
Stefania Zolotti è Direttore Responsabile di Senza Filtro, quindicinale online nato con l’obiettivo di parlare di lavoro e di persone che lavorano.
Sono entrata in connessione con Stefania perché ne apprezzo lo stile di scrittura e perché gli argomenti che tratta, su Senza Filtro e sul suo blog, combaciano con i temi a me cari e soddisfano il piacere di leggere quelle suggestioni in grado di declinarsi e calarsi nelle esperienze di ognuno di noi.
Partendo dai suoi editoriali e passando per le esperienze professionali di cui ha spesso raccontato nei suoi articoli, ho cercato di avvicinarmi al suo modo di interpretare il lavoro. Ma non solo. Insieme abbiamo toccato il tema della selettività, delle scorie, della cura del tempo. Servendomi di domande, quel mezzo potente che apre nuove scoperte, ho cercato di tracciare un percorso insieme a Stefania.
Un percorso fatto di parole e costruito su di esse.

Quella che segue è la mia intervista a Stefania Zolotti. Ma, come ogni intervista, è soprattutto la costruzione derivante da un incontro. Le parole si costruiscono insieme: come gli incontri, appunto, come le esperienze, come le case.
Perché uso il verbo costruire? Perché per me ogni incontro è una costruzione, un agglomerato di mattoni, incastrati in un certo modo, che concorrono a formare la struttura e, poi, il contenuto di ciò che viviamo, di quello che pensiamo, di ciò che scegliamo di condividere con gli altri.
Un percorso che muove dalla volontà di comprendere fino in fondo che ognuno di noi ha una storia da raccontare. Nessuno escluso.
1) Posto fisso, ti lascio. Anche se fuori piove è il titolo di un tuo post su LinkedIn. Una riflessione che parla anche di confini e di quelle fasi della vita in cui, in modo proverbiale, si lascia la via vecchia per la nuova.
Cito alcune tue parole: “Dai miei 33 anni ai 43, anche grazie a quegli uffici sono diventata la donna che sono. Se c’è una certezza che mi si è fatta pelle, è che la vita porta con sé cicli che vanno inesorabilmente chiusi al tempo giusto, quando lo scambio finisce: a quel punto, o si riparte in due o è meglio lasciare.
Vale per le professioni, per gli amori, per gli amici. […]
È uno status mentale il posto fisso, un modello bastardo, italiano dalla testa ai piedi, intriso di inerzia e della logica “per sempre”. Socialmente ti fanno sentire talmente fortunata ad avere quel posto che guai a pensare di lasciarlo; a volte mi sono persino vergognata con me stessa. Tutto è relativo, niente assoluto. Ti spacca in due il posto fisso, quando ci siedi sopra.”
Cos’è scattato in te quando la certezza di ciò che avevi imparato nel tempo si è fatta pelle e hai capito che era arrivato il momento di intraprendere una nuova strada?
< Le certezze sono un concetto che non vive mai di assoluto, per natura sono del tutto relative. Ci pensa il tempo a renderle assolute fase per fase della nostra vita, il segreto sta in questo: fin dove è possibile, cercare di far parlare il dentro col fuori (di noi) e fare scelte che siano coerenti con ciò che siamo in quel momento, ciò che siamo appunto in quel preciso ciclo della vita. Siamo in continua trasformazione e ho sempre trovato insensato il pensiero di chi cerca ad ogni costo di non lasciare il lavoro che ha. Come si può pensare di vivere una vita facendo lo stesso lavoro mentre noi inevitabilmente diventiamo altri? Sia chiaro, il mio è un discorso che ha senso nella misura in cui la persona non abbia oggettive difficoltà o impossibilità di cambiamento. >
2) Le persone in azienda seguono un percorso di crescita che procede per prove ed errori. Secondo te cosa insegna l’esperienza professionale a livello umano e relazionale?
