
Agognate, programmate, evidenziate con il pennarello sul calendario.
Le ferie: bramato oggetto del desiderio, a volte sfuggenti, sempre lontane, viste come una chimera, una meta immaginata e idealizzata.
Rappresentano il più lungo periodo nel quale concedersi un distacco da scadenze e responsabilità lavorative.
Le ferie sono un respiro profondo, l’occasione di spendere più tempo con affetti e amici.
Magari poi succede che, proprio durante le ferie, si lavori il doppio perché in casa ci sono gli operai, si rompe il condizionatore, ci sono gli ultimi cartoni del trasloco da svuotare, le valigie da riempire, il frigo da sbrinare e le lavatrici da azionare.
In qualsiasi modo si decida di spenderle, aspettiamo le ferie come un traguardo e le desideriamo con tutte le nostre forze.
Sono il diversivo, l’ignoto.
Le ultime settimane prima di andar via sembrano durare il doppio.
Ci tiriamo via dal letto a fatica e beviamo tripla razione di caffè per non cedere alla voglia di scappare.
Le ferie, lette in senso metaforico però, non riguardano solo il lavoro. Non riguardano, cioè, solo chi ha la fortuna di possederne uno.
Le ferie sono anche una metafora: metafora potente e vivida del distacco e del ritorno.
Quando varchiamo la soglia, di qualsiasi luogo, quando abbandoniamo le pareti che hanno ascoltato le nostre battute più stupide insieme alle nostre idee più brillanti, quando dietro di noi lasciamo una porta chiusa e gli abbracci dei colleghi o degli amici che ci augurano buone vacanze o buon viaggio (qualunque esso sia), qualcosa di strano avviene in noi.
Si tratta di una sensazione inspiegabile che a volte facciamo fatica ad ammettere.
La routine, che dal di dentro ci sembra insopportabile, ci appare in quel momento come un’ammiccante certezza che stiamo per abbandonare.
Anche se passeremo l’incerto alle Maldive o alle Seychelles oppure, al contrario, lo spenderemo alle prese con obblighi familiari che ci stanno stretti, la sensazione che precede le ferie è più o meno la stessa: un fugace senso di smarrimento che ci fa apprezzare i luoghi della quotidianità.
Le pareti che vediamo ogni giorno diventano una seconda pelle, la nostra casa, il posto in cui passiamo la maggior parte della vita (o un breve periodo di essa).
Può trattarsi di un vero e proprio dispiacere distaccarsene, anche solo momentaneamente. E la sensazione non riguarda solo il distacco dai luoghi, ma anche dalle persone, dalle situazioni, da una quotidianità che sembra appartenerci ormai profondamente. Paradossale, no?
Paradossale perché tutti aspiriamo a una spiaggia, al mare, alla montagna o anche solo al divano di casa. Aspiriamo al riposo, ma aspiriamo anche a cambiare la nostra vita, a trasformarla in un’esperienza di scoperta costante in cui nulla sia dato per scontato.
Meraviglioso essere in vacanza, meraviglioso cambiare la propria vita, ma lo diventa appena dopo quell’istante in cui chiudiamo la porta alle nostre spalle.
I luoghi che lasciamo rappresentano ciò che siamo, i nostri sogni, le rinunce, le incomprensioni, le risate, gli aneddoti, le battaglie vinte e quelle perse, le pause caffè, le battute al bar, i volti assonnati di chi incontriamo lungo il tragitto.
Non apprezziamo realmente il quotidiano finché non ce ne distacchiamo e magari l’attesa delle ferie è essa stessa le ferie (parafrasando la frase di Gotthold Ephraim Lessing, secondo il quale L’attesa del piacere è essa stessa il piacere).
Frase fatta? Prevedibile come tutto quello che ci accade nello schema della routine, ma c’è sempre qualcosa che sfugge al nostro controllo.
Le vacanze estive, come ogni mutamento definitivo o distacco momentaneo, hanno in sé un po’ di saudade che le rende magiche e, per questo, così bramate.
Ci sembrano importanti perché fanno da spartiacque tra la versione di noi stessi alla quale siamo abituati e la parte di noi che vorremmo ancora scoprire e sperimentare.
Non a caso riponiamo mille speranze su ciò che faremo in vacanza, sui posti che visiteremo, sulle persone che incontreremo, sui progetti per il futuro.
Non so se sia possibile non provare questa sensazione di smarrimento quando qualcosa finisce, quando ci distacchiamo da un luogo o da un tempo della nostra vita.
Oltre all’attesa dello stipendio, oltre ai mutui e alle bollette da pagare, esiste una vocina dentro di noi che ci fa vedere nel lavoro e in ogni strada che percorriamo anche una fonte di possibilità e opportunità, un motivo di riscatto e soddisfazione.
Non siamo solo numeri in busta paga, anche quando vogliono farcelo credere, e il lavoro non è soltanto uno strumento di sopravvivenza.
Ci stiamo abituando a credere che il lavoro sia un privilegio anziché un diritto e, in virtù di questa teoria, ci stiamo convincendo che lavorare duramente sia il più grande dei doni che possiamo ricevere. A volte ci anestetizziamo con l’idea che accettare qualsiasi condizione lavorativa sia la strada migliore, l’unica percorribile.
Non dobbiamo però dimenticare che al centro di ogni nostra attività dev’esserci dignità: dignità per fare bene il nostro lavoro, per vivere in maniera piena ogni esperienza, per donare al nostro mondo e alla nostra società il prodotto delle nostre mani e del nostro ingegno.
Anche se dovessimo continuare a dirci che vivremo solo per lavorare e per pagare ciò che ci serve a sopravvivere, auspichiamoci di non dimenticare che nel nostro lavoro portiamo una parte di noi e che la nostra professione non rappresenta solo una check-list di compiti da svolgere.
Può diventare relazione, scambio, umanità, gioco, complicità, conoscenza di sé e degli altri.
Non siamo il lavoro che svolgiamo, è il lavoro ad essere plasmato attraverso ciò che siamo.
Tra quelle mura quotidiane lasciamo una parte di noi.
Tra quelle mura, sia che si tratti di un luogo fisico o di un posto metaforico della vita, lasciamo parole, idee, speranze e ci nutriamo di parole, idee e altrettante speranze.
SPAZIO
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Laura Ressa
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