

Valentina Vellucci è Responsabile Comunicazione e Associated Partner di Magilla.
Di sé scrive “mi piace il tempo libero, ambisco alla noia.
Vorrei andare al cinema più spesso.
Vorrei avere tempo di leggere.
Alcune volte vorrei tempo e basta.
Più che “chi sono” in essere è un “chi sono” in potenza.
Vedremo quanto di questo “chi sono” in potenza riuscirò davvero a sviluppare.”
E sul suo profilo LinkedIn scrive “sono totalmente contraria ai protagonismi e totalmente a favore di una divulgazione concreta sull’integrazione on line e off line marketing. Diffido di chi legge solo libri di marketing.”
Quello qui di seguito è un estratto dell’intervista live del 31 Maggio 2021
Perché intervistare Valentina Vellucci?
Perché ama i gatti e gli unicorni come me, ma non solo ovviamente.
Prima di tutto perché è una professionista seria con quel piglio di ironia che ti salva. La pensa come me su tanti argomenti, e confrontarsi è stato bello non perché volessi crogiolarmi nella mia bolla.
Chi fa il mestiere del marketer non sempre è ciò che sembra, Valentina è diversa: non ha peli sulla lingua per davvero e la sua sincerità è una nota sempre intonata tra le cose che dice. Nulla stona nel tutto.
E questa dote innata è tipica delle persone limpide di cui abbiamo tanto bisogno in una società sempre più di false apparenze normalizzate.
ECCO LE MIE DOMANDE E GLI INCIPIT DELLE RISPOSTE DI valentina… PER FARVI VENIRE L’ACQUOLINA E ASCOLTARE L’INTERVISTA INTEGRALE che troverete più sotto
1) Cominciamo con la tua professione se ti va. Cosa vuol dire per te essere Responsabile Comunicazione e quindi come unisci l’idea di responsabilità nel comunicare?
V:
C’è una responsabilità nei confronti dei clienti, dei dipendenti, dell’azienda di cui si è parte e del pubblico.
Soddisfare tutti è impossibile e bisogna fare delle scelte. […] Il filo rosso è il confine oltre cui non andare, essere responsabile per me è dire “io questo non lo passo”. Inutile dire bugie, abbiamo poco tempo per memorizzarle. […]
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2) In privato qualche giorno fa mi hai scritto “Sono per la condivisione dei profili di chi le idee le ha avute”. Un’idea che abbraccio totalmente perché credo nel merito e nel riconoscimento di esso alle persone giuste. Cos’è per te la meritocrazia nella realtà? Cosa dovrebbe essere in un mondo ideale?
V:
Sì, penso sia giusto dare atto del fatto che qualcuno abbia avuto un’idea. Io penso che non c’è nulla di male nel seguire le idee di altri e dargliene atto.
Utilizzare formule ambigue tipo “abbiamo fatto” non ha senso, perché nel 99% dei casi una persona ha avuto l’idea e gli altri ci sono saltati dentro perché gli è piaciuta l’idea e questo non sminuisce né gli uni né gli altri.
Per me la meritocrazia dovrebbe essere anche nel riconoscimento dei ruoli e non nell’appiattimento delle differenze: in un ecosistema lavorativo questo è molto importante. […]
Si ricerca invece spesso un appiattimento delle differenze perché così siamo tutti bravi uguali, ma invece siamo ingranaggi diversi. […] Fa più comodo pensare che ci sia il genio, quello speciale. Accettare che tutti invece hanno importanza e un ruolo è ben diverso.
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3) Tra le idee che ci accomunano c’è il concetto di rivendicazione del compenso economico “non come fosse un plus” – Ti va di parlarne? Per molti professionisti o aziende sembra sia diventato qualcosa da ammirare il fatto di cominciare lavorando gratuitamente. Per me è una specie di aberrazione.
V:
Io ho fatto 8 stage non retribuiti di cui 6 gratuiti, e ho trovato poco di nobilitante in queste esperienze. Penso di aver imparato di più studiando da sola sui libri la sera.
Quanta nobilitazione c’è nell’esaltare il concetto di lavoro gratuito? Il lavoro si paga anche solo per il tempo che ci perdi, anche fosse un rimborso spese. […]
Non c’è nulla di male nel parlare di compenso, uno deve sapere se la sera deve trovarsi un altro lavoro per mantenersi. Non tutti hanno le possibilità economiche per lavorare senza essere pagati. Puoi anche scegliere di lavorare nella grande azienda, posso fare una riflessione se poi dopo tre mesi ho un portfolio che mi fa trovare lavoro con uno schiocco di dita.
