narrazione fasulla fingersi brave persone

La narrazione fasulla sul mondo del lavoro

A dispetto dei fiumi di luoghi comuni e della narrazione falsata che spesso si fa sui social e nelle occasioni blasonate a proposito del mondo delle risorse umane, sappiamo bene che i dati veri e i racconti di tantissimi lavoratori delineano un quadro impietoso e una realtà ben diversa dai proclami romantici di facciata.

Naturalmente raccontare il vero, soprattutto in certi luoghi e contesti, non è considerato opportuno. Dire le cose come stanno sarebbe poco in linea con la dilagante facciata che moltissimi vogliono mantenere ad ogni costo: è il mercato, baby. E sappiamo bene che certe facciate non riguardano solo i temi di business, su cui si nega l’evidenza per un chiaro e diretto tornaconto. Seguendo questa scia mainstream, si diventa facilmente avvezzi a negare l’evidenza anche circa le proprie carenze personali e professionali: tutto ciò fa illudere alcuni che sforzarsi di apparire migliori di quel che si è in realtà possa lustrare la coscienza e forse anche la reputazione.

Quanto conta davvero in Italia prendersi cura dei lavoratori?

Tornerò su questi punti più avanti. Per riprendere il filo del discorso sui temi legati strettamente al mondo del lavoro, capire quanto conti davvero oggi in Italia il benessere e la crescita dei lavoratori – per citare solo un paio di temi cruciali e ampiamente di tendenza – è presto detto dalle statistiche, che mostrano un quadro del tutto avvilente che stride, appunto, con i racconti che ci si sforza di infilare ad ogni buona occasione. Le eccezioni esistono, nessuno lo nega: ma tali eccezioni, come sappiamo, confermano la regola diffusa. Ed è su questa regola diffusa che vorrei provare, in questa sede, a condurre un ragionamento su quelle che potrebbero essere le ragioni che spingono a insistere su una stucchevole narrazione falsata di sé, del mondo e del lavoro. Una narrazione che, a conti fatti, non corrisponde poi a quello che la realtà e i dati mostrano. D’altro canto stento a credere che tutti quelli che si professano grandi fan del benessere dei lavoratori appartengano davvero al ristrettissimo numero di eccezioni virtuose.

Dati alla mano: ecco cosa accade in Italia

Andiamo con ordine. Cito solo alcuni dati che potrete facilmente reperire e verificare voi stessi online.

In questo articolo vengono illustrati i risultati dell’Osservatorio BenEssere Felicità 2023. Il testo, in una parte molto interessante sul finale, recita quanto segue: “Scarso riconoscimento dei meriti e senso di appartenenza in forte diminuzione.

Tra le cause della sempre più diffusa voglia di cambiare professione figurano lo scarso riconoscimento dei meriti e la conseguente diminuzione del senso di appartenenza all’azienda: entrambi i valori decrescono per ogni categoria generazionale dal 2022. “L’individuo vede sempre meno riconosciuti i propri meriti all’interno del contesto di lavoro, conseguentemente anche il senso di appartenenza viene a mancare”, afferma Elisabetta Dallavalle, presidente dell’Associazione Ricerca Felicità. Un malessere generalizzato, quindi, legato da un lato alla scarsa valorizzazione professionale da parte delle aziende, dall’altra alla volontà, dopo la pandemia, di poter lavorare in modo più agile e “a misura d’uomo”.

E che dire poi del tema “ascensore sociale bloccato”?

Vi evidenzio, a tal proposito, un passaggio di un articolo pubblicato su Il Sole 24 Ore:

Ma quali sono i motivi che, stando alle indicazioni fornite dalla platea interpellata da Legacoop e Ipsos, hanno determinato il peggioramento delle condizioni sociali e di vita delle persone? Ai primi due posti figurano gli stipendi bassi (indicati dal 55%, e 59% nel ceto medio-basso) e la precarizzazione del lavoro (49%), seguiti dalle tasse eccessive (42%) e dalla corruzione (42%). Al quinto e al sesto posto, a pari merito (con il 27%) l’incapacità dei partiti di difendere le persone economicamente più fragili e l’aumento dei divari negli stipendi tra manager e lavoratori.

Per non parlare del mobbing. Per citarne solo uno dei tanti, un articolo apparso su la Repubblica riporta dati inequivocabili su cui ci sarebbero da fare svariate riflessioni. Riporto un passaggio interessante: “Cresce in Italia l’allerta mobbing negli uffici e nei luoghi di lavoro. Lo dice Aidp, l’associazione italiana per la direzione del personale che con il suo centro studi, guidato dal professor Umberto Frigelli in tandem con l’università Cattolica del Sacro Cuore, ha effettuato un’indagine intervistando 600 dirigenti delle risorse umane e del personale. Dalla ricerca in questione emerge che per oltre il 43% degli intervistati si tratta di eventi tutt’altro che sporadici. Nel 65% dei casi questi episodi avvengono in presenza di altre persone o dipendenti.

E se a confermare il fenomeno sono nientemeno che i dirigenti, figuriamoci cosa avrebbero da dire a tal riguardo gli impiegati ai livelli inferiori della scala gerarchica.

Un articolo pubblicato su Senza Filtro illustra i dati relativi a dimissioni e licenziamenti. Sullo stesso giornale è stato dedicato un intero reportage a “dati, storie, interviste, infografiche che raccontano come stanno davvero le cose e dove mancano davvero risorse”.

Riporto di seguito anche lo stralcio di uno straordinario editoriale di Senza Filtro scritto da Stefania Zolotti a proposito dello stato di salute dei lavoratori. Mi piace riportare spesso l’attenzione su queste sue parole perché colgono nel segno sottolineando le enormi pecche e le voragini che caratterizzano oggi il mondo del lavoro in Italia.

Scrive Stefania Zolotti:

Stiamo male.

La relazione di giugno scorso del Parlamento europeo – redatta dalla Commissione per l’occupazione e gli affari sociali – non ci ha girato intorno nemmeno con le virgole: la prossima crisi sanitaria, e mondiale, sarà legata alla perdita di salute mentale nel mondo del lavoro. 

