Nati imparati.
È questa la definizione che spesso viene affibbiata a chi pensa di esser nato con la camicia o di aver capito subito come gira il mondo del lavoro.
Niccolò Copernico disse che la Terra gira intorno al Sole e in qualche modo anche Jimmy Fontana ha riproposto la stessa teoria.
Altri, meno noti di loro, sono davvero convinti di sapere come gira il mondo anche quando hanno poca esperienza del mondo stesso.
Negli ultimi anni ho visto moltiplicarsi il numero di corsi e master per diventare manager, scarseggiano però quelli in cui si insegna a capire dagli altri, a sospendere il giudizio ma soprattutto ad ascoltare. L’ascolto è la principale capacità da sviluppare se si vuole diventare leader. Ma magari oggi si è più avvezzi a voler diventare manager anziché leader.
Da qualche osservazione naturalistica, mi sono accorta che sta crescendo silente una piccola generazione di nati imparati e di ragazzi poco più che trentenni che si autodefiniscono innovatori senza comprendere né il termine Innovazione né il termine Lavoro. Non rappresentano un campione statisticamente significativo della “gioventù moderna” (così come la definiscono certi vecchi antichi) e ovviamente non è possibile parlare per categorie. Ma proverò a ragionar di questo piccolo sotto-gruppo di benpensanti, che già ragionano come gli adulti del vecchio boom economico forse perché figli di “chi ce l’ha fatta”. Sì, ma a far cosa?


Partiamo da una certezza. Spesso l’immagine professionale che ci cuciamo addosso passa dai profili social: LinkedIn, Twitter, passando per Facebook (anche se lì va più di moda il gossip personale).
Innegabile che siano questi i canali che utilizziamo per parlare di noi, per far emergere chi siamo, a volte anche per trovare lavoro. O almeno così ci illudiamo che funzioni ma spesso sbagliamo nell’utilizzo del mezzo perché usare i social per trovare lavoro non vuol dire racimolare una manciata di click o di mi piace.
Anziché parlare per assolutismi e categorie, parlerò quindi di casi reali e di profili social nei quali sono incappata negli ultimi anni. Casi che potrebbero essere isolati, oppure rappresentare un fenomeno più vasto ma di una portata che non saprei quantificare.

Ho sempre pensato che la strada per usare i social network in maniera coerente fosse quella della verità, della autenticità, del merito, della capacità.
Online possiamo quindi portare la nostra verità e quel che siamo, ma questo non vuol dire per forza proporre un surrogato imbellettato di noi stessi.
Possiamo avviare il dialogo proponendo contenuti che vengano postati per confrontarsi, e non solo per hashtaggare su un argomento o taggare persone e aziende dei nostri sogni.
Costruire la propria Web Reputation vuol dire avere qualcosa da dire, condividere contenuti che abbiano un senso per noi o una utilità per chi li legge, e che quindi non stiano solo lì a riempire un vuoto sostanziale.
Vedo invece ancora persone convinte del contrario, persone che delegano la cura dei propri contenuti social a parenti, amici, congiunti o fidanzate/fidanzati, ad esempio. Persino l’invio di candidature e CV può avvenire per delega, e chi delega spesso non è nemmeno aggiornato sulle posizioni per le quali si sta candidando.

C’è poi chi utilizza i profili social per esaltare ogni piccola cosa che fa come se fosse tutto un sacrificio e una conquista ottenuta con enorme fatica. Se hai ottenuto con enorme fatica le briciole e le sottolinei con sfoggio di vanto, ci si chiede che concezione tu abbia del lavoro (oltre che della fatica).
Sembra quasi che fare personal branding significhi sempre vantarsi, con spudorata falsa umiltà, di traguardi con cui sudore e sacrificio fanno poca rima.
Ho imparato con l’esperienza che la parola “sacrificio” abbonda sulla bocca di chi non ha dovuto mai affrontare reali sacrifici nella propria vita. E questo naturalmente è un approccio che si ripercuote su ogni campo: da quello personale a quello professionale.
Mi è capitato, ad esempio, di incappare in profili LinkedIn la cui descrizione riassuntiva somiglia a una lista della spesa: una somma di competenze messe lì in fila senza criterio e derivanti da un mini-corso o da una formazione di qualche mese, ma di cui non ci sono riscontri nell’esperienza professionale della persona che le millanta.

