

Avete presente quelle persone che incontrate nella vostra vita e che cercano di spronarvi a superare con coraggio l’ostacolo? Avete presente quando queste persone vi spronano così tanto che, lì per lì, vi stanno subito antipatiche nonostante stiano provando a fare qualcosa di buono per voi?
La consapevolezza del fatto che stiano provando ad aiutarvi può arrivare molto tardi. Arriva di solito quando queste persone non fanno più parte della vostra vita, quando le vostre strade sono così lontane da non potersi incrociare più.
Credo accada spesso. Succede che quelle persone rimangano legate solo a un ricordo distante, latente, a un periodo preciso. E non è un male, se ci pensiamo, che il tempo sia un limite difficile da valicare, perché non tutti quelli che hanno segnato il nostro percorso sono tenuti a restare.
Pensare che debbano farlo è un errore comune. E forse proprio il distacco e il ricordo danno maggior senso all’insegnamento che ci lasciano.
Mica si può programmare sempre una reunion come per le serie TV! La realtà è diversa. A volte si arriva troppo tardi oppure non ci si ritrova più.
Da qualche tempo mi capita di ripensare al mio professore di educazione fisica delle scuole medie.
Si chiama Giuseppe. Non so quanti anni abbia oggi, non so se viva ancora nella mia città. Non so nemmeno se sia ancora vivo.
Io spero di sì, e spero anche di incontrarlo di nuovo.
Il professor Giuseppe veniva a lezione sempre in tenuta sportiva. Per primo ci mostrava come eseguire gli esercizi che ci chiedeva di ripetere, si vedeva che voleva trasmetterci il suo amore per lo sport.
Mi è tornato in mente forse perché in questo momento faccio fatica a volermi bene, a coltivare auto-efficacia e autostima. Sì, certo, queste sono sensazioni comuni a molti, e molti le giustificano con la pandemia, ma non parlo solo della situazione contingente. Di sicuro sarà successo anche voi qualche volta, oppure vi sta accadendo ora di non fare il massimo per stare davvero bene.
Quando penso al professor Giuseppe, ricordo la sua insistenza nel volermi far fare anche esercizi in cui pensavo di non essere capace (cioè tutti). Lui era convinto che io fossi in grado di farli. Io invece ero convinta di non poter fare nulla ed è così che cominciai a odiare l’educazione fisica.
Eppure lui credeva in me più di quanto io stessa credessi in me: ma odiavo lo stesso le sue lezioni. Ogni volta che c’era lui in classe o che si scendeva in palestra, mi preoccupavo, mi chiedevo quali esercizi ci avrebbe proposto.
Le immagini che ho impresse in mente sono due: palleggi a muro, salto in alto.
Il palleggio a muro in solitudine me lo infliggeva quando non volevo fare gli esercizi oppure quando non volevo giocare a pallavolo con gli altri compagni.
Avevo sempre l’impressione che lui fosse in collera con me, e per questo cominciai a provare collera verso di lui. La mia preoccupazione era il fatto che mi potesse mettere in ridicolo davanti a tutta la classe.
Il giudizio degli altri aveva sempre il primato per me.
La seconda immagine che ricordo nitida è legata al periodo in cui il prof. ci chiese di eseguire il salto in alto con sforbiciata laterale e tuffo su materassino. Pur di farmi saltare il professore metteva la corda raso terra, ma non ci fu nulla da fare: non volevo saltare.

