

Così come non ho compreso per tanto tempo a che serva lamentarsi in un certo modo sui social di non trovare lavoro, allo stesso tempo (anzi di più) continuo ancora a non comprendere chi vuole a tutti i costi insegnare agli altri non tanto a trovare lavoro ma a non lamentarsi se non lo trova. Chi si lamenta di non trovare lavoro, alla fine, ho imparato a capirlo e a comprendere se qualche volta quel sentimento non viene espresso in modo corretto o condivisibile.
Credo che manchi sempre più la capacità di immedesimarsi negli altri e nel loro percorso. In fondo, essendo noi tutti umani, sbagliamo con molta facilità anche nel leggere tra le righe un malessere, nel prendercela con i modi linguistici del piccolo caso isolato piuttosto che con una società che lascia le briciole a molti e le pepite d’oro a pochissimi.
Se da un lato comprendo chi, a fronte di uno scoramento, si lascia andare a post infelici, mal tollero invece chi pensa sempre di sapere, con posticcia umiltà, cosa vada scritto o non scritto sui social. Mal tollero chi vuole rimarcare che se non trovi le opportunità giuste è sempre e solo colpa tua oppure che evidentemente sei tu la vera nota stonata nel processo di crescita, selezione, approdo professionale a nuovi e diversi lidi. Non tollero chi dice che dovresti prima di tutto proporti di lavorare gratis, di fare stage a oltranza, di sudare tanto (a ben vedere bisogna capire se chi dice si debba sudare, poi in vita sua abbia mai sudato davvero qualcosa).
Mal tollero pure chi suggerisce di scrivere gratis per altri, di fare docenze gratis, di inventare cosa ti piacerebbe fare e proporlo ad altri o che dovresti farti avanti e coltivare qualcosa di personale per far capire chi sei.
Sono tutti concetti con i quali, in parte, mi trovo molto d’accordo: io stessa da anni coltivo passioni e hobby per il piacere di farlo, senza che nessuno mi paghi ma, sicuramente, anche per far capire cosa so fare e che la mia esistenza non finisce dentro le mura dell’ufficio. Tuttavia spesso questo non è stato sufficiente nella mia vita professionale: il mio lavoro ce l’ho non per aver leccato le terga a qualcuno o per aver fatto qualcosa gratuitamente, né per via di un hobby specifico, ma per una serie concatenata di esperienze lavorative e di capacità che di fatto ho e che di fatto qualcuno paga nel momento in cui metto quelle competenze a servizio e a sistema.
Non lavoro quindi perché in tempi non sospetti ho accettato lavori aggratis, ma per esperienze che certamente mi hanno richiesto di mettermi in gioco e mi hanno portato dove sono senza – lo dico con orgoglio – snaturarmi o dover risultare simpatica a qualcuno solo per poter avere possibilità lavorative. Della serie: non è scritto da nessuna parte che per lavorare devi farti sfruttare per forza. Di certo non sono migliore di tanti altri ma neanche peggiore di chi pensa di essere guru o finge di non volerlo essere.
In questi anni ho provato anche ad accedere ad altre strade per coltivare competenze e passioni, ma per quanto io possa propormi anche di scrivere gratuitamente per crescere, non sempre troverò porte aperte e disposte ad accogliermi. In certe situazioni anche per donare la tua creatività a titolo gratuito, devi accedere da una corsia preferenziale che non sempre attiene solo al talento. Ed è normale che possa accadere, sto imparando a far pace con tutto questo. Del resto mi sono anche detta: dove sta scritto che dovrei propormi gratis per coltivare il mio hobby o per fare altre esperienze? Posso creare da me il luogo in cui farlo se altrove non è possibile o se non sono in linea con i luoghi online per i quali mi sono proposta di scrivere, ad esempio.
Tutto questo per dire che se vuoi trovare lavoro o coltivare i tuoi talenti non ci sono formule perfette ma nemmeno tagliate su misura per te, perché tanto domani non sarai la stessa persona di oggi così come oggi non sei la stessa persona che eri ieri. Spesso anche chi ci sembra molto autorevole può dirci un mare di castronerie su come vendere noi stessi: sta a noi trovare la nostra cifra. Nessuno sa, a parte noi stessi, quale sia la nostra strada. Io la mia la sto cercando ogni giorno e non perché non ne abbia presa una ma perché la vita è un mutamento costante e non esiste una versione definitiva di quel che siamo o potremmo diventare.