Ci tengo a precisare che pure io di errori in passato ne ho fatti. E potrei farne ancora.
L’episodio in cui ho peccato di presunzione, dettata dalla fretta di scrivere una relazione di fine tirocinio, si è verificato quella volta che copia/incollai nella mia relazione buona parte delle attività contenute nella relazione di tirocinio che una collega mi aveva prestato.
Chi la lesse mi fece capire, poco carinamente, che non avevo fatto tutte quelle cose e che avevo preso largo spunto dalla relazione dell’altra tirocinante.
Ammisi la mia grandissima colpa, riscrissi la relazione.
Dopo quella volta ho imparato molto bene quanto conti la verità, quanto le persone possano carinamente umiliarti (anche di fronte ad altri) se sgarri un pochino anche durante un tirocinio. Ho imparato, senza che un corso me lo insegnasse, quanto conti sapere quel che si sa fare, senza spacciare per proprie tutte le altre competenze che non ci appartengono.

Da allora ho imparato purtroppo anche a deprezzarmi molto. E questo è un rischio che nella vita devi sapere come affrontare, perché io quelle spalle curve me le porto addosso come un patrimonio personale pesante che ancora non riesco a scrollarmi di dosso.
Ma questa è un’altra storia.

Tornando al dorato mondo dei nati imparati, qui e là ho letto su LinkedIn persino profili in cui campeggiava come attuale il ruolo ricoperto in una precedente esperienza di lavoro, ormai terminata da tempo, e altri profili il cui riepilogo riportava l’indicazione “Specialist” laddove l’esperienza era assente e la presunta super competenza derivava da un tirocinio, da un corso o da brevi esperienze di tirocinio/lavoro che non riguardavano l’ambito per il quale la persona si definiva Specialist.
In quei casi mi è sembrato di rivedere la puntata di una serie TV in cui uno dei personaggi diceva di essere diventato prete per corrispondenza con un corso della rivista Rolling Stone.

Definirsi Specialist e Innovator dovrebbe essere vietato a chi ha meno di 10 anni di esperienza in un settore.
Se ripartissimo dalla semplicità, capiremmo che chi ci conosce sul campo (per lavoro o al di fuori) riesce benissimo a capire se le competenze che millantiamo sui social le possediamo o le stiamo solo spacciando per vere.
La figura che ne consegue è quella di un/una idiota. In generale di una persona che ha poca conoscenza di sé o pensa di “fregare” le aziende e i recruiter con frasi a effetto.
Ho letto alcuni articoli sul tema e mi piacerebbe utilizzare tali spunti per fare in modo che questo mio post non sia una mera “invettiva” contro i comportamenti social incoerenti.
A chiunque potrebbe capitare di cedere alla tentazione di vendere un’immagine falsata di sé, e non ne faccio una questione di età ma di consapevolezza e di intelligenza.
Non sono nessuno per dire cosa sia giusto o sbagliato, quindi propongo articoli scritti da professionisti che sono stati capaci di scandagliare bene l’argomento.

Matteo Pascoletti, in un articolo su Valigia Blu, parla dei titoli scorretti e delle notizie rimaneggiate a uso e abuso di giornalisti che vogliono mostrare la faccia lamentosa dei giovani.
[…] Ci si butta a braccia aperte nella lamentazione sullo stato presente di costumi dei giovani italiani sfaticati, di solito laureati in facoltà umanistiche” (fonte: http://www.valigiablu.it/lavoro-giovani-disoccupazione/
Licenza cc-by-nc-nd valigiablu.it)

Qualche tempo fa ho chiesto a un recruiter un parere sul modo in cui alcuni giovani si affacciano al mondo del lavoro. Da quella domanda è nata una breve conversazione sull’eccesso di auto-celebrazione e auto-promozione, ostentata proprio nella affannosa ricerca di like più che di lavoro.
Il lavoro non è una questione di like su Facebook, specialmente se ottenuti millantando competenze al termine di un percorso formativo. Gli unici che ci guadagnano da questa propaganda a suon di like sono, evidentemente, le scuole di formazione che invogliano i giovani a farsi promozione in questo modo.
Su questo il selezionatore fu lapidario nel rispondermi:
Non sanno niente del mondo del lavoro e si atteggiano a grandi esperti. Criticano, commentano, si auto-referenziano gli uni con gli altri e si stanno chiudendo delle porte in faccia da soli.
Non c’è più nessuno che commenta fuori dal coro, la ricerca costante a far parte del gregge è una consuetudine. Questo sta generando sempre meno individui.

La questione per me però non è così netta e comunque riguarda solo una parte degli utenti social. La riflessione non può ridursi a uno scambio di accuse tra imprenditori vetusti self-made men e disoccupati insoddisfatti.


Difficoltà di inserimento e luoghi comuni sono colori che tratteggiano lo stesso dipinto.

Nell’articolo di Monia Orazi Forever Young: difficoltà e luoghi comuni di chi cerca il primo lavoro viene citata una ricerca di Except per tracciare lo status quo di una generazione di lavoratori che stenta a decollare.

