
Non saprei da dove cominciare a raccontare questa storia.
Anni fa scrissi un post qui su frasivolanti a questo proposito, ma poi lo cancellai e quel testo è andato perduto. Devo dunque ripartire da zero, ma i ricordi per fortuna non mancano. Come sempre quando si tratta di raccontare episodi assurdi avvenuti sul lavoro, vorrei cominciare con la descrizione delle mie vicine di scrivania. Ma prima faccio una puntualizzazione spazio-temporale per disegnare i contorni del racconto.
Torno indietro a parecchi anni fa. Avevo appena lasciato uno degli ennesimi tirocini per un’occasione che mi sembrava migliore e che mi era stata segnalata come un’ottima opportunità di crescita e inserimento.
Il luogo di lavoro era in un paese di provincia in cui arrivavo ogni mattina con il treno. Al momento del colloquio l’ambiente mi sembrò genuino, le attività da svolgere mi vennero presentate con chiarezza, e quindi accettai subito. Del resto lasciare la situazione lavorativa di allora mi apparve come una enorme conquista, uscire da quel luogo mi avrebbe fatto sicuramente bene.
E così fu in effetti. Ma, sebbene il clima lavorativo fosse migliore del precedente, le sorprese furono anche lì parecchie e mi ritrovai, come spesso è accaduto, in una situazione poco professionale in cui le donne della mia stanza sparlavano delle altre colleghe non appena queste ultime mettevano un piede fuori dalla porta. Una situazione insomma che definirei “paesana” senza fare un torto ai paesi ovviamente: il termine si presta bene a definire una situazione in cui tutti guardano tutti dall’alto in basso e in cui spesso le donne sono relegate a compiti di accudimento del manager, pulizia scrivanie, attività di caffetteria, gomme da masticare a domicilio, commissioni personali del manager da assolvere in tabaccheria o all’ufficio postale. E ripeto: si trattava di attività personali del manager, che spesso e volentieri non centravano nulla con le attività dell’azienda.
Quasi come se la segretaria personale dovesse seguire a tutto tondo la vita del capo, fino quasi a pulirgli casa o organizzare il rinfresco per gli amici.
Mi sembrò di essere tornata ai tempi di un altro tirocinio in cui le attività principali erano: cambio carta nella stampante, spesa al supermercato per la tutor, inserimento delle pastiglie della tutor nella bottiglia d’acqua, caffè a domicilio per la tutor e, non in ultimo, portare le sue borse e le sue scarpe dal calzolaio per riparazioni varie.
E questo non lo sottolineo perché sono contraria a certi tipi di lavori o perché “non voglio sporcarmi le mani”. Lo sottolineo perché spesso e volentieri non si dà il giusto nome alle cose. Anche se dovessi fare le pulizie, affrancare buste, lavare portoni, preferirei che tali attività fossero esplicitate anche nel mio contratto o nel mio programma “formativo”. Invece nei progetti di tirocinio, l’esperienza viene descritta quasi sempre in modo diverso, con altre parole, in maniere fantasiose che però sono diametralmente opposte rispetto alle attività che effettivamente vengono svolte e richieste.
Un giovane potrebbe chiedersi: Se fin da subito ci viene imposto di accettare un compromesso del genere, cosa ci verrà chiesto di accettare dopo pur di lavorare? Che idea si creerà nella nostra mente su ciò che è giusto o sbagliato accettare sui luoghi di lavoro?
Che insegnamento traggono i ragazzi dal mondo degli adulti?
Come avrete ben capito, senza affermare che questa sia la normalità, sostengo con forza che spesso quella che dovrebbe essere occasione di crescita professionale diventa un sorta di servizio badanti per manager e tutor di ogni tipologia e grado.
Ma torniamo alla storia che vi stavo raccontando.
Cominciai quel nuovo tirocinio subito dopo il colloquio: avevo mille speranze, mille propositi. Io ero addetta alla affrancatura delle buste da spedire, al ritiro di pacchi giunti al desk del piano terra e spesso anche pesanti, al rifornimento di faldoni, allo smistamento dei faldoni pieni negli scaffali dell’ufficio, all’ordinazione e al ritiro del materiale di cartoleria, qualche volta all’inserimento dati, ma soprattutto ero addetta all’ordinazione e ritiro di caffè dal bar e di gomme da masticare dalla tabaccheria.