Negli ultimi anni ho scritto moltissimo: è qualcosa che mi piace molto fare. L’ho fatto sui miei profili social, l’ho fatto sul mio blog, l’ho fatto per persone in cui credevo moltissimo e in cui credo ancora, l’ho fatto per progetti che non sono fini a se stessi ma che, secondo me e secondo molti, possono cambiare un passettino alla volta il mondo. Non ho paura di dirlo: le cose che faccio hanno esattamente questo scopo e credo sia un lusso scegliere questo scopo quando ci si approccia ai propri hobby. Dal lavoro traggo competenza e guadagno. Da tutto ciò che realizzo al di fuori di esso cerco di trarre qualcosa che, sì, attiene al senso della mia vita: un obiettivo che forse sta diventando inusuale.
Cosa spinge alcuni a prendersi gioco di chi si lamenta online di non trovare lavoro o racconta scenari considerati discutibili o negativi?
Parlo di casi specifici, non mi riferisco all’odio online né a linguaggi osceni e nemmeno alle aziende che lamentano di non trovare candidati: questi ultimi sono tutti atteggiamenti deprecabili a prescindere ma che comunque non è detto che vadano sempre mostrati, anzi. In questo testo però vorrei focalizzarmi su tutti quei post che ci possono saltare all’occhio, soprattutto su LinkedIn, e in cui aziende vere o fantomatiche vengono descritte male per il loro presunto cattivo approccio con i candidati. Mi riferisco ai post di persone a cui può essere scappato, spesso o raramente, un appunto arrabbiato su un colloquio o un racconto negativo legato su brutte esperienze in azienda.
Questi post spesso scatenano il dissenso di addetti ai lavori o di professionisti che si sentono di dover dire la propria sull’argomento, che soprattutto si sentono in dovere di ribadire quanto pane duro si debba mangiare e di quanta umiltà bisogna cospargersi il capo.
E questo dissenso, la condivisione o lo screenshot dell’oggetto del contendere, fa scattare in automatico l’annosa lotta tra chi crede di essersi fatto da sé, e di poter sempre dire agli altri in cosa sbagliano, e chi il lavoro lo ha perso o non riesce a trovarne un altro oppure semplicemente la pensa diversamente. Se è vero che talvolta ci si può sentire un esempio o una guida per gli altri, credo che per esserlo davvero sia utilissimo evitare di giudicare gli altri, anche se a noi sembra che gli altri sbaglino e che potremmo aiutarli a scrivere o a esprimersi meglio.
Faccio un esempio ancora più concreto. Se sei un mio contatto social, non mi interessa sapere chi ti ha fatto arrabbiare per il suo modo di usare i social, soprattutto se tu un lavoro ce l’hai e la persona di cui racconti il lavoro non lo trova o vorrebbe trovarne un altro. Chi racconta le proprie peripezie professionali o si lamenta pubblicamente di aver avuto a che fare con cattivi capi, con pessimi recruiter o con pessime aziende forse sta facendo la mossa sbagliata ma non spetta a nessun guru della comunicazione, o presunto tale, utilizzare a proprio piacimento questi casi e sottoporli al pubblico ludibrio. Chi lo fa evidentemente non si chiede mai: “non è che la pessima figura ora la sto facendo proprio io?”

Non appoggio dunque la scelta di prendersi gioco degli altri solo per il piacere di dire “ha fatto male a scrivere questo”. Naturalmente non sto dicendo che approvo il comportamento di chi si lamenta delle proprie cattive esperienze, ma il libero arbitrio mi indica, dopo anni di utilizzo dei social e dopo alcuni errori commessi, che non è etico e non è interessante mettere alla gogna comportamenti che non ci sembrano linguisticamente o professionalmente corretti. A maggior ragione se provengono da chi può trovarsi in una situazione di svantaggio sociale come, appunto, chi cerca lavoro e non lo trova.
Peraltro non sta a nessuno di noi stabilire di chi sia la colpa se una persona non trova lavoro o si imbatte in pessimi recruiter, né tantomeno sta a noi dire che quella persona non trova lavoro perché comunica male. Lo capirà da sé con il tempo in cosa ha sbagliato nell’approccio, e se poi ci teniamo davvero che lo capisca da noi nulla ci vieta di limitarci a scrivere un messaggio privato per spiegare come potrebbe esprimersi meglio.
Dietro ogni persona c’è una storia diversa che non sta a noi giudicare come caso di studio, salvo che non si tratti di situazioni estreme (per le quali comunque esiste già l’azione di autorità competenti). Non condividerei quindi certi post né tantomeno i loro screenshot per far intendere che io sono migliore dell’autore/autrice del post o per chiedere manforte a chi so già che la pensa come me o mi dà ragione a prescindere. Che figura ci farei se agissi così?
Non dico che bisogna comprendere sempre le persone come fossimo parroci dentro a un confessionale, ma ripristinare compostezza e un briciolo anche infinitesimale di sensibilità.
Non è etico, MAI, per un professionista usare come metro di giudizio universale dell’altro un post scritto sui social. Non è etico nemmeno utilizzare quel post per riproporlo urbi et orbi.