La relazione si chiude con un invito alla Commissione europea e agli Stati membri che ha più le sembianze di un obbligo, anche se è scritta con le forme di uno stimolo: serve adottare al più presto piani di prevenzione, il senso è chiaro. Un po’ tremo, allora, se il senso è questo, perché ripenso alla vigliaccheria con cui la nostra politica ha finto di aggiornare un piano pandemico in vista di future crisi sanitarie (date per certe, in quanto cicliche), mentre nel frattempo ci chiudeva in casa per mesi dicendo di proteggerci.

A distanza di quasi tre anni dovremmo dircele a voce alta, certe verità.

Il Parlamento europeo, nella sua relazione, non trascura affatto il nucleo del problema: la salute mentale non è mai stata considerata all’altezza di quella fisica. 

Nemmeno l’OMS si tira indietro e, a fine 2021, ha snocciolato l’allarme su più piani. Più di 300 milioni di persone soffrono di disturbi mentali per colpa del lavoro: li chiama espressamente esaurimento, ansia, depressione, stress post-traumatico. Stringe il campo sull’Europa per segnalare che un lavoratore su quattro è convinto che la propria salute mentale risenta negativamente del lavoro. Affonda, infine, sui costi in progressivo aumento negli ultimi dieci anni a livello di PIL nazionali per rispondere alle conseguenze delle patologie mentali. 

Ma perché stiamo male quando lavoriamo? 

Provo a fare un elenco senza vincitori, complice l’onda lunga della pandemia.

Vita professionale e privata che si sono messe di colpo a convivere in casa, e non eravamo pronti.

Insofferenza nel sentirsi costretti a gestire il lavoro come un tempo da occupare più che come un senso da riempire. Cultura del lavoro ancora adolescenziale che vive di poteri, forme di controllo, assenza di relazioni, ignoranze emotive. Salari che non bilanciano lo sforzo e il sacrificio. Scarso interessamento alla persona. Muri di gomma contro il diritto alla disconnessione. Bullismi, mobbing, violenze psicologiche sottili, abusi, indifferenze, sessismi. Fragili politiche del lavoro per i giovani. Riunioni ingoiate una dietro l’altra senza il sapore delle caramelle. Attenzione zero all’emergenza della salute mentale nei percorsi formativi obbligatori o volontari: la salute, per le aziende, è un infortunio fisico oppure non vale, è una gamba che salta, è tagli o ferite più o meno gravi, è uno star male che si possa certificare con l’ipocrisia degli occhi e delle mani, altrimenti non conta. Dipendenza da algoritmi padroni che non hanno un colore, una faccia, un odore, eppure ci comandano a bacchetta. Solitudini e silenzi dei manager, dei capi, dei presidenti. Stanchezza mentale dilagante per carenza di desideri. Occasioni nulle di ascolto e di confronto reciproco dentro le organizzazioni aziendali. Progressioni di crescita e di carriera blindate. Ristagni. 

Se continuiamo a evitare che alcuni sentimenti nobili entrino nei luoghi di lavoro perché inadeguati o inopportuni al contesto, non aspettiamoci di migliorare. Non faremo altro che mettere a covare i problemi sotto le scrivanie; una volta erano i tappeti.

Sempre sul tema del lavoro e delle false apparenze, è sempre curioso poi osservare come spesso le aziende si vantino di aver assunto giovani, donne o persone svantaggiate (per fare solo alcuni esempi) senza tuttavia dar peso al fatto che tali manovre sono messe in atto perché su di esse le aziende ricevono agevolazioni fiscali statali. Può avvenire che addirittura queste cosiddette “scelte” dettate dalle agevolazioni e dagli sgravi vengano persino raccontate all’esterno come si trattasse di regali o di gentili concessioni che l’azienda fa a dipendenti e neoassunti.

Per farvi un’idea precisa di come funzioni tutto ciò, potete cercare online i dettagli sugli incentivi e sul loro funzionamento. Parliamo della scoperta dell’acqua calda, ma sempre meglio precisare: hai visto mai che qualcuno davvero creda a certi racconti senza documentarsi. Qui una panoramica degli aiuti alle imprese, gli incentivi, i contributi a fondo perduto, i finanziamenti e le agevolazioni.

Volete che continui?

Di fronte a simili dati e reportage, di fronte a queste parole scoccate come frecce da un arco, tutte le finte belle parole e i luoghi comuni che si possono sciorinare sui social, negli eventi mondani o nelle slide blasonate, impallidiscono. E non poco.

Impallidiscono anche perché vergognosamente banali, intrise del buonismo può inopportuno e vacuo, spesso anche mal poste in termini di forma linguistica, non degnamente argomentate e dunque, in definitiva, prive di fondamento oltre che di contenuto. Parole buttate lì a caso, forse per racimolare qualche like facile oppure uno stentato consenso da parte di qualcuno, oppure ancora per fingere e aderire ad una maschera che per molti è eterna compagna di vita.

Anche nei processi di selezione vincono spesso le distorsioni del sé

Un articolo di Sabatino Truppi parla di un libro scritto da Chamorro-Premuzic che analizza il rapporto tra competenza e leadership e afferma che i processi di selezione premiano le qualità sbagliate.

[…] Se dai governi passiamo al mondo del lavoro, il quadro non cambia: lo scarso impegno, la perdita di entusiasmo generata da leader intrattabili, incapaci e pieni di sé si traducono «in una perdita di produttività annua di circa 500 miliardi di dollari». A questo bisogna aggiungere che il 75 per cento delle persone che abbandonano la propria occupazione lo fa proprio a causa dell’ansia, della frustrazione generata da superiori mediocri, arroganti che creano problemi invece di risolverli; un fenomeno, questo del turnover, che comporta anch’esso una perdita stimata tra il 10 e il 30 per cento del monte salari annuo.