Sembrava che le mie amabili colleghe, che disponevano per me tutte queste attività, non conoscessero il concetto di “servizio a domicilio effettuato dal fornitore”.
Emblematica fu la volta in cui la collega che sedeva di fronte a me, una donna dalle unghie lunghissime glitterate che ancora mi chiedo come facesse a digitare sulla tastiera, mi disse di andare a comprare in tabaccheria le gomme da masticare che le aveva chiesto il capo.
Naturalmente quando sei l’ultima arrivata, anche gli ultimi dell’ufficio si sentono promossi ad un grado superiore della scala gerarchica e imparano molto presto a delegare ai tirocinanti tutto ciò che non gli va di fare. Così accadde: rivolgendosi alla compagna di merende seduta affianco a lei, disse stizzita “e devo andare io a comprarle?”
Non sapevano come rimpallarsi il compito. Chi mandarono secondo voi? Me, ça va sans dire.
Scesi e andai in tabaccheria, la collega mi aveva detto la marca delle gomme da comprare e chiesi quelle al tabaccaio. Tornai in ufficio con le gomme, ma la collega le volle subito vedere per accertarsi che fossero quelle giuste. Guardò le gomme e poi guardò me un po’ male e mi disse “Nooo, non sono queste. Cioè la marca è giusta, lui però non vuole il pacchetto intero ma le gomme che vendono impacchettate singolarmente una ad una.”
Non saprei che faccia feci in quel momento, ero troppo sconvolta e mi veniva pure da ridere. Oltre al fatto che non mi era stato detto di prendere quelle impacchettate una ad una, la richiesta di scendere la prima volta era assurda. Figuriamoci la seconda.
Mi fu chiesto di scendere nuovamente e di comprare le gomme giuste, quelle impacchettate singolarmente.
In quei minuti non ricordo cosa pensai, forse il cervello si congelò per qualche istante perché forse non avevo creduto alle mie orecchie. Stavo eseguendo, come fossi una bambola telecomandata che procede senza collegare il cervello. Forse era meglio non pensare, era meglio non elaborare in testa questa scena, era meglio non capire cosa quotidianamente avveniva lì dentro.
Archiviata la questione gomme, l’altro dilemma di vitale importanza era la pausa pranzo.
Io ero solita portare la mia schiscetta da casa, ma non c’era una zona dell’ufficio in cui poter mangiare e la mia scrivania era posizionata in una grande stanza proprio in corrispondenza della porta d’ingresso dell’appartamento/ufficio.
Mi era stato intimato, dacché mi trovavo dinanzi alla porta, di non mangiare lì seduta alla mia scrivania perché ero troppo vicina all’ingresso e “stava male” se qualche esterno fosse entrato (senza bussare? all’ora di pranzo?) e avesse trovato me che mangiavo come prima immagine.
Eh beh, immagino lo sgomento di una persona che vede qualcuno mangiare all’ora di pranzo! Sacrilegio.
E io cosa feci a seguito di questa puntualizzazione di stile? Non risposi, mi limitai a eseguire e a spostarmi ogni volta per pranzo sul balcone, a mangiare lì fuori in piedi anche quando faceva freddo.
Avrei potuto chiedere asilo a qualche altra stanza? Beh, penso di sì ma non lo chiesi: volevo che almeno il pranzo fosse un momento solo mio. Non era un ambiente in cui avrei condiviso volentieri quel momento con altri colleghi, neanche con quei pochi che sembravano intelligenti.
Oltre ad eseguire le mie attività, a fronte delle solite richieste fatte dalle ultime dell’ufficio con una certa strafottenza, cercavo di fare tutto al meglio. Mi mandarono molte volte a prendere i caffè al bar da portare in ufficio, tanto che una volta ebbi l’ardire di chiedere “ma il bar non fa servizio a domicilio?” e la pronta risposta fu “sì, ma ci mettono troppo tempo quindi vai tu”.