[…] Coloro che hanno appena terminato gli studi hanno più difficoltà di accesso al mercato del lavoro e rischiano più della forza lavoro primaria (30-59 anni) di diventare disoccupati o di ingrossare le fila dei Neet, coloro che non studiano e non lavorano, per cui l’Italia ha un triste primato in Europa. A stabilirlo è il primo report del progetto europeo Except.

[…] Più che bamboccioni, i giovani in Italia – un paese con difficoltà di inserimento giovanile nel mercato del lavoro da una parte e scarse politiche attive e passive del lavoro – adottano strategie di coping individuali o familiari, tra le quali utilizzare la protezione della famiglia di origine, fino a quando non si trova un lavoro adeguato in termini di stabilità e di contenuti – evidenzia la Bartolini. […]

Cosa accade nelle aziende?
Come si traduce l’importanza delle risorse umane in questi contesti?

Franco Ghiringhelli ne parla nell’articolo Le risorse umane hanno abdicato? esaminando il ruolo delle risorse umane e ponendo l’accento sulla capacità di riconoscere gli errori e di farsi promotori del cambiamento.

[…] Occorre distinguere l’errore dal fallimento: commettere errori è fondamentale per essere resilienti. Sarebbe pertanto opportuno riuscire a veicolare in tale direzione la mentalità delle aziende eccessivamente orientate verso l’ idolatria dell’efficientismo. […]
Mi domando infine se la causa di questa crisi del capitale umano non possa essere ricercata anche nel fatto che, negli ultimi vent’anni, si è puntato troppo e, solo, su efficientismo e ristrutturazioni. […]

Stiamo convincendo i giovani che dare di sé l’immagine di una persona di successo sia la strada migliore da seguire?
Come si dimostra di possedere competenza? Quale esempio danno i manager?
A questa domanda Osvaldo Danzi ha risposto nell’articolo Manager come camerieri. Di schiena.

[…] Da un po’ di tempo, interagendo con manager e imprenditori mi sembra di essere in uno di quei bar o ristoranti, dove i camerieri sono tutti di schiena. Di schiena alle proposte, di schiena alla motivazione, di schiena alla partecipazione, di schiena alla creatività.
Si allungano i tempi di risposta, le capacità decisionali, la voglia di creare percorsi. Nessuna voglia di mettersi in gioco, la curiosità sembra una qualità terminata.

Nella ricerca di personale, i candidati sono di schiena. E non parlo di neolaureati, ma di manager che devono ricollocarsi.
Mi scrive un dirigente in risposta a un’offerta di lavoro (Project Director per un’azienda di interior design – costruzioni) che ho pubblicato qualche giorno fa:
Sono un dinamico e concreto dirigente “decisamente interessato” all’annuncio pubblicato per l’aderenza alla mia expertise, peraltro la gestione delle vendite e lo sviluppo d’impresa rappresentano delle skill acquisite nell’ambito della mia appassionata vita professionale.[…]

Segue curriculum: Nessuna esperienza nel settore delle costruzioni, un’esperienza di amministratore delegato senza alcun progetto direttamente gestito/coordinato. Un profilo totalmente disallineato. Nonostante le due lauree il candidato ha usato la tecnica del “tentar non nuoce” tipica di qualsiasi neolaureato alle prime armi.
Di schiena alla realtà. […]

Dare le spalle alla realtà significa non accorgersi dell’evoluzione del mercato.
Lo afferma Marianna Gianna Ferrenti in Laureati, inseguite il mercato e non solo i sogni.

[…] I giovani laureati iniziano a cambiare mentalità. I dati estratti dal Rapporto Giovani degli ultimi anni, infatti, rivelano che la maggior parte dei ragazzi hanno la percezione che le opportunità lavorative siano scarse o limitate.
Secondo i sondaggi, l’80% degli intervistati dichiara di essere disposto a svolgere un lavoro manuale, ma 3 su 4 vorrebbero un’attività che permettesse di esprimere la loro creatività. Esiste, però, un retaggio culturale da cui i ragazzi difficilmente riescono ad uscire: quello di dover sempre e comunque inseguire i propri sogni, anche quando questi siano difficilmente compatibili con il ventaglio dell’offerta professionale.

Tra i profili più richiesti vi è anche quello di saldatore, di operaio specializzato nel settore metalmeccanico e metallurgico, i cui salari aumentano in base alle competenze e alle esperienze acquisite in un determinato settore. Di contro, vi è un sovraccarico della domanda in scienze umanistiche, dove non esiste un reale sbocco professionale. […]

Il problema è nella scelta del proprio futuro?
Lì dove si costruisce, tassello dopo tassello, una scala di valori professionali utile per acquisire competenze che non siano vere solo sui social o solo grazie ai like di qualche amico e parente.
Il rischio sarebbe quello di rendere la realtà sempre più connotata per luoghi comuni.