Che poi ‘ste grandi aziende, possibile che non hanno neanche i soldi per un buono pasto? […]

4) Hai scritto che chi legge “solo di marketing perché fa marketing” non può far bene il marketing.
Cosa bisogna leggere secondo te? Di cosa bisogna essere curiosi? Da quali contaminazioni farsi condurre e educare?
V:
Mi ha molto aiutata una cazziata ricevuta durante un’esperienza con contratto a progetto. Mi ricordo che il capo ci cacciò dall’ufficio e ci spronò ad andare in strada […] Ci disse che c’era in una vetrina con un cervo e delle lucine e ci chiese di capire che effetto ci facesse […] Devi fare vita sociale, andare al cinema, guardare i documentari, fare sport, mangiare il gelato e la pizza. Se non so tutto questo non sono nulla del mondo e delle dinamiche sociali e se non conosco le dinamiche sociali, non posso fare marketing […]
Mi auguro ci siano sempre meno tecnici e più persone che alzano la testa dal proprio smartphone.
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5) Su LinkedIn mi hai colpito quando hai postato queste parole a corredo di uno studio di McKinsey:
Lo studio pubblicato da McKinsey & Company si può ridurre a due punti chiave.
1) Il #remotework durante la #pandemia ha messo in luce quanto poco certe aziende condividano coi propri team visione e valori (principi relazionali base della #leadership che chiunque con un po’ di sale in zucca dovrebbe conoscere);
2) Non comunicare, non condividere, limitarsi a “dire di fare” ha portato al #burnout lavorativo. Alla conseguente ansia per il presente e per il futuro anche da persone di solito “molto performanti”. (espressione orribile).
Ovvero, non è semplicemente il fatto di stare fra 4 mura che porta al burnout. Ce la possiamo pure raccontare così volendo. La questione è un po’ più complessa: saper trovare il tempo di comunicare col proprio team o coi propri colleghi è il vero termometro di un’azienda “bilanciata” nel 2021.
Si aprono alcune opportunità per pianificare il futuro.
La peggiore “opportunità” è sperare di tornare il più presto possibile a “fare tutto come facevamo prima”, dimostrando di non aver veramente imparato nulla nemmeno di fronte a una pandemia globale.”
Perché tante persone sul lavoro vogliono tornare a fare ciò che facevano prima? Perché c’è resistenza al cambiamento e finta spinta al miglioramento?
V:
Perché siamo animali primitivi che vivono di spirito di conservazione. […] C’è resistenza perché il cambiamento porta stress ma le paure sono infondate. Ci sono cose per le quali non si può far nulla, e dalla pandemia possiamo imparare tanto. […]
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6) Sempre su LinkedIn hai scritto:
“Una delle cose più complesse, nel proprio mondo lavorativo, è sforzarsi di capire cosa si nasconde nei membri di un team oltre la firma mail.
Spesso lo scarso rendimento di un/a collega non riposa semplicemente nell’essere incapace, ma nell’essere NON capace nel ruolo che gli/le è stato cucito addosso.
Però ci fa comodo pensare così: lavora da schifo perché non ha voglia.
Lavora male perché non è in grado.
Così è più facile “giustificare” la mancanza manageriale interna alla propria azienda.
L’approfondimento dell’ Harvard Business Review è un pezzo semplice eppure efficace, che suggerisce soluzioni concrete per creare aziende migliori. Il tema è “ne abbiamo veramente voglia? Non è più semplice far finta che tutto questo sarà il futuro ma non il presente?”.”
Queste tue parole mi hanno colpito tantissimo! Vorrei sapere quali sono le falle peggiori nelle aziende secondo te e cosa si può fare in merito?
V:
Ho cambiato un po’ di aziende e di realtà ne ho viste diverse.
Quello che mi ha sempre colpito è il processo di semplificazione nel giudizio di un progetto. Si è soliti dire “Il progetto è andato male perché (tizio) è lento” oppure “Il progetto non va perché c’è qualcuno che vuole remarci contro”. Ma veramente la gente secondo loro non ha niente di meglio da fare che fregare l’azienda?
Il problema è che per una serie di motivi l’azienda mette le persone in posti sbagliati al momento sbagliato. […] Se chiedi alle persone le loro attitudini o come si percepiscono, spesso fare questa domanda ti mostra che la job description non funziona. Bisognerebbe allora chiedere alle persone: qual è la job description che ti rispecchia qua dentro? Sono fasi lunghe e l’azienda deve farti fare un percorso nel tempo.