Eppure, a guardarsi intorno, ce ne sarebbero di persone competenti, esperte, adatte a guidare governi, imprese e istituzioni: perché costoro siedono in panchina, mentre tanti mediocri s’issano baldanzosi in plancia di comando? La colpa, spiega Tomas Chamorro-Premuzic, professore di Business Psychology all’University College di Londra e alla Columbia University (Perché tanti uomini incompetenti diventano Leader? Egea, pp. 188), è tutta da imputare all’inadeguatezza dei processi di selezione. «Quando gli uomini vengono selezionati per occupare posizione di vertice – spiega l’esperto di talent management – gli stessi aspetti che consentirebbero di predire il loro fallimento sono comunemente scambiati per indicatori di potenziale o di talento per la leadership e, come tali, persino esaltati». Ad esempio, «caratteristiche come l’eccessiva fiducia in sé stessi e il narcisismo dovrebbero essere interpretate come segnali di pericolo. Invece, ci spingono a dire: “Ah, che tipo carismatico! Ha la stoffa del leader”».

Insomma, i nostri sistemi di selezione esaltano «le caratteristiche del maschio alfa e cioè il protagonismo rispetto all’umiltà, l’estroversione rispetto alla sobrietà, la voce grossa rispetto all’understatement, l’azzardo rispetto alla saggezza». Il problema? Queste caratteristiche, se sono utili a imporsi come leader, sono del tutto inadatte per guidare un paese, un’impresa o una comunità di persone.

Prendiamo il caso di Justine, una persona reale ma con falso nome, la cui vicenda è esemplificativamente rievocata da Chamorro-Premuzic proprio per illustrare le tante distorsioni che insidiano i nostri sistemi di selezione: «(Justine) è un’esperta contabile belga brillante e curiosa, che ha passato gli ultimi quindici anni lavorando come responsabile finanziario di una grande organizzazione non governativa. Benché si sia prodigata costantemente al di là delle aspettative e sia vista dal suo capo come uno degli elementi più preziosi del team, raramente promuove sé stessa…preferisce concentrarsi sul proprio lavoro…lasciando che i risultati parlino da soli».

Purtroppo, quella adottata da Justine, è una strategia di assai dubbia efficacia in un mondo come quello delle progressioni di carriera, le cui ruote girano completamente all’incontrario rispetto a ciò che il buon senso (e le evidenze empiriche) imporrebbero: «Justine ha visto molti dei suoi colleghi passarle davanti, anche quando non sono in gamba come lei, ma, grazie alla sicurezza di sé e alla loro assertività, trasmettono l’impressione di essere non solo più competenti, ma anche più motivati e dotati delle attitudini tipiche del leader. E poiché possono continuare a fare affidamento su persone come Justine per mandare avanti la baracca, la loro incompetenza è spesso mascherata dal contributo silenzioso ma efficace di una Justine».

La cui vicenda ci consente di chiamare in causa il primo dei false friends dei processi di selezione: la sicurezza in sé, un attributo che molto spesso i cacciatori di teste e i selezionatori associano alla competenza e al potenziale di leadership. Eppure, evidenzia Chamorro-Premuzic, tra i due attributi (sicurezza di sé e competenza) non vi è alcuna correlazione. Al contrario, centinaia di studi hanno empiricamente documentato che esiste «una sovrapposizione inferiore al 10 per cento tra quanto le persone pensano di essere intelligenti (sicurezza in sé) e i punteggi reali dei test di intelligenza (competenza)».

Tradotto: la maggior parte degli individui tende a sovrastimare i propri talenti; e paradossalmente quelli che eccellono in questa pratica (aprendosi così numerose prospettive di carriera) sono proprio gli individui meno preparati. In fondo, chi sa è consapevole della limitatezza del sapere e per questo è in grado di riconoscere i propri limiti; al contrario, chi non sa (o sa poco) ritiene di sapere tutto e per questo si culla in una sicumera del tutto disfunzionale e fuori luogo. Il problema? Stante la distorsione dei nostri processi di selezione, molto spesso accade che i capi che ostentano maggiore sicurezza (e incompetenza) siano preferiti a quelli più competenti, umili e laboriosi che, proprio a causa di questi attributi, appaiono più cauti e insicuri agli occhi dei selezionatori. In tempi non sospetti lo aveva già evidenziato Bertrand Russell: «la causa fondamentale del disastro è che nel mondo moderno gli stupidi sono arroganti e pieni di sé mentre gli intelligenti sono pieni di dubbi».

La stessa cosa vale per il carisma, altro falso amico dei procacciatori di talenti. In molti pensano che questa caratteristica sia un ingrediente essenziale per una leadership di valore. Eppure, anche in questo caso, le evidenze empiriche ci dicono tutt’altro; ci dicono che i leader più efficaci, in politica come nel mondo delle imprese, non sono quelli più carismatici, ma quelli dotati di perseveranza e modestia, che approcciano la realtà in modo umile e sono pronti ad ammettere i propri errori.

Insomma, come Chamorro-Premuzic evidenzia a più riprese nel suo libro, «c’è un’enorme differenza tra i tratti della personalità e i comportamenti che occorrono per essere scelti come leader (sicurezza di sé, narcisismo, carisma) e i tratti e le competenze che occorrono per essere capaci di dirigere» (competenza e onestà). Ne deriva che se vogliamo far emergere dei buoni leader, cioè dei leader esperti, emotivamente stabili, consapevoli dei propri limiti e dotati di una buona dose di umiltà ed empatia, dobbiamo profondamente ripensare gli attuali criteri di selezione, poiché sono proprio quest’ultimi, per come sono oggi strutturati, a escludere, in modo del tutto distorto, tutti coloro che invece avrebbero le caratteristiche adatte per essere un buon leader. […]

Da questi illustri pareri (non sono io a dirlo, come vedete ho selezionato fonti valide), possiamo trarre di certo una riflessione che deve aiutarci a mettere sempre in discussione e in forte dubbio le apparenze di cui siamo circondati (ammesso che non siamo noi – hey, dico anche a voi che state leggendo – quelli che le applicano).

La riflessione è: non possiamo basare l’idea che abbiamo di una persona su quel che scrive sui social o sulle sue cosiddette buone maniere che abbiamo potuto osservare in rare occasioni. Nemmeno, ovviamente, sulla sua propensione al narcisismo e alla smodata voglia di mostrare quel che fa o che ha fatto. Inoltre non possiamo credere che filosofeggiare online (spesso del nulla cosmico ma con le giuste citazioni acchiappalike) voglia dire essere brave persone, né tantomeno bravi professionisti.