Per citare ancora il parere del recruiter: Non c’è più nessuno che commenta fuori dal coro, la ricerca costante a far parte del gregge è una consuetudine. Questo sta generando sempre meno individui.

Osvaldo Danzi qualche tempo fa ha pubblicato questo post su LinkedIn:

osvaldo danzi giovani professionisti


Il gregge dunque siamo noi ogni volta che accettiamo di uniformarci
 a una prassi sbagliata, ogni volta che pensiamo basti una manciata di like o di condivisioni e commenti benevoli (di chi già ci vuole bene) per fare di noi professionisti riconosciuti e competenti. Il riconoscimento arriva dopo anni e non dobbiamo aver paura di spendere quegli anni a provare e a riprovare ancora.
Non si lavora per essere qualcuno o parlare della propria posizione a cena, per appartenere a una cerchia di eletti o credersi arrivati.
Si lavora perché si deve, perché si può, per essere utili alla società, o molto semplicemente per pagare il mutuo. Si lavora per crescere, anche, e Dio solo sa quanto sia difficile oggi parlare di lavoro senza frasi fatte o luoghi comuni.
Ma vale la pena sforzarsi di farlo.

Concludo questa rassegna con alcune considerazioni di Osvaldo Danzi contenute nell’articolo È più facile fare il FoodBlogger che andare a lavorare.

[…] A noi risultano due fenomeni professionali realmente emergenti: da una parte un generico disinteresse da parte di aziende tradizionali (PMI in testa) ai temi del digitale o un tiepido approccio attraverso consulenti e società di comunicazione a tutto tondo.
Dall’altra, l’emergere di figure non-professionali (nel senso tecnico del termine, ovvero senza un background scolastico – per fare gli ingegneri bisogna quantomeno aver studiato ingegneria – e senza una  esperienza aziendale) che si propongono come consulenti, docenti, strateghi sui temi legati al digitale, di fatto creando o guidando una corrente di pensiero estremamente autoreferenziale che ha come unico lead la visibilità: “più appari più sei esperto”. […]

La prima impressione, guardando questa ricerca (immediata e decisamente spannometrica, si intende) è che o non serve avere esperienza aziendale per fare consulenza aziendale oppure che questi mestieri li sta guidando chi, molto più prosaicamente, non trovando una soluzione lavorativa a tempo indeterminato ha deciso di inventarsi un lavoro infiltrandosi in una nicchia di mercato […].

Aziendalmente a mio avviso questo fenomeno ha le sue controindicazioni poiché, oltre ad una evidente carenza di competenze legate al target dei clienti (le imprese), è manifesta anche una carenza legata al tema specifico di cui si parla. Non a caso i blogger e gli influencer si sono tutti concentrati su cibo, vino, moda e turismo: sono temi in cui in Italia è particolarmente facile avere una cultura di base (nel caso chiedo a nonna) e discettare in maniera più o meno credibile è alla portata (quasi) di tutti. […]

Ci sono moltissime persone valide, giovani e meno giovani, con competenze reali e dedizione da vendere.
Spesso sono quelle che ostentano meno e che credono di saperne meno degli altri. Sono quelle con non si appiccicano addosso etichette vuote, che non elemosinano riconoscimenti, endorsement e like. Sono quelle che sanno che il lavoro non si ottiene con una bella posa a braccia conserte o un nuovo fondotinta.
Sono quelle che vogliono sempre imparare qualcosa di nuovo, ma non per ripeterlo a pappagallo, per stampare un altro attestato o aggiungere una competenza finta al loro portfolio.

Conviene puntare su chi è cosciente e onesto circa il proprio valore piuttosto che puntare su chi vende fumo senza arrosto.
Ma questo i recruiter già lo sanno meglio di me, e osservano certi comportamenti in silenzio. A volte ridendo.

Dunque, giovani o adulti che usate i social e le persone come un palcoscenico di finzioni, non abbiate la presunzione di mostrarvi sempre per quel che non siete. Arriva il momento in cui vi daranno credito solo quelle due o tre persone che hanno capito come siete davvero e che, per comodità, decideranno di far finta di nulla.
Il resto del mondo invece, quel mondo che pensate di conoscere come le vostre tasche, vi individuerà a miglia di distanza. E vi eviterà.

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Photo by Austin Distel on Unsplash

 

Laura Ressa

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Copertina: Pixabay

Scritto da:

Laura Ressa

Classe 1986 🌻 Digital Marketing Specialist & Web Writer 🌻 Frasivolanti