Quello che vedo come fallimento di un’azienda è il lasciare andar via un talento quando in realtà è l’azienda che non ha il focus del business. E quando accade, le persone brave tendono a colpevolizzarsi per questo.
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7) In un tuo testo intitolato “La disponibilità come merce di scambio in assenza di competenza” scrivi:
“Nel digital marketing, per quanto sia varia la fauna di consulenti e agenzie che ne animano la giungla, il paradigma della disponibilità come merce di scambio in assenza di competenza è un evergreen senza tempo. E a pagarlo maggiormente sono quei professionisti che per diverse 50 buone (o cattive) esperienze rifuggono il “ma ceeeerto nessun problema, mandami tutto su whatsapp, telegram e friendfeed” in nome di una sanissima competenza. Capisco bene che agli inizi della propria carriera sia necessario essere accondiscendenti, disponibili e notevolmente più flessibili nei confronti dei propri (potenziali) clienti.”
Parli anche del “PARADIGMA DELLA DISPONIBILITÀ COME SOFT SKILL AL VELENO”
Quanto si abusa oggi della disponibilità e quanti professionisti ne abusano nell’ottica di sfruttamento delle risorse? Disponibilità si lega spesso al termine gratuità del lavoro.
V:
Io detesto la retorica del “cugggino” perché il nostro è un settore senza letteratura. Quindi siamo stati anche noi cugini senza letteratura. Io ho 36 anni : la mia generazione di marketer avrebbe dovuto creare una letteratura e i presupposti per porsi le domande giuste e invece ci siamo ammassati sul nostro momento di gloria. Della letteratura ce ne siamo un po’ sbattuti, la letteratura sta nascendo solo ora. Non siamo stati bravi a creare una generazione che ci sostituisse. […]
All’inizio quando si comincia a lavorare giustifico tutto, dopo non giustifico niente. Per un incompetente che non ha interesse a diventare bravo, il tempo è solo tempo e quindi sono disponibile.
Per una persona competente il tempo è tutto, è avaro di tempo perché vuole studiare e migliorarsi, e quindi si può prendere il lusso di non essere ovunque e non rispondere sempre. […]
Per chi non ha mire di migliorarsi è più facile darsi. Ne faccio una colpa a quelli che si mascherano da competenti e abusano del tempo altrui per fare margine sul lavoro degli altri e per dimostrarsi competenti. […]
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8) In piena pandemia 2020 scrivevi:
“PRODURRE PER PRODURRE ANCHE SE NON SERVE PRODURRE: ESISTE UNA CURA?
Ecco: quello che più mi spaventa di queste giornate surreali è la carica adrenalinica che ne verrà subito dopo. Oltre la perfezione, oltre il meglio di se stessi che già non sapevo raggiungere, oltre la natura stessa di esseri umani, saremo chiamati a fare 10, 20,30 volte tanto quello che già facevamo fatica a fare.
Perché non siamo in grado di aspettare nessuno. O meglio, non vogliamo aspettare nessuno. Nemmeno noi stessi.”
La voglia di produrre e produrre mi attanaglia spesso. Vorrei fare molte più cose e più ne faccio, più voglio farne altre. Produrre è un modo per farsi voler bene? Un modo di sentirsi utili o di farsi del male? Tu cosa ne pensi?
V:
Per me produrre per produrre è un modo per non pensare.
Avevo una cattiva abitudine: mettere a posto cose in giro per casa, e lasciavo molte cose sparse qua e là come finestre aperte. Era un modo per voler fare tutto senza un focus.
Produrre per produrre è mentire a se stessi, perché non c’è focus in quello che fai. Ci proteggiamo dai nostri vuoti, più produciamo più ci considerano fighi o degni di essere in questa società, perché poi quel che produciamo verrà consumato da qualcun altro. Questo lo facevo anche io, ora cerco di focalizzarmi di più. Se penso a un progetto, adesso lo scrivo e lo lascio digerire.
Produrre è un modo per dire “vedi che ci sono”. Fare tanto senza focus è una protezione, il tema è però darsi a un certo punto uno stop e avere il coraggio di dire “lascio decantare”. […]
Se sei da solo senza far nulla, cominci a pensare. […]
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9) Hai scritto “La rabbia ha una sua poesia. Che può fare a meno dei castelli. Che come seta scivola fra le nostre palpebre insegnandoci una sola cosa: la rabbia è uno dei nostri modi per ricordarci che siamo ancora vivi. Magari deboli. Ma comunque vivi.”
Qual è la cosa più importante che ti ha insegnato la rabbia?