Altra giornata emblematica fu quella in cui ci furono alcuni disguidi legati a qualche inserimento dati. Le colleghe di scrivania, se non ricordo male, cercarono di scaricare la colpa su di me. Una di loro fu poi chiamata in disparte da un’altra per parlare della questione.
Io non fui invitata a partecipare al dialogo, anche se la cosa in parte toccava anche me.
Esprimendo un flebile sgomento, ebbi l’ardire di pronunciare una frase che suonava più o meno così: “Mah, non capisco. Non credo di aver fatto nulla di male. Sono interessata anche io, perché non posso sapere cosa succede?”
Lo dissi tra me e me, ma in modo che si sentisse.
Forse non era ammesso il fatto che potessi avere un’opinione in merito o esprimere un parere, infatti la simpaticona dalle unghie chilometriche, seduta alla scrivania di fronte, mi intimò con poco garbo di stare zitta perché secondo lei avrei fatto la cosa migliore a non parlare e a non dire altro in quel momento. Della serie: “non fare commenti”.
Se mai questa mia ex collega leggerà queste righe, e se mai avrà il coraggio di riconoscersi o di ricordare quei momenti, colgo la ghiotta occasione per dirle che il suo comportamento è stato un esempio per me di massima assenza di professionalità sotto ogni punto di vista.
Il modo in cui lei stessa sparlava delle altre colleghe, il suo sguardo giudicante, anche il modo di presentarsi e vestirsi e di considerare il lavoro come una questione di servilismo devo dire che mi hanno insegnato molto su come non voglio mai diventare.
Quel “forse faresti meglio a non parlare” che pronunciò quando mi azzardai a esprimere una flebile manifestazione di disappunto, mi fece capire ancora meglio con chi avevo a che fare e che, in effetti, le parole in situazioni simili sono fiato sprecato. Non si può combattere contro l’incapacità di ascoltare le parole altrui.
Gli aneddoti sarebbero infiniti, ma con questi pochi sprazzi credo di aver reso l’idea.
Cosa ho imparato operativamente da quella esperienza? Ho imparato ad attaccare i francobolli sulle buste da lettera, a trasportare pacchi, a ordinare caffè e a comprare gomme.
Ma erano tutte cose che sapevo fare già.
Cosa ho imparato veramente? Ho capito che in certi ambienti il titolo e il merito non contano nulla, conta il servilismo e forse anche qualche raccomandazione.
In certi ambienti conta quanto sei disposta a lustrare le scarpe al manager per dare un senso alle tue giornate, tanto più se sei donna. Conta quanto ti trucchi, come ti atteggi con gli esterni. Conta quanto alti sono i tuoi tacchi, quanto rumore fanno nei corridoi e quanto lunghe sono le tue unghie fresche di estetista.
Conta l’apparenza, insomma, e poi sicuramente conta anche quanto lavori… ma sempre in un’ottica “sì padrone, ogni tua richiesta è un ordine”.
Un manager non può e non deve chiederti anche di andare a pagare le sue bollette, se tu lo fai senza rispondere o scaricando il tuo compito su altri non stai lavorando, non ti stai neanche volendo troppo bene.
In quel luogo ho visto un meccanismo patriarcale assai antico, l’atteggiamento dell’uomo che si è fatto da solo e che esige di farsi gestire le incombenze della vita dal suo harem. Per i ruoli di concetto tanto ci sono gli uomini, agli altri restano le faccende da sbrigare.
Non faccio questo discorso in quanto femminista, anzi i discorsi di genere mi stanno sempre stretti e non voglio ragionare per categorie. Ma lì dentro per la prima volta mi è apparsa davanti l’immagine netta di come siano spesso le donne a farsi andare bene determinati atteggiamenti e determinate pretese. A volte ne vanno persino fiere, come se farsi affidare l’acquisto delle gomme fosse una dimostrazione di fiducia da parte del capo.
Avevo compreso l’andazzo e se fossi rimasta avrebbero continuato a farmi comprare caffè e gomme. Intuii che quel luogo forse poteva essere un buon inizio per chi era in grado di farsi rispettare: ma esigere rispetto non è mai stato il mio forte.
Mentre svolgevo ancora quel tirocinio, sostenni vari colloqui di lavoro.
