“La parte peggiore di avere una malattia mentale è che le persone si aspettano che ti comporti come se non l’avessi.”

Arthur torna a casa con il capo chino e la spalla ricurva, la risata sguaiata involontaria che sembra un pianto disperato. In mano non ha il pacchetto comprato al supermercato per la cena ma un sacchetto pieno di farmaci: unica salvezza che gli rimane in una società che non ha tempo e non ha voglia di ascoltarlo, che lo picchia per strada e lo umilia.
La disperazione dunque porta al crimine?

Prima di rincasare il piccolo “Happy” Fleck, sguardo da bambino indifeso e da pazzo pericoloso al tempo stesso, scala una immensa montagna fatta di gradini grigi e apre una cassetta della posta perennemente vuota.

Le scale che all’inizio fa in salita, dopo la sua ascesa criminale le attraversa in discesa. Ballando con movimenti secchi, a tratti convulsivi.
Arthur Fleck fa tenerezza, ma non è uno di noi. È la parte oscura che ognuno di noi potrebbe avere dentro di sé e che, nel migliore dei casi, resta inascoltata, edulcorata, rimarginata con un’esperienza di vita positiva, un po’ di ascolto e relazioni umane appaganti.
Quello che davvero ci fa paura di Joker forse è l’idea che l’animo umano possa essere così fragile e perso da arrivare a compiere gesti estremi e lontani da ogni senso di etica a cui siamo abituati. Ma quanti compiono atti di violenza ad ogni livello e in qualsiasi contesto senza che questo smuova le coscienze?
Se è vero che abusi e violenza subita non sono attenuanti per nessun crimine, è vero pure che la storia di Arthur va ben più a fondo di un’esperienza infantile disastrosa e si traduce in una distinzione tra buoni e cattivi che non è mai così netta né didascalica.

Cercare di capire gli altri è un’impresa difficile, per alcuni impossibile. Ed è su questa incapacità che si concentra buona parte del film (e sicuramente una delle scene finali più emblematiche).

Phoenix, che da giovane cambiò il suo nome in “Leaf” (foglia) per un breve periodo, con molta probabilità si è ispirato anche alla propria esperienza di vita per interpretare questo film.
Non so se sia un caso, ma quando Joker si infuria con il personaggio di De Niro accusandolo di aver mandato in onda ripetutamente un suo video per prendersi gioco di lui, ho pensato alla storia reale dell’attore. La chiamata di Joaquin Phoenix al 911 mentre il fratello moriva fu registrata e trasmessa da vari programmi radio e TV in modo morboso.
Il protagonismo, la curiosità, la oscena morbosità, la ferocia con cui si scredita il prossimo e si tenta di entrare di prepotenza nei suoi nervi scoperti sono tratti negativi tanto di Gotham quanto della nostra società.
E non abbiamo alcuna attenuante per questo.

La vita di Arthur diventa di colpo migliore (secondo lui) con in faccia la maschera di Joker, molto trucco e un atteggiamento “colorato” e più spavaldo. Forse è questo che ci fa davvero paura: le nostre maschere e il piacere che proviamo quando le indossiamo. Ci servono per farci notare e per arrivare là dove senza maschera non arriveremmo.

Da Flickr

“La parte peggiore di avere una malattia mentale è che le persone si aspettano che ti comporti come se non l’avessi” — scrive Arthur sul suo quaderno di appunti.

La parte peggiore dell’incapacità di capire gli altri sta nella presunzione di credere che siano come noi, che si comportino come noi e che vivano come noi. Senza accorgerci che qualche volta li calpestiamo.

Dunque il confine tra risata isterica e pianto è molto labile. Il riso di Arthur è uno sguaiato tentativo di aiuto, spesso frainteso, che diventa simbolo della sua pazzia e al tempo stesso ci fa ripensare alla tenerezza di un sé bambino strappato all’innocenza dell’infanzia.

Joker non siamo noi, ma noi siamo certamente i nostri lati oscuri.
E siamo sia i calpestati che i calpestatori.
Da che parte sta il bene e dove si pone il male: è questo che ci immobilizza.

Laura Ressa


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Copertina: immagine tratta da Flickr

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Laura Ressa

Classe 1986 🌻 Digital Marketing Specialist & Web Writer 🌻 Frasivolanti