V:
La rabbia mi ha fatto capire che ci tenevo ancora al lavoro che stavo facendo. Quando non mi arrabbierò più per quel che faccio, vorrà dire che dovrò cambiare lavoro. […] Non ci vedo nulla di male, diffido di quelli sempre calmi.
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10) Hai scritto anche: “Lavorativamente parlando, il senso di inadeguatezza è una delle sconfitte professionali più difficili da ammettere. Perché non ha in sé nulla nulla di vincente. Attiva solo circoli poco virtuosi che intorbidiscono pensiero e volontà.
L’inadeguatezza esiste. È solo tempo di accettarla per ciò che è: un’emozione di barriera. Non una barriera vera e propria.
Quando siamo presi dallo sconforto, dalla paura di non saper risolvere cose che abbiamo già visto e che gli altri si aspettano risolte da noi in pochi minuti, semplicemente calmiamoci.
Respiriamo.
Beviamo un bicchiere d’acqua.
Io ad esempio ascolto la Piccola sinfonia in Sol minore di Mozart.”
Perché secondo te vogliamo sempre sentirci adeguati e perfetti? La società ce lo impone? Quanto centra l’ipocrisia e la pretesa di voler sembrare sempre altro da sé?
V:
Per assurdo nella nostra società anche se fallisci, devi fallire con il botto. La via di mezzo non esiste, non è vista dalla società. Essere nella media non è considerato giusto.
Questa cultura del guru del fallimento non la accetto: ma dico io, possiamo vivere nella media o dobbiamo fare per forza il dramma? Dobbiamo essere liberi di vivere nella media, nella nostra zona di comfort e poter dire anche banalmente “non la so fare quella formula su Excel”. Poi qualcuno ti dirà “ma è facile” e tu potrai rispondere liberamente “voglio fallire nella media”. […]
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11) In un testo scrivi
“Di senso di colpa soffrono solo le risorse migliori. E il verbo soffrire non è qui preso a caso: il senso di colpa è una sofferenza. Può essere uno stimolo, può essere un’occasione per un nuovo punto di vista, può essere una risorsa oppure un’occasione di riscatto: può essere tante cose, ma il più delle volte è un fenomeno di sfruttamento dell’ansia che solo chi non ha altre armi mette sul piatto per “far crescere” le proprie risorse.
Quando il nostro contesto lavorativo ci fa sentire continuamente inadeguati, quando il mettersi in discussione non basta, è necessario avere il coraggio di lasciare i “carnefici” a se stessi.”
E io mi sono sempre chiesta quale sia il vero scopo di chi vuol sempre far sentire gli altri inadeguati.
Come si esce dal senso di colpa e quanto e in che misura possiamo usarlo in senso positivo?
V:
La classe manageriale oggi è spesso priva di cultura aziendale. Il manager deve essere in grado di assumere persone che ne sappiamo di più e mettere le competenze al servizio della competizione. Quindi non devi fomentare le persone, ma la scelta migliore è acquisire conoscenze grazie al team ma senza prendersi i meriti degli altri. Raramente in azienda ho visto una visione e degli obiettivi, il fatto che ci si arrivi con un confronto è normale. Che ci si arrivi facendo le scarpe a un altro non è normale.
Il senso di colpa ce lo portiamo dietro e forma il nostro carattere. Quando pubblicai quel post mi fece ridere il commento di un mio ex collega con grande senso dell’umorismo. Lui scrisse qualcosa del tipo “non ti sei sentita in colpa nel perdere tempo a scrivere questo testo”.
L’unico modo per superare il senso di colpa è scherzarci su, ridere sui sensi di colpa per capire che non sono reali e fanno davvero ridere. Sforzarsi, esporsi a battute su se stessi per dire “oh però ci abbiamo scherzato e non è morto nessuno”. […]
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12) C’è una domanda o un argomento di cui non abbiamo parlato che ti piacerebbe esplorare insieme a me?
Su questa ultima risposta/domanda vi lascio ascoltare o vedere l’intervista.
Valentina qui mi ha fatto pensare molto a me stessa, a come vivo le mie giornate, con una domanda che lei ha fatto a me un po’ spiazzante, perché forse in pochi me lo hanno chiesto.
VIDEO
PODCAST
Grazie Valentina! Lo scrivo con i colori per me più belli.

P.s. ho comprato un nuovo set di pennarelli nuovi grazie a te!
Alla prossima, Valentina. Spero di conoscerti presto di persona.
Grazie anche a chi ha ascoltato o ha visto l’intervista e a chi ha letto questo post.
Laura Ressa
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Copertina: la locandina dell’intervista live a Valentina Vellucci