Chiedevo ore di “permesso”, se così vogliamo chiamarle, per recarmi a quei colloqui e lo specificavo sempre nelle email di richiesta: — Avrei bisogno di assentarmi dalle ore XX alle ore YY per un colloquio di lavoro —
Fui spudorata, perché di restare lì non mi interessava affatto. Avevo di meglio da imparare, persone migliori da conoscere là fuori.
Meritavo di fare più strada di quella dall’ufficio alla tabaccheria.
Per completare il quadro, menzionerò un ultimo aneddoto.
Una delle varie colleghe un giorno mi prese in disparte nel bagno e mi riferì che “le altre” (notare: sempre donne) avevano parlato male di me in mia assenza per il fatto che stavo svolgendo altri colloqui. E fin qui tutto normale in un ambiente del genere.
Ma perché dirmelo? Forse mi trovavo in un asilo e non lo avevo ancora capito.
Anzi, parlare di asilo in questo caso è un’ingiustizia verso i bambini: quella situazione era tipicamente da adulti che credono di esserlo ma che in realtà riversano il proprio appagamento nel gossip, nella maldicenza, nell’impulso di dire e fare le cose sbagliate al momento sbagliato, di parlare senza fini utili, di sparlare oppure di spalare melma e poi riferire alla menzionata di turno ciò che era stato detto.

Per fortuna abbandonai quel tirocinio abbastanza presto, terminando le mie attività in sospeso anche più del dovuto.
Me ne andai con gioia e senza un vero saluto, senza il loro augurio di trovare la mia strada o di far bene altrove. Non ci tenevo in effetti a ricevere le loro parole di commiato: me ne andai come ero arrivata, da umile tirocinante che deve stare al suo posto e che non può far nulla di più se non ritirare stampe, fare fotocopie, ordinare caffè e ascoltare malelingue tutto il giorno senza poter esprimere un’opinione.
Tuttavia, sembrerà strano, ma non rinnego nulla di quella esperienza.
Oggi io credo di essere quel che sono anche perché non sono stata in grado di difendermi, anche perché non mi facevo mai rispettare, anche perché non ho mai alzato la voce nemmeno quando ce ne sarebbe stato bisogno.
Ho capito molte più cose nel silenzio che parlando a vanvera. Il silenzio ascolta, ascolta e coglie tutto ciò che avviene attorno. Un silenzio che riflette non ti fa ottenere rispetto ma ti fa digerire le vicende, ci vuole tempo infatti per elaborarle e capire che insegnamento ti hanno lasciato.
Mi sembrava allora di essere immersa in una sitcom, ed era come se dovessi guardare ciò che mi avveniva in prospettiva. Come se tutto ciò che stava accadendo fosse una grande opportunità: questa forse è stata la mia salvezza, il fatto di vedere ciò che mi stava succedendo in funzione di una comprensione che mi sarebbe servita più in là. Solo così evidentemente possiamo beneficiare anche delle esperienze meno positive.
Per me allora i tirocini erano l’unica strada percorribile, e in mancanza di altro li accoglievo ogni volta con l’entusiasmo e la speranza che si sarebbero tradotti in un lavoro, in un’evoluzione personale e professionale, in una indipendenza tanto agognata e cercata.
Quella volta non fu così, l’esperienza non si tradusse in lavoro. Ma per quanto negativa possa essere stata, sono sopravvissuta senza somigliare a quelle persone. E questo per me è tanto.
Ora sono qui a raccontarla quella vicenda, sono qui a ricordarla, sono qui a scriverne. Sono qui a fare quello che amo fare, sono qui per dire che anche quando non ti difenderai e ti ripeteranno comunque di tacere, dovrai con tutte le forze desiderare qualcosa di meglio.
Sul lavoro, con le persone, dappertutto.
Perché se apri la porta, forse quel qualcosa di meglio poi lo trovi per davvero.

Laura Ressa
frasivolanti di frasivolanti.wordpress.com/ è distribuito con Licenza Creative Commons Attribuzione – Non commerciale – Non opere derivate 4.0 Internazionale.
L’articolo è anche su Medium
Copertina: Photo by Austin Chan on Unsplash