Di gente che si prende i meriti degli altri fingendosi persona preparata, stimata, intelligente e competente ne è pieno il mondo. E il mondo è altresì pieno di persone che si fingono profondamente coscienti dei problemi del mondo e dell’importanza di nobili sentimenti, e poco minuti dopo aver scritto o detto cose allineate con il pensiero “illuminato” fanno mobbing a un sottoposto.

Com’è che recitava quel vecchio detto? Le apparenze ingannano.

A fronte di una narrazione distorta del sé e del lavoro, da dove deriva l’esigenza di fingersi persino brave persone?

Ritorno – come scritto in partenza – alla diffusa pratica della narrazione falsata del mondo in generale e poi del mondo del lavoro in particolare: una pratica che porta (a livello individuale) inevitabilmente ad una narrazione falsata anche del sé.

Senza scomodare troppo il “falso Sé” di Donald Winnicott, credo che dovremmo chiederci tutti: a cosa serve cercare di sembrare diversi da quel che si è e perché molti perseguono costantemente questo tentativo?

La risposta più banale è: sperano che qualcuno ci creda e ci caschi. Eppure ci sono azioni, parole e comportamenti inequivocabili che tradiscono completamente e puntualmente i proclami di facciata e svelano la vera natura di chi cerca di sembrare portatore di sani valori solo di facciata.

A questo proposito un interessante articolo di Gianluca Didino, argomenta il tema della falsità sui social.

[…] Con la (apparentemente problematica) differenza tra un “vero Sé” e un “falso Sé”, Winnicott ci parla sostanzialmente di desiderio: laddove la persona dotata di un vero Sé è in sintonia con il proprio desiderio, la persona in possesso di un falso Sé non è consapevole del proprio desiderio e agisce per soddisfare le richieste che gli provengono dall’esterno. Questa è la ragione per cui falso Sé e narcisismo vanno così spesso a braccetto (come ad esempio spiega Alexander Lowen in Il narcisismo, 1983).

I concetti di vero e falso, dunque, non vanno qui intesi come assoluti metafisici, ma come dati di realtà di uno specifico soggetto. Fatta questa doverosa premessa posso finalmente arrivare al punto centrale del discorso, e cioè alla constatazione che i social media non solo favoriscono, ma moltiplicano e accelerano la produzione di falsi Sé, che si aggregano in false comunità, le quali danno vita a loro volta a una falsa società, producendo come risultato un’immagine del mondo che non corrisponde affatto alla realtà.

Come in ogni gabbia di Skinner, i social network premiano certi tipi di comportamento rispetto ad altri: se il ratto tira la leva di destra riceve una ricompensa, se tira quella di sinistra riceve una punizione. Per forza di cose il ratto sarà portato a tirare sempre la leva di destra per ottenere la ricompensa ed evitare la punizione. […]

Allo stesso modo del bambino nella famiglia disfunzionale descritto da Miller, quindi, sarò portato a modificare il mio comportamento (cioè a scegliere i post che condivido) per adeguarmi all’aspettativa della rete sociale. Questo processo, che inizia come consapevole (Miller spiega come nelle fasi iniziali del suo sviluppo il bambino sappia di star facendo quello che il genitore vuole e non quello che desidera veramente), con il passare del tempo diventa inconscio, fino al punto in cui distinguere tra desiderio individuale e richiesta esterna è impossibile. Per questo le persone affette da falso Sé hanno spesso l’impressione che dietro la facciata non ci sia “niente”, perché hanno perso memoria del proprio desiderio, che si è atrofizzato.

Queste dinamiche capitano anche nel mondo esterno ai social media, naturalmente, ma vengono accelerate al punto della distopia da tecnologie che sfruttano il condizionamento comportamentale per premiare quelle dinamiche che la tecnologia stessa considera virtuose. E poiché come sostiene O’Neil la tecnologia non ha modo di distinguere ciò che è giusto da ciò che è sbagliato (l’essere qualcosa), “giusto” è ciò che riceve il maggior numero di like (il comportarsi in un determinato modo). Ne consegue che condividere post che ottengono un gran numero di like non è solo utile, ma è anche “giusto”. 

Ad aggravare la situazione, poi, c’è il fatto che il problema non è solo individuale. In un mondo in cui il consenso viene costruito prima di tutto sui social media (vedi i casi delle presidenziali americane del 2016, di Brexit o, in Italia, di Salvini e del Movimento Cinque Stelle) anche la politica è soggetta alle stesse dinamiche, così che fare ciò che è “giusto” viene sostituito da fare ciò che genera un guadagno immediato: il caso della “Bestia” di Salvini ha dimostrato come sia possibile ottenere un potere politico considerevole semplicemente dando alle persone di volta in volta quello che vogliono sentire, condividendo i contenuti che generano il maggior numero di like. Un atteggiamento così cinico da parte della politica sarebbe stato considerato inaccettabile ancora pochi anni fa, ma appare come naturale nel momento in cui nella nostra vita quotidiana “utile” e “giusto” vengono a coincidere in ogni nostra interazione sociale, nel momento cioè in cui l’appiattimento sul comportamento è considerato la normalità.

Il punto però è che non è nemmeno lontanamente normale: è una vera e propria psicosi di massa. Molti falsi Sé generano una falsa società manipolata dalle meccaniche tecnologicamente accelerate di una falsa politica. Il risultato è un mondo nel quale è diventato impossibile credere, che è evidentemente “falso”, un’apparenza dietro la quale abbiamo il sospetto terribile che non si nasconda niente. […]

Siamo così tanto abituati a fare la cosa “utile” confondendola con quella “giusta” che stiamo perdendo la capacità di distinguere tra le due.

Jaron Lanier ha spiegato molto bene questo procedimento in un libro del 2010, quando l’idea più diffusa era ancora che i social media avrebbero liberato la creatività e prodotto ricchezza per tutti. In Tu non sei un gadget, Lanier sostiene che l’unico modo per cui un computer potrà mai superare veramente il test di Turing è che gli esseri umani abbassino le proprie aspettative fino al punto da lasciarsi ingannare. Nel momento in cui ci convinciamo che un essere umano è un meccanismo pre-programmato che allo stesso stimolo fornirà sempre la stessa risposta, allora siamo pronti a permettere ai computer di superare il test. Il risultato sarà lo stesso ma il movimento è opposto rispetto a quello immaginato da Turing nel 1950: non è la macchina a diventare un po’ più simile a noi, ma noi a diventare più simili alla macchina.

