi intimava di fare ogni cosa con eccesso di zelo affinché nessun errore potesse essere imputabile a me. Forse è stato da allora che è cominciata questa battaglia con il mio mostro. Una battaglia sorda, buia, che certe volte preme così forte da togliere il respiro.
Provo vergogna per quello che non sono riuscita a evitare ma le battaglie che le persone affrontano sono strette come colli di bottiglia che assottigliano il tempo. Ognuno di noi ne attraversa una, ne sono certa. Anche le persone che vogliono sembrare le più felici del mondo. Non dobbiamo aver paura del giudizio, non è una gara, ci sono persone senza ossessioni che fan meno cose di me, ad esempio. E ci sono persone con più buchi neri da attraversare che vi sembreranno serene e soddisfatte.
Non ci rendiamo conto di cosa stia accadendo, quando siamo risucchiati dai nostri mostri, ma non possiamo lasciarci affogare in mezzo alle onde. Dobbiamo continuare a nuotare e, se non lo sappiamo fare, trovare un salvagente.
Si parla poco e in maniera superficiale di malattie mentali. A volte si stenta a credere che esistano o che possano sfiorare proprio noi. Ci si vergogna, ci si fa prescrivere pillole e ci si imbottisce di quelle indossando un grande sorriso ogni giorno e una patina di efficiente soddisfazione in cui probabilmente si annida in realtà più di un mostro. Io indosso sempre il sorriso, ma mi faccio anche attraversare dalle debolezze, provo a guardarle e non ho mai assunto farmaci, nonostante la fatica che questo comporta.
Si ha paura di svelarsi, di essere deboli. Si parla poco e male delle malattie mentali, sì, sono viste come debolezze o al contrario come sciocchezze da cui guarire con la volontà, e invece forse non è abbastanza chiaro quanta forza ci voglia e quanto coraggio per continuare e alzarsi dal letto ogni giorno. Continuare a fare quello che devi fare e cercare il tempo di coltivare pure tutto ciò che vuoi fare.
Puoi provare a combattere un “ospite” del corpo con la mente e con lo spirito giusto, se ci riesci, ma se la mente decide di non aiutarsi a chi ti appelli?
Di mente si parla poco e male. Spesso anche gli specialisti, o chi si definisce tale, ne parla con superficialità. Una volta una ex collega di psicologia mi disse “mah sì dai, un po’ di fissazioni ce le abbiamo tutti!”
C’è tanta ignoranza e quella supponenza di poter guardare ogni cosa con filosofia, come fosse facile, con quella serpeggiante superficialità che ci impone di essere perfetti anche quando palesemente non lo siamo. Con quella sicumera dietro cui nascondiamo, come polvere sotto il tappeto, il nostro covo di inadeguatezze da imbellettare con trucco e fard.
E questo stride, perché nessuno di noi può dirsi o sembrare privo di problemi o di debolezze, per quanto lo vorremmo con tutte le nostre forze.
Per esorcizzare il mostro, qualche giorno fa ho aperto la mia casella di posta e di getto ho cominciato a scrivere il mio messaggio in bottiglia da spedire a Michele Dalai per il podcast “Se me lo dicevi prima”.
Mi sono detta che se mai Michele avesse letto il mio testo, forse avrei trovato sufficiente coraggio per farlo sentire ad altri e per dire che ero io quella che lo ha scritto. Mi ero data questa come variabile (o scadenza), dato che spesso chiedo consiglio agli altri su cosa fare.
Ho provato a scrivere molte volte di questo argomento, e in realtà ogni pensiero si bloccava alla prima parola. Dopo quella cancellavo tutto e chiudevo il file o riponevo la penna sul tavolo.