“Believe in youself” ovvero “Credi in te stesso” – è il tipico motivational che si adotta in questi casi. Chi scrive i motivational però evidentemente non ha mai capito quanto tempo e sudore ci voglia per arrivare a credere non solo in sé ma anche nelle proprie capacità motorie. Non basta dirlo per farlo!
Mesi fa ho sognato una signora anziana che giocava a pallavolo e mandava il pallone oltre la rete inserendolo in un sacchetto trasparente che aveva annodato al polso stile pochette.
In pratica la nonnina, avvicinandosi alla rete per lanciare il pallone, si fermava per riporlo in un altro sacchetto annodato alla rete.
Non ha molto senso, me ne rendo conto. Nel sogno decidevo di adottare anch’io questa tecnica per dimostrare che ero in grado di mandare la palla oltre la rete.
L’antefatto del mio sogno ha radici antiche perché a scuola quasi mai durante le partite di pallavolo riuscivo a mandare il pallone oltre la rete.
Alle scuole superiori, nell’ora di educazione fisica, cercavo di evitare sempre le partite a fine lezione. Per me erano una tortura.
Capitavano spesso palle prese male e pessimi lanci ma ci si rideva su. Il fatto è che quando giocavo io, non prendevo neanche una palla e quando la vedevo volare verso di me il primo pensiero era la paura. Sentivo di dovermi proteggere perché altrimenti mi sarebbe capitato qualcosa di brutto.
Mi sa che ci prendevo gusto a sbagliare: una specie di senso d’inefficacia sbandierata ai quattro venti.
Quando sbagliavo mi divertivo soprattutto a osservare le reazioni dei miei compagni.
Interpretavo tutto come una sfida, volevo vestire i panni di quella che non ci riesce. Per farlo tante volte ho negato a me stessa la possibilità di provare ma soprattutto la possibilità di sbagliare.
Non potevo sbagliare!
L’idea di fallire era inconcepibile per me, meglio tirarsi indietro in partenza. Meglio non provarci e prendersi poco sul serio che rischiare di sbagliare. Questa è stata la mia filosofia di vita per tantissimo tempo. Temo sia tuttora la mia filosofia su molti aspetti.
Quando qualcosa non mi piaceva o non volevo che mi fosse imposta, mi divertivo a sbagliare prima ancora di provare.
Non è questione di affrontare le sconfitte o di vedere il lato positivo delle cose: ridevo senza pensare troppo al perché e non ricordo di essermi mai chiesta se venissi derisa in quei momenti.
Non ho mai desiderato apparire vincente, volevo sembrare una simpatica perdente.
Però allo stesso tempo non ho mai creduto a chi dice che un limite vada per forza superato o colmato.
E se a me non importasse colmarlo?
Negli ultimi anni ho pensato spesso al professor Giuseppe, quello che non si spiegava perché non volessi muovermi e perché avessi sempre paura di tutto. Quello che non si dava pace chiedendosi il perché della mia avversione al movimento.
Non l’ho ancora capito nemmeno io a 35 anni il perché, figuriamoci se poteva capirlo un insegnante delle scuole medie. Eppure il professor Giuseppe mi è rimasto nei pensieri perché a me ci teneva davvero.
Credo sia stato l’unico professore a preoccuparsi della mia storia, delle mie motivazioni, a chiedere, a provare senza arrendersi, a spronarmi, a mettermi alla prova, a farmi buttare sull’ostacolo che tanto temevo.
Per questo l’ho odiato. Non capivo, mi agitavo e speravo solo che le sue lezioni finissero velocemente così come tutto il periodo delle scuole medie.
Avete presente quelle persone che ci tengono così tanto da spronarvi e da credere in voi più di quanto voi crediate in voi stessi?
Io una persona così l’ho incontrata molto presto, ma non ho saputo riconoscerla subito. E sono certa che a chiunque di voi sia capitato di non comprendere, lì per lì, le sue ragioni.
Mi consolo pensando che il tempo spiega, mette ordine e infine svela.
Oggi vorrei raccontargli che le mie paure ci sono ancora tutte, ben salde nella mia testa. E vorrei dirgli che qualche volta è più difficile portare sulle spalle il peso di quelle paure. Vorrei dirgli che non sono cambiata moltissimo da quella ragazzina che non voleva saltare oltre la corda.
Ma vorrei anche dirgli che adesso ho capito. Ho capito cosa significhi essere un insegnante che si preoccupa degli alunni più insicuri.
Vorrei dirgli che ho capito il suo sforzo con me ma che quello sforzo non mi è servito tanto per amare l’attività motoria, ma piuttosto per capire che a modo suo mi stava donando l’affetto che io a me stessa non ho mai concesso.
Per questo motivo ora alle persone che affrontano un cambiamento o una difficoltà dico “abbi cura di te”. Io ancora non lo so fare, ma spero sempre che gli altri invece ci riescano.
Ve le ricordate le persone che vi hanno spronato a diventare migliori, a saltare l’ostacolo, ad amarvi almeno un pochino di più?
Beh, se non vi vengono in mente cercatele. Prima o poi le troverete e vi ricorderanno che aver cura di voi stessi è veramente l’unica cosa che conta.

E ora alzate il volume, immaginatevi ovunque vogliate, provate ad avvolgere il nastro e a vedere dove vi porta, cosa proietta.
Fatelo sulle note di “Mercy” dei Black Rebel Motorcycle Club, che mi ricorda le tipiche scene in cui nei film i protagonisti rievocano il passato. E infatti le parole del testo si avvicinano al concetto di rievocazione:
“There ain’t no time to set things right
And I’m afraid I’ve lost the fight
I’m just a painful reminder
Another day you leave behind“
Queste parole dicono “Non c’è tempo per sistemare le cose, e ho paura di aver perso la battaglia. Un altro giorno che ti lasci alle spalle” – Per quanto possano sembrare parole tristi, a me lasciano un senso di speranza perché ogni giorno lasciato alle spalle, anche se passato, è un giorno in più di conoscenza di noi e del mondo.
Come recita il protagonista del mio teen drama preferito:
“It’s the oldest story of the world. One day you’re 17 and you’re planning for someday. And then quietly, without you ever really noticing, someday is today. And then someday is yesterday. And this is your life.”
“È la storia più antica del mondo. Un giorno hai 17 anni e stai pianificando il futuro. E poi in silenzio, senza che tu te ne accorga davvero, quel futuro è oggi. E poi quel futuro è ieri. E questa è la tua vita.”
Laura Ressa
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