Questo processo è iniziato così tanto tempo fa che, oggi, è molto difficile invertire la rotta. Ma è anche necessario e, come spiegano gli intervistati alla fine di The Social Dilemma, va fatto pensando una tecnologia diversa che faccia un uso umano, appunto, degli esseri umani. È necessario chiedere di più alle tecnologie, spingerle oltre i limiti imposti da un gruppo di ricchi con un’idea tetra di ciò che un essere umano può essere. Altrimenti ci troveremo come gli umani di Matrix, terreno di estrazione di una razza aliena e senza scrupoli, con la differenza che quegli alieni siamo noi stessi, impegnati a succhiare il nostro stesso sangue fino all’autoannientamento.

C’è un aforisma che si presterebbe molto bene come didascalia per un post Instagram ma in realtà – al di là degli usi che se ne possono fare – racconta con una buona dose di verità un aspetto della comportamento umano che sarebbe interessante indagare. La frase in questione appartiene a Stanisław Jerzy Lec e recita “Tutti vogliono il nostro bene. Non fatevelo portar via.

In effetti tra il volere il bene di una persona (inteso come il desiderio che quella persona abbia una bella vita e goda di buona salute) e volergli invece sottrarre il bene, il confine ormai è molto labile ed è spesso affidato all’interpretazione soggettiva oppure a congetture.

Esistono molti modi per far del male al prossimo. I modi evidenti per fortuna sono facilmente riconoscibili. I peggiori sono invece i modi subdoli, le strategie studiate a tavolino, quelli ammantati di buone maniere e apparenze, di “grazie” detti per posa e finché puoi servire. Credo, purtroppo, che la maggioranza degli individui nella nostra società seguano questo modo di fare e di essere. Un’altra grossa percentuale di individui invece abbocca all’amo lanciato dai primi o regge il gioco finché gioca a proprio favore (perdonate il bisticcio di termini).

I primi sono anche quelli che fingono di avere una bella famiglia, una relazione di coppia solida e serena, financo un matrimonio duraturo, una vita fondata su sani principi, il giro di conoscenze giuste. Dentro i loro armadi e sotto i loro tappeti, però, si nascondono i più beceri pensieri, le più becere azioni e le peggiori strategie atte a colpire il debole (o quello che loro considerano tale), le bestie sacrificabili agli altari del denaro e del profitto.

Perché è più comodo fingersi brave persone anziché esserlo davvero?

Se dunque sembrare, in apparenza (sui social e nelle conoscenze superficiali), “brave persone” è considerato conveniente, perché non è considerato altrettanto conveniente essere per davvero brave persone?

Quale confine invalicabile esiste tra apparire brave persone ed esserlo davvero? Forse non conviene fino in fondo essere bravi e comportarsi correttamente con chiunque ma solo tenere a bada quelli che “contano” o che sono disposti a leccare le terga e a stare al gioco del potere? Essere brave persone (realmente corrette o attente verso il prossimo: è un discorso complesso questo ma credo sia diventato facile – almeno per alcuni – saper guardare oltre le false apparenze) vuol dire trattare tutti bene allo stesso modo e questo, per definizione e per logica, impedirebbe a certi individui di esercitare il proprio potere sugli altri. Renderebbe inoltre difficile l’ottenimento di privilegi.

Accade però che, in alcune cerchie, sia a volte necessario fingersi buoni proprio al fine di ottenere determinati privilegi. Per tornare al mondo del lavoro, pensate ad esempio al direttore d’azienda o al capo becero che vuole avere sottoposti fedeli, annuenti, lavoratori onesti e indefessi o mossi da buoni sentimenti (come citato più sopra, questi casi sono tanti). Fingersi come loro, permette a chi esercita il potere di ottenere – attraverso il loro lavoro e la loro onestà – i privilegi agognati. Permette anche di nascondere i meriti altrui e di appropriarsene.

Ecco dunque che fingersi brave persone è funzionale per chi vive solo di denaro, privilegio, ruolo sociale, apparenze, sensazioni fasulle di appagamento, relazioni di comodo. A tutto questo si lega, come scrivevo poco fa, anche la frequente pratica di prendersi meriti non propri.

Alcuni individui vorranno sempre far credere di essere mossi solo da nobili sentimenti e di essere ampiamente competenti o portatori di conoscenze ed esperienze di vita che li hanno resi migliori, ma è proprio dietro questi proclami che provano a celare la loro caccia all’agnello da sacrificare. Nel caso del lavoro si tratta di caccia al bravo dipendente da sfruttare e di cui prendersi i meriti, ripetendo persino a pappagallo quel che dice e scrive e riportando tutto ciò ad altri per sembrare persino intelligenti oltre che falsamente brave persone.

Tutto questo nasce da una profonda insoddisfazione personale. Dalla coscienza atavica di non possedere qualità, di non poter fare la differenza in nulla, tanto nei rapporti umani quanto nel proprio lavoro e dal punto di vista professionale. Questa coscienza, che resta comunque sempre sopita e naturalmente taciuta, induce a nascondere con tutte le forze i meriti altrui e ad aggrapparsi agli specchi, a indossare ogni giorno un mantello di sicumera e narcisismo che copra i tremendi vuoti che si possiedono. Quando poi aggrapparsi agli specchi non basta più, ci si aggrappa alle persone pur di restare a galla: ci si fa proteggere da qualcuno di più potente a cui bisogna dare in cambio qualcosa. Si fa tutto pur di mantenere la faccia e garantirsi la posizione sociale raggiunta solo grazie ad alterne fortune e a spintarelle di varia natura, calpestando così il giusto merito.