< I rapporti in azienda sono stati inariditi dalle aziende stesse che, nella maggior parte dei casi, hanno impostato buona parte dei risultati su un piano numerico, economico, finanziario. Un buon risultato è invece accorgersi che nelle aziende le relazioni sono oneste – nel bene e nel male – e che, pur nel rispetto dei diversi ruoli, la consapevolezza del proprio peso contribuisce come ogni altro a tenere in piedi la baracca. Non credo invece nell’idea che gli stimoli debbano sempre arrivare dall’alto, cioè da un capo o da un superiore. Tutti abbiamo il dovere di essere costruttivi. E poi passiamo talmente tanto tempo al lavoro che il lavoro stesso finisce per somigliare alle prove generali di ciò che siamo nella vita fuori di lì. Quindi vale la pena allenarsi bene. >
3) Nel tuo editoriale di Senza Filtro intitolato Di resistenza affermi: “Essere selettivi non è snob, non è egocentrico, non ci rende brutti agli occhi degli altri. Essere selettivi ci salva, è la resistenza più pura. Selezionare cosa o chi far sopravvivere del nostro ambiente è la migliore dichiarazione d’intenti che potremmo consegnare al nostro baricentro. Lavorando selezioniamo ogni giorno, senza accorgercene scegliamo se accettare oppure no: progetti, colleghi, relazioni, aziende, capi, rispetto, strumenti, parole, silenzi. Ciò che lasciamo di non necessario, o peggio di deleterio, alla fine si fa scoria e non è poi sempre facile produrci gli anticorpi da dentro.”
Quando sei stata selettiva sul lavoro e quali ricadute questa selettività ha avuto nella tua vita privata?
Ti è capitato di depositare scorie per le quali non avevi ancora sviluppato gli anticorpi?
< Si impara a non temere più il giudizio degli altri prima di diventare selettivi, l’uno senza l’altro non funziona. Quello che chiamiamo “invecchiare” in realtà è prendere coscienza di noi stessi, coi segni che di sicuro si porta dietro. La prima volta in cui sono stata selettiva nel lavoro – l’ho capito negli anni – è stato quando con la mia laurea in giurisprudenza ho scelto di non percorrere quella strada: non era mia nel modello di lavoro, non era mia per attitudine, non lo era nemmeno per interessi. Scelsi però di non buttare via tutto (mai farlo) e appena laureata inviai molti CV agli uffici legali di grandi associazioni di consumatori in giro per l’Italia. Volevo mettere a frutto ciò che avevo studiato ma come forma di servizio più che come forma di profitto. Mi rispose Altroconsumo dalla sua sede di Bolzano dove lavorai per un anno scarso mentre frequentavo un master in diritto europeo a Trento e da dove poi mi spostarono a Milano nella sede centrale. Passarono così quasi due anni, dal 2001 al 2003. Per me quello fu l’inizio della fiducia in me stessa e della voglia di tracciarmi una strada che rispettasse chi ero e cosa desideravo. Allora sì che capisci che niente è definito e che ogni percorso ha mille strade. Le scorie ci sono sempre, è fisiologico e sano. Vuol dire che hai prodotto qualcosa ed è bene saperlo, ma poi devi darti da fare per trovare i tuoi meccanismi di ripulitura interna. >
4) Si parla spesso della figura femminile per sottolineare, anche forzatamente, le qualità professionali di chi appartiene alla categoria. Così facendo si perde però di vista che un eccessivo rimarcare tali doti può diventare deleterio, se non addirittura retorico. Secondo me le donne non hanno bisogno di ricordare quotidianamente al mondo che esistono e che meritano rispetto. Non hanno bisogno di trasformarsi in slogan di se stesse o in costanti promotrici della parità di genere, che dovrebbe essere invece scontata e lapalissiana.
Si arriva a contestare qualsiasi spot e qualsiasi cartellone pubblicitario ma quando sono per lo più le donne a parlare di rivalsa del corpo e della mente delle donne, non sempre nel modo giusto, la battaglia per la rivincita femminile stride ancor di più.
Cosa pensi dell’attenzione rivolta alle donne imprenditrici e, più in generale, al tema della rivincita di genere?
Mi piacerebbe conoscere il tuo punto di vista.
< Sono del tutto in linea con ciò che hai sottolineato.
Ogni volta che leggo “bisogna superare le differenze di genere” penso sempre a come si stiano rimarcando quelle differenze che di fatto non esistono perché sono su piani diversi.
Uomini e donne sono complementari, non diversi.
Le donne mediamente hanno da sempre meno fiducia in sé, si fanno più domande, portano addosso un peso socio-culturale molto gravoso.
Come dice Umberto Galimberti, che tanto ascolto e seguo, “l’uomo è uno e la donna è due“.
Ci tiene però a sottolineare che questo non è un giudizio di merito: semplicemente la donna vive di relazione e non pensa mai solo a se stessa ma anche ad un altro fuori di sé, l’uomo è più riferito a se stesso.
Ne faremmo forse anche a meno ma è nella nostra natura e nel lavoro questa caratteristica dovrebbe essere una risorsa aggiunta: è per questo che dovremmo lottare e non solo per avere gli stessi stipendi o gli stessi ruoli degli uomini nei CdA aziendali.