Le alternative alla gogna inutile sono tante, soprattutto se non ci interessa porre le basi di ulteriori commenti di astio a corredo del nostro screenshot o del post che mostriamo. Meglio cogliere il bello della rete, o no? Se poi ci interessano gli scontri online o le allegre diatribe perché generano traffico, beh questo è un altro discorso.
Ecco un po’ di (umili) alternative che vorrei proporre alla gogna screenshottara.
Se sei esperto nel settore ricerca e selezione, ti basterà far bene il tuo lavoro o scrivere una guida degli atteggiamenti consigliati piuttosto che mostrarci sempre un campionario di quelli deprecabili. Nel caso specifico, se ci tieni tanto a un post in particolare, potrai sempre scrivere alla persona autrice del post un messaggio privato per dire che secondo te non è quello il modo corretto di agire e trovare lavoro, proponendo alternative in modo pacifico.
Se non sei esperto nel settore risorse umane ma sei un professionista in ambito comunicazione e pensi di aver fatto il percorso giusto che ti ha portato ad avere un lavoro, perché dovresti fare la paternale a chi il lavoro non ce l’ha? Cerca piuttosto di dare consigli utili, senza scomodare esempi negativi da mostrare a tutti, senza pensare che chi ha un lavoro sia migliore di chi non ce l’ha. Soprattutto chiediti: il mio percorso è replicabile per chiunque ed è utile a chiunque sapere come e perché io “ce l’ho fatta”? Non tutti i consigli sono universalizzabili, non per tutti ci si può costruire sopra un decalogo che possa valere sempre. Proprio in quanto esperto/a di comunicazione il tuo intento dovrebbe essere far bene il tuo lavoro, comunicare al meglio anziché parlare male di esempi che secondo te sono negativi.
Le persone con cui ho instaurato i legami, anche online, migliori e i momenti di crescita vera sono quelle che fanno cose belle per davvero, che non hanno bisogno di parlar male degli altri, che non si sentono mai lontanamente arrivate nella loro professione.
Le persone che mi hanno donato di più non sono quelle che mi serve tenermi amiche perché potrebbero tornarmi utili: non mi è mai importato nulla di questo perché se anche seguissi quelle persone ci rimetterei la faccia. Credetemi, ne troverete tanti che dicono di non sentirsi arrivati, ma imparerete anche ad annusare subito se quello che indossano è un finto abito che cela tratti (più o meno latenti) di megalomania.
Tornando al tema principale di questo testo… Se sei un professionista in altri settori, fra quelli non citati qui sopra, spero tu possa capire quanto valore ha scegliere di non parlar male degli altri in luoghi social. In questo testo sto sottolineando un esempio negativo, e forse starai pensando che allora nemmeno io dovrei parlare di questo se volessi seguire la mia regola aurea del non parlare di esempi negativi. Il punto però qui è un altro: per raccontare tutto questo, che poi è ciò in cui credo, non sto citando frasi specifiche né sto mostrando post o screenshot di altre persone. Sto cercando di costruire un pensiero che abbia un senso per tutti noi, sto cercando di far passare il messaggio che bisogna avere prima di tutto rispetto del prossimo per essere bravi professionisti perché non potremo mai comprendere fino in fondo le vite altrui e ciò che vorremmo cambiare non lo cambiamo facendocene beffa.
In generale eviterei di parlar male anche di chi si merita davvero il pubblico ludibrio. Sono spesso persone felici di essere citate, anche se se ne parla male, quindi su qualsiasi argomento le lascerei perdere anche solo per non fornire loro un facile palco.
Meglio allora mostrare le cose belle, i buoni esempi. Soprattutto è meglio ed è sempre più necessario realizzarle quelle cose belle. Anche se spesso anche per me il richiamo al negativo è fortissimo, provo a realizzare cose belle e a volte le racconto. Non mi reputo un modello da seguire, quando racconto spero di poter essere d’aiuto a qualcuno e spero che quel racconto possa fungere, anche solo un po’, da fonte d’ispirazione.
Quand’è allora che facciamo davvero la differenza? Di certo non quando guadagniamo di più, non quando troviamo lavoro, non quando riceviamo molti consensi, non quando molte persone ci cercano o ci elogiano, non quando parliamo male di chi cerca lavoro, non quando parliamo di sudore.
Banalmente, come ripeto spesso, facciamo la differenza quando siamo, davvero e senza finzioni di etichetta, brave persone. E brave persone possiamo esserlo anche se siamo disoccupati!
Per essere brave persone non esistono corsi o decaloghi, non serve neanche il curriculum, i video, i libri, il fatto che il mondo ci riconosca. E credetemi se vi dico che non serve nemmeno la presunzione di essere meglio degli altri.
Laura Ressa
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