Nel celebre soliloquio di Amleto nella prima scena del terzo atto della tragedia, Shakespeare inserisce parole e concetti che rispecchiano ancora moltissimo anche il nostro tempo:

Perché infatti sopportare le frustate e le ingiurie del tempo, la violenza degli oppressori, le offese degli arroganti, l’agonia di quando si soffre per amore, le lungaggini della legge, l’insolenza di chi comanda, gli affronti che il paziente merito deve subire da chi non vale niente“.

Già, perché sopportare tutto questo?

La narrazione falsata del cocente impegno di vita e del tempo che manca

In un articolo di Ilaria Gaspari pubblicato su il Post, l’autrice sottolinea qualcosa di interessante che mi ha fatto riflettere su quella che io considero la moda del non avere tempo:

[…] Oggi, si dice, ripetere di “non avere tempo” significa mostrarsi impegnati, richiesti, dunque idonei a un’idea di successo che indebitamente si sovrappone a una doverosa felicità fotogenica. Qualcuno ci vede una forma di esibizionismo che inquina il rapporto con gli altri di competizione e invidie, come in un gioco a somma zero in cui per la vittoria di uno un altro deve perdere; oppure una vanteria poco fine, l’ostentazione di un privilegio – a ben guardare, piuttosto relativo: avere successo, felicità e vantaggi vari, per poi non trovare il tempo di goderseli, è come vivere da malati per morire sani, secondo un altro adagio che non risale a Eraclito ma a una spiccia forma di saggezza popolare che ci riporta coi piedi per terra.

La sensazione di “non avere tempo” appartiene a una retorica del successo che, se la subiamo per conformismo, forzandoci a calzarla come fanno le sorellastre di Cenerentola con una scarpetta troppo piccola, ci può avvelenare le gioie provvisorie che appartengono a una felicità più compiuta, aperta e fantasiosa, che nella partecipazione non perde nulla, anzi, si arricchisce. Però, è innegabile, questa sensazione si insinua nelle nostre vite con una tenacia perniciosa.

Pensateci: quante volte al giorno pronunciate le parole “non ho tempo”? […]

Anche questa costante narrazione del tempo che manca, manco avessimo sulle spalle il destino del mondo, rientra nella personalità falsata, in quel tentativo costante di sembrare persone impegnate e, dunque, di successo, tirate di qui e di là da mille impegni e cose da fare.

Ma a chi importa cosa abbiamo da fare o quanto tempo non abbiamo? Perché insistere sul lamento di una vita costellata di cosiddette “responsabilità” se poi nei fatti tutto questo impegno raccontato non si spiega, non si esplica, non si vede e, in definitiva, non c’è?

A parole siamo tutti bravi, sono le azioni che ci definiscono

Il danno peggiore dunque nella società è che molti, soprattutto chi non ha motivo di farlo, si auto-narra per quel che non è. E i nodi vengono al pettine quando questi falsi sé agiscono nel mondo, recano danni al prossimo, fanno danni nelle aziende o nelle comunità di cui fanno parte.

Come trattano davvero gli altri nelle cose che contano e non solo nelle “buone maniere”? Cosa fanno se hanno la possibilità di spingere qualcuno giù dalla torre? Come si comportano verso un collega più bravo di loro o semplicemente capace là dove loro non possono arrivare?

La parte visibile dell’iceberg è ben poca cosa rispetto alla parte sommersa oltre il pelo dell’acqua.

La parte sommersa, di dimensioni giganti, è tutto ciò che non si vede e si cerca di nascondere con dovizia, tutto quel che resta nelle retrovie. La piccola punta che fuoriesce è la parte imbellettata, pronta per essere mostrata e per attirare chi osserva, chi legge, chi si fa abbindolare dal falso sé. Eppure l’incontro ravvicinato con un iceberg è tutto fuorché una buona cosa. Reca danni, fa naufragare navi, causa morti e ferimenti.

Perdonerete il tirato paragone marittimo/acquatico, ma nelle nostre vite è questo quello che accade quando ci lasciamo abbindolare dalla punta di un iceberg, per quanto possa apparire cordiale e caruccia. Quel che non si vede, se ci avviciniamo e ne scopriamo la vera natura, non esiterà un solo istante a colpirci e a frantumarci con una forza dirompente e cieca. A differenza di un iceberg, però, che non pensa e non possiede libero arbitrio, noi siamo esseri umani. Certamente più complessi e, di norma, dotati di raziocinio, a volte anche di una coscienza ben funzionante (quando ci va bene).

Cosa fare con gli iceberg umani con una punta di buone apparenze e un gigante pericolo nascosto?

Le reazioni di fronte agli iceberg umani possono essere varie.

Ad esempio, si può abboccare all’amo: credere cioè a quel che la miriade di falsi sé e sedicenti bravi professionisti nonché brave persone ci propinano. Sarebbe un mondo fantastico, non credete? Tutti bravi, tutti competenti, tutti magnanimi con il prossimo o semplicemente onesti.

Peccato che la realtà sia assai diversa.

Dopo coloro che abboccano all’amo e poi si schiantano per forza di cose sull’iceberg, possiamo annoverare coloro che sanno e si fanno andar bene tutto. Magari pensano: oh forse se sto al loro gioco divento pure io così sedicente brava persona e raggiungo privilegi! Wow!

Contenti loro, contenti tutti. Che persone saranno? Diventeranno come quei falsi sé che stimano tanto perché anche per loro unico obiettivo di vita è apparire più che essere, raggiungere certi status social e continuare a manutenere le apparenze finché reggono.

Poi ci sono – categoria temo più rara – le persone che vedono, comprendono e agiscono di conseguenza. Tale consapevolezza sui falsi sé naturalmente arriva quando si è talmente vicino all’iceberg da poter capire cosa si cela sott’acqua. Ma qualcuno arriva anche a capirlo dal primo incontro, dalle prime tre parole o dalla prima stretta di mano. So’ fortune. Io ad esempio fino a qualche anno fa credevo nella buona fede di chiunque, oggi molte domande in più me le faccio anche su persone che leggo solo sui social. Poi le azioni le vedo e quando si arriva alle azioni, quando l’iceberg cioè è davvero a un palmo di naso da noi, beh da lì è tutta una didattica di vita.

Quelli che parlano di scuola di vita forse non sbagliano del tutto. C’è un che di verità anche in questo strano modo di intendere le esperienze che costellano le nostre vite. Facendo impari, tuffandoti nel mondo comprendi che non è fatto solo di arcobaleni del fatato universo di Iridella.