Se ci facessero esprimere questo potenziale al lavoro, saremmo davvero più integre e il sistema sarebbe meno arido. >
5) Team building: ovvero come far credere ai dipendenti che l’azienda sia una famiglia. Su Senza Filtro ne ha parlato Agostino Cielo nell’articolo intitolato L’azienda non è una famiglia e pagina99 qualche mese fa ha trattato l’argomento in un ampio reportage.
Cito una frase tratta dal primo articolo menzionato: “In azienda l’obiettivo principale è il profitto. In famiglia è l’appartenenza, il riconoscimento affettivo”.
Secondo te in cosa consiste il sano team building e cosa ne pensi dell’impegno profuso da alcune aziende per far percepire il luogo di lavoro come una famiglia?
< Nessun team building è credibile se mancano questi due aspetti: il primo è che anche i “capi” devono parteciparvi; il secondo è che tutto ciò che si mette in campo durante un team building deve avere poi una coerenza di applicazione nella vita lavorativa quotidiana. Se ciò non avviene, vuol dire che l’azienda ha buttato soldi e credibilità agli occhi dei suoi collaboratori. >
6) Tra gli argomenti non ancora trattati, quale vorresti affrontare su Senza Filtro e qual è l’intervista che sogni di fare?
< Dopo tre anni di lavoro di redazione serrato, il nostro 2018 è stato l’anno del debutto in società per Senza Filtro con il festival sulla cultura del lavoro che abbiamo organizzato a Bologna a fine marzo scorso: il primo in Italia.
Lo abbiamo chiamato “Nobìlita” e siamo stati ospiti dello splendido Opificio Golinelli.
L’eco che ancora risuona di quel festival dopo tre mesi sta a significare che i 40 relatori sul palco e le 350 persone presenti nelle due giornate – di cui 160 giornalisti – avevano bisogno di uno spazio e di un tempo in cui sentirsi vicini, intorno a una cultura del lavoro ancora troppo assente in Italia.

Il messaggio portante di questa prima edizione è stato “Restituire il lavoro alle persone” e siamo orgogliosi di aver dato il massimo per sottolinearlo.
Ci aspetta ora una seconda metà dell’anno in cui fare tesoro di ogni aspetto e già a fine giugno faremo un altro passo avanti con la messa online del nuovo sito di Senza Filtro: finalmente spazio all’attualità e ai reportage, senza però mai tradire lo spirito di approfondimento e il formato lungo dei nostri articoli.
Vogliamo raccogliere intorno ad un’informazione pulita e concreta il tempo di lettura di chi ci segue. Non è vero che il tempo manca, manca la cura del tempo.
L’intervista dei sogni? Io subisco molto il fascino di chi non è più giovane e col lavoro mette ancora la propria mente al servizio di una qualsiasi forma di cultura. L’Italia ne è piena ma purtroppo si parla solo di giovani. >
Nelle ultime righe di questa intervista Stefania parla di cura del tempo e io non posso non pensare a un album di Niccolò Fabi che si intitola proprio La cura del tempo.
Voglio quindi chiudere l’intervista rimarcando il suo tema portante che è, l’ho scoperto solo alla fine, il tempo. Il tempo che spendiamo al lavoro, il tempo per crescere, il tempo per imparare a convivere con le nostre scorie e per ripulire, il tempo necessario per portare avanti progetti ambiziosi, il tempo per coltivare una rete di relazioni umane, il tempo per scrivere, il tempo da investire nella realizzazione di un progetto personale.
Il tempo è un dono, con la sua forza pervade ogni cosa che facciamo ed esige la voglia di coltivarlo e di affrontarne la scansione costante. Richiede soprattutto le nostre cure.
In quell’album di Niccolò Fabi c’è una canzone che mi è rimasta nella mente e nelle orecchie e che risuona in me ogni volta che mi avvicino a una storia appassionata in cui il tempo è il protagonista principale. L’incontro con le persone è anche un risuonare di note e di parole che crediamo lontane e che, invece, sono vicinissime.
È la cura del tempo
È una grande possibilità
Non è una sfida
Non è una rivalsa
Non è la finzione di essere meglio
Non è la vittoria l’applauso del mondo
di ciò che succede il senso profondo
È il filo di un aquilone
un equilibrio sottile
non è cosa ma è come
È una questione di stile
non è di molti né pochi
ma solo di alcuni
È una conquista una necessità
Non è per missione
ma nemmeno per gioco
Non è “che t’importa”
Non è “tanto è uguale”
Non è invecchiare cambiando canale
Non è un dovere dovere invecchiare
(È non è, Niccolò Fabi)

Laura Ressa
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