Non ho più paura di chi potrebbe provare un brivido di soddisfazione nell’ascoltare (perché ci sarà sempre chi si ringalluzzisce nei dolori altrui), non ho più paura di chi mi crederà poco efficiente perché chi impara a conoscermi sa quanto faccio e quanto rendo in ogni ambito della vita, non ho paura di chi penserà che questi argomenti vanno chiusi a chiave in un angolo della casa, non ho più paura di quelli a cui si può far pena, non ho paura di chi vorrà compatirmi. Non ho mai cercato la pena di nessuno, e non comincerò oggi. Non avrò paura, infine, di chi penserà che questo sia solo un esercizio di stile da blog.
Quando vivi altri ostacoli, più grandi, tutte queste sciocchezze riprendono la loro dimensione originaria e finiscono in pattumiera insieme a chi le pensa.
Se vi va di ascoltarla, la mia bottiglia è qui e si chiama “Scusate il disturbo”: https://stream24.ilsole24ore.com/podcast/italia/scusate-disturbo/ADLfKgc
La trovate anche su Spotify a questo link: https://open.spotify.com/episode/2Rxn4L8jfZFjnuXvw2wMkM

Laura Ressa
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Copertina: Photo by Saad Chaudhry on Unsplash
Qui sotto il mio testo integrale che Michele Dalai ha letto per il suo podcast:
Con lo sguardo basso cerchi di fissare il bianco della parete. Seduta sul letto, guardi il vuoto e ti chiedi “perché? a che punto della strada mi sono perduta?” Sei ancora seduta sul letto, saranno passati 30 minuti, devi toglierti le scarpe ma non ci riesci e aspetti ancora un altro po’ perché i pensieri liberi si confondono con le tue procedure mentali e così proprio non ce la fai a fare tutto alla perfezione come ti imponi di fare da 4 anni. La giornata è stata più sfiancante di una corsa a ostacoli: a ogni gesto semplice corrisponde una procedura ben precisa da seguire nel dettaglio, sempre uguale. Si parte subito. Alzarsi dal letto, procedere verso il bagno controllando la stanza da cui stai uscendo, e poi in bagno ripetere gli stessi gesti più volte accompagnandoli con un’assurda cantilena che vedi solo nei film che parlano dei “pazzi”. Poi uscire e ricontrollare. Vorresti che la giornata finisse lì perché sei già stanca come se fossero passate 8 ore. Eppure non hai fatto ancora nulla, ti sei solo alzata e sei andata in bagno. Nel mentre però la tua mente non c’era, eri assente, intenta a controllare il rotolo di carta posizionato in un certo modo, di aver chiuso il rubinetto, che tutto fosse al proprio posto.
Ti trascini con i piedi pesanti e pensi “Ma tu chi sei?”
Si parla spesso di “ospite” quando un male si impossessa del corpo. Quando un male si impossessa della testa, però, quasi nessuno se ne accorge e quasi a nessuno importa. Lo sai tu e pochi altri, e anche quei pochi che lo sanno ti tirano quando indugi sull’uscio di una stanza e cercano di dirti che non è nulla, che passerà. Qualcuno dopo un po’ invece trova il coraggio di dirti che la tua è una “malattia”, e no non lo accetti! Per curarti devi pagare molto, devo trovare uno specialista davvero bravo. “E io dovrei andare da uno bravo?” – mai avresti pensato di poter essere protagonista di questo antico sfottò. Quando un mostro ti colpisce nella testa, te ne vergogni e ciò che ti preoccupa è cosa penseranno gli altri. Ti chiedi se, sapendolo, ti vedranno come una persona meno efficiente e meno capace di fare tutto ciò che fai. Non possono sapere quanta fatica ci può volere anche solo per andare in bagno, anche solo per allacciarsi le scarpe, chiudere una cerniera, aprire la borsa, indossare il giubbotto, chiudersi una porta alle spalle, girare una chiave nella serratura, inviare una email.
Queste cose le persone le fanno tutti i giorni, alcune di queste come gesti automatici.
Tu invece sei lì, fai tutto e cerchi sempre nuove cose da fare. Cerchi di badare a te stessa con scarsi risultati. A fine giornata la tua bottiglia di acqua è ancora piena di acqua e devi uscire dall’ufficio. Prendi l’occorrente, controlli le finestre e sotto il tavolo. Ricontrolli tutto, ripercorri tutto dieci, venti volte e poi ancora.