A un tratto ti fermi e pensi che alcune cose davvero avresti preferito non capirle e non vederle mai. Di altre invece gioisci, perché poi il bello degli umani è rarissimo ma c’è, solo che purtroppo fa più silenzio delle storture: è nascosto nelle pieghe delle miserie di chi vale ben poco. La bellezza invece si fa attendere a lungo e spesso insiste con il nascondersi.

Merito, falso sé, incompetenza e altre cosette in conclusione

Navigando online usando parole chiave sui temi del fasullo, del lavoro, del merito, del racconto falsato del mondo e di sé, sono approdata alla fine ad un testo scritto da Arialdo Martini, con cui concludo questo lungo articolo.

[…] Molte aziende proclamano con fierezza di essere governate da principi meritocratici piuttosto che burocratici.

Personalmente, trovo vagamente fastidiosa la dicotomia, perché ho l’impressione che faccia impropriamente leva sul luogo comune che i due concetti siano antitetici. Non è esattamente così.

Tecnicamente, una burocrazia, non è altro che:

un’organizzazione di persone e risorse destinate alla realizzazione di un fine collettivo secondo criteri di razionalità, imparzialità e impersonalità.

Insomma, per un’azienda essere burocratici significa non consentire che favoritismi, simpatie e alleanze personali prevalgano sull’applicazione sistematica e coerente di regole condivise.

Immagino che poche aziende che sostengono di essere meritocratiche e non burocratiche sostengano al contempo di rifiutare razionalità e imparzialità.

In effetti, storicamente la burocrazia è stata una delle svolte epocali nella gestione di organizzazioni.

Il termine burocrazia è stato coniato dall’economista tedesco Max Weber, che intendeva l’organizzazione burocratica come un sostanziale progresso rispetto alle organizzazioni basate sul potere personale, sull’esercizio dell’arbitrio, sul dispotismo. Insomma, l’organizzazione burocratica sembra configurarsi come fisiologicamente più giusta, per esempio, rispetto a quella padronale o a quella dittatoriale o alle monarchie assolute.

L’accezione negativa è legata a quelle che vengono indicate come conseguenze inattese della burocrazia: l’immobilismo dei ruoli aziendali, l’inefficienza, l’eccesso di formalismi, la difficoltà ad adottare cambiamenti e la de-responsabilizzazione delle persone. Ma si tratta di conseguenze, eventualmente evitabili, non di caratteristiche fondanti.

Ben venga la volontà aziendale di applicare meritocrazia. Ma non vedo alcun motivo per contrapporla necessariamente alla burocrazia. […]

È da un po’ di tempo che mi domando se esistano o meno dei criteri oggettivi e misurabili che consentano di valutare l’esistenza di un efficace meccanismo meritocratico in un’organizzazione. […]

Ho il ragionevole dubbio che ci sia qualcosa di profondamente errato nella diffusa convinzione che un’azienda sia meritocratica nella misura in cui applichi una politica di promozioni legata al merito del singolo.

Anzi, credo che sia un criterio molto fallace. In effetti, sembrerebbe un principio inattaccabile: l’azienda prevede delle valutazioni sull’operato del lavoratore, a ogni livello gerarchico, e in base alla valutazione garantisce che venga messo in pratica un meccanismo di premio in denaro e di ascesa nelle gerarchie.

È questo che garantisce la meritocrazia?

Beh, non basta. Anzi, paradossalmente (e provocatoriamente) è l’esatto contrario: i piani di promozione basati sulla valutazione dall’alto sono gli ingredienti che garantiscono il fallimento della meritocrazia e assicurano che ogni lavoratore vada a occupare il ruolo aziendale nel quale manifesti la massima incompetenza. […]

Mansioni gerarchicamente superiori, normalmente, corrispondono a stipendi maggiori. La speranza, in molte aziende, è che corrispondendo a una maggiore responsabilità una maggiore remunerazione il lavoratore sarà stimolato a crescere professionalmente e a erogare un maggiore valore per il business.

In Drive: The Surprising Truth About What Motivates Us Daniel H. Pink mette in dubbio che il semplice aumento di stipendio possa avere una reale efficacia nel miglioramento del lavoro. Un premio in denaro può incrementare il throughput su mansioni manuali e meccaniche, ma non appena la mansione richieda uno sforzo intellettuale, creativo o di gestione delle persone si scopre che l’effetto è l’esatto opposto. […]

Effettivamente, è abbastanza evidente che in molti ambienti non sarà il miglior tecnico ad essere promosso, ma il peggiore. È tragicamente paradossale, ma è spiegato da meccanismi abbastanza noti e ampiamente presi in analisi dalla sociologia delle organizzazioni.

Per quello che viene indicato come effetto Dunning–Kruger e per il meccanismo della selezione negativa le organizzazioni sono portate a selezionare il personale da promuovere tra quello meno competente. È così allucinante che non può essere vero, no?

L’aspetto più ironico è che, secondo Laurence Peter, questi meccanismi perversi sono perfino positivi e, dopo tutto, attenuano i danni. […]

Invece accade l’esatto contrario: il personale è selezionato dall’alto e, fatalmente, i manager incompetenti tenderanno a selezionare personale incompetente. O, più precisamente, persone tendenzialmente più accondiscendenti, che minimizzino il dissenso e che manifestino poche aspirazioni al cambiamento.

Nonostante questa tendenza (“selezione negativa“) sia stata rilevata principalmente in organizzazioni fortemente caratterizzate da rigidità gerarchica, come le dittature, si tratta in realtà di un fenomeno naturalmente umano e sostanzialmente inconscio: ci si contorna di collaboratori che non minaccino la propria posizione di potere.

Solo pochi autori, come Robert Sutton in Weird Ideas That Work: 11 ½ Practices for Promoting, Managing, and Sustaining Innovation, hanno il coraggio di suggerire, a chi deve occuparsi di selezione di personale, di preferire individui che creino dissenso, che manifestino un’evidente disaccordo con l’idea del proprio manager: secondo Sutton l’alternativa di assumere chi è già d’accordo con te è più invitante ma compromette la capacità dell’azienda di innovare. Se vuoi innovare, sostiene Sutton, devi diversificare. Accogli quanto più possibile nel tuo team idee diverse, incoraggia il cambiamento, promuovi (e premia) il nuovo e la rottura col vecchio, scoraggia la conservazione delle abitudini e preferisci l’estro all’anzianità di carriera.

Nella maggioranza dei casi, invece, il manager si adopererà più o meno consciamente per proteggere la propria posizione gerarchica e tenderà a scegliere e a premiare i propri collaboratori secondo il criterio di incompetenza. Senza arrivare dichiaratamente a rimuovere gli individui che stiano minacciando, con la loro aspirazione al miglioramento e al cambiamento, la posizione del manager, questi tenderà a proteggere il proprio ruolo collocando i sottoposti più accondiscendenti e meno pericolosi in posizioni di maggior potere.

In questo modo, nel corso del tempo, la gerarchia diventa più solida, inamovibile e conservatrice. Fatalmente, diviene anche sempre meno efficace. […]

Una cosa è evidente: sulla lunga, a pagarne le conseguenze è l’efficienza produttiva del team. Il meccanismo non è sostenibile: un manager incompetente che premi l’incompetenza manageriale e soffochi il cambiamento abbatte l’umore e l’entusiasmo del proprio team, estingue l’estro creativo del gruppo e, mese dopo mese, deve rassegnarsi a vedere la produttività precipitare ai livelli minimi.

La soluzione adottata dal manager incompetente è tragicamente e universalmente diffusa: assumere più personale, possibilmente junior. […]

Purtroppo, l’incompetente ha difficoltà a riconoscere i propri errori. Di nuovo, il meccanismo è talmente noto da essersi meritato un nome, in psicologia: Dunning–Kruger effect. Sostanzialmente, si tratta di un cognitive bias, un pregiudizio cognitivo, che prevede che le persone poco qualificate prendano decisioni poco lungimiranti e giungano a conclusioni errate, ma la loro stessa incompetenza neghi loro la capacità metacognitiva di riconoscere i propri errori. L’incompetente soffre di una sorta di sindrome di illusoria superiorità (illusione, del resto, che condivide con il resto dell’umanità, dal momento che sostanzialmente tutti ritengono di essere più intelligenti della media).

Un aforisma di Darwin (di nuovo, giustamente citato da Dan North) recita così:

Ignorance more frequently begets confidence than does knowledge

L’ignoranza genera confidenza più frequentemente di quanto generi conoscenza

Platone, nell’Apologia, fa dire a Socrate:

Sembra dunque che per questo particolare io sia più saggio di quest’uomo, poiché non m’illudo di sapere ciò che non so

consacrando quel che dovrebbe essere universalmente noto, cioè che l’ammissione “so di non sapere” rappresenti probabilmente la più elevata forma di saggezza. […]

Bertrand Russel sosteneva:

Uno degli aspetti più inquietanti dei nostri tempi è che coloro che si sentono sicuri e certi sono stupidi, mentre quelli che hanno immaginazione e comprensione sono pieni di dubbi e indecisioni. […]

Se ci si pensa, tutti i motivi che impediscono all’azienda di eradicare l’incompetenza sono legati a meccanismi di propagazione dall’alto verso il basso: il lavoratore incompetente riceve aumenti di stipendio e promozioni dal suo superiore, il manager in qualche modo si costruisce un substrato di incompetenza per proteggere la propria posizione, la valutazione dell’operato dei lavoratori è biased perché giunge da un superiore eventualmente incompetente e così via.

Cosa accadrebbe se si ribaltasse il controllo della valutazione, un po’ come accade nelle università quando, al termine del semestre, gli studenti consegnano un questionario di valutazione, anonimo e volontario, sull’operato dei propri docenti? Cosa accadrebbe se l’azienda iniziasse a soppesare i meriti di ogni manager in funzione delle valutazioni espresse dai membri del rispettivo team?

Il problema è che quando la valutazione (che poi viene tradotta in premi in denaro e promozioni) è effettuata dall’alto verso il basso si possono ingenerare dei meccanismi che difficilmente sono governabili e che non esprimono a pieno la volontà meritocratica dell’azienda: il lavoratore estroverso, creativo, contestatore e potenzialmente portatore di novità viene represso, mentre lo yes-man è premiato per la propria accondiscendenza. […]

La verità è che quando in una gerarchia c’è un personaggio incompetente i sottoposti ne hanno un’evidenza che è molto meno visibile ai superiori del personaggio stesso: il marcio dal basso è evidentissimo; perché sia visibile dall’alto, invece, le informazioni dovrebbero passare proprio attraverso l’elemento problematico, che evidentemente si adopererà per fare da filtro. Se non esistono meccanismi di comunicazione che vedano fluire informazioni dal basso verso l’alto e se questo flusso di informazioni non possiede risvolti concreti, come accade per i piani di promozione, c’è ben poca possibilità per l’azienda di proteggere il proprio organigramma dall’ascesa di personaggi poco competenti.

Le aziende dovrebbero sempre prendere in considerazione una strategia di raccolta di valutazioni dei lavoratori di un livello gerarchico su quelli del livello superiore. Va da sé che i manager lungimiranti, competenti e coraggiosi accolgono l’idea della valutazione dal basso senza problemi, mentre sono proprio i manager poco competenti a respingerne l’idea. […]

Se avete letto fin qui senza saltare direttamente alla fine, grazie per la pazienza!

Immagino non sia stato facile.

Ora vi chiedo un ultimo enorme sforzo. Se vi va, scrivete cosa ne pensate nei commenti. Su questi temi il dibattito non è acceso, e se lo è (manco a farlo apposta) è fasullo o sviato su altri lidi e derive buoniste, perbeniste e tutto ciò che finisce in “iste”.

Laura Ressa

L’articolo è anche su LinkedIn ed è stato menzionato da LinkedIn News

Foto di copertina: Image by Mohamed Hassan from Pixabay

Scritto da:

Laura Ressa

Classe 1986 🌻 Digital Marketing Specialist & Web Writer 🌻 Frasivolanti