Hai la sciarpa in mano e la borsa sul tavolo. Ce l’hai quasi fatta. Devi uscire ma balli sulla stessa mattonella in una assurda danza propiziatoria controllando di aver preso tutto ciò che ti serve. A volte tiri grandi respiri per dirti “stop” e proseguire. Quando va bene, canti le tue cantilene per aiutarti ad accompagnare i gesti ossessivi e procedi. Altre volte va male, quel macigno pesa troppo, lo porti in braccio tutto il giorno come fosse qualcosa da proteggere ma vorresti buttarlo via lontanissimo. Poi però non lo lasci, guai a chi ti toglie quelle certezze! La cantilena con cui cerchi di aiutarti prima suona come una nenia gioiosa, poi si rovescia sul volto, cade, si frantuma, le note si distorcono e si accartocciano. E allora ti siedi e ti lasci ad un pianto di strazio. “Non ce la faccio più” ripeti. Certe volte, quando puoi, lo urli ma è un urlo che si spezza in fretta. Devi asciugare in fretta la lacrime e uscire.
In inglese lo chiamano “Disorder”, forse – mi sono detta – perché c’è qualcosa da mettere in ordine in se stessi per uscirne. In italiano invece lo chiamano “Disturbo” e ho pensato che questa definizione dipendesse dal fatto che possa essere di disturbo per chi osserva un problema del genere dall’esterno e senza conoscerlo.
Tutto ciò che non conosci da vicino, non puoi comprenderlo – antica legge di una giungla che ti vuole efficiente e senza debolezze. Ma come si fa a parlare di una debolezza del genere senza sentirsi in difetto? Crediamo sempre che gli altri siano perfetti ma l’umanità è così sfaccettata e vasta che se dovessimo guardare ai problemi di ognuno, non finiremmo mai di catalogarli e definirli, senza tuttavia comprenderli nelle viscere e senza poter mettere i piedi in quel magma incandescente che percepisce chi li attraversa.
Così, avendo finito le bottiglie in cui spedire i miei messaggi e avendo finito pure le parole per parlare con questo mostro, gli regalo ancora un ultimo messaggio, che poi in realtà è il primo che ho davvero il coraggio di scrivergli.
Non so da dove tu sia sbucato, compagno di strada che mi tieni per mano e leghi forte i polsi con la tua presenza non richiesta. A leggerti bene sembri un acronimo e una domanda da pormi: “Distruggersi O Continuare?”
Forse hai radici lontanissime, le affondi magari in quel tempo in cui pensavo che tutto per me fosse un pericolo. Forse ti ho voluto io nella mia vita quando non dormivo mai o non mangiavo. Forse sono stata io a darti lo spazio necessario per manifestarti e crescere in me.
Finché sarai mio ospite, però, ti chiedo solo una cosa: aiutami ad abbandonarti presto! Se puoi, fammi un regalo: domani vorrei svegliarmi in una giornata di sole di quelle che ti sembrano far rinascere e vorrei non trovarti più nella mia testa.
Regalami un tuo viaggio di sola andata, ti prego. Il biglietto te lo pago io ma liberami, per favore.
Se me lo dicevi prima che saresti arrivato, forse mi sarei impegnata di più a prendermi cura di me, a dormire, a bere acqua, a stabilire i miei ritmi circadiani e sarei stata così impegnata a farlo che non ti avrei aperto la porta.
Forse sorridevi la volta che ti ho aperto, sembravi rassicurarmi sulla necessità di far le cose alla perfezione. Hai bussato come un venditore convincente. Adesso non mi sorridi più, i tuoi denti sono diventati aguzzi, stretti, voraci. Dalla tua valigetta, quando la apri, escono sogni perduti. E io li rivoglio indietro quelli che mi hai portato via.
Vai via!