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In un tempo che ci vuole avvezzi a pesare le nostre lancette e a pensare a cosa ci manca di più, ciò che ci rende inesperti davanti al tempo è la pretesa di perfezione. La pretesa del dover fare più cose nel minor tempo possibile piuttosto che dedicarci a esistere, a esserci. A vivere.
Se io ad esempio potessi cancellare questa pretesa, lo farei subito. Ma non basta una gomma in questo caso: il segno è a penna ed è indelebile e sottrarsi alla lama tagliente del tempo non è semplice.

Dovrei leggere i libri arretrati accatastati sul tavolo – mi dico – e dovrei ascoltare più musica come facevo prima, di notte.

Mi ricordo serate seguite da nottate passate al buio del corridoio di casa ad ascoltare la musica allo stereo, con le cuffie grandi di mia sorella. Quelle con la spugna che si sgretolava in fretta dopo pochi utilizzi.
L’unica luce che si intravedeva, di notte, proveniva dal monitor dello stereo che indicava i minuti e i secondi di avanzamento delle tracce musicali che stavo ascoltando.

Quella luce sembrava un faro nella notte, quel tempo che scorreva sembrava in realtà fermo. I minuti illuminati correvano, proseguivano, la musica andava, cominciava e finiva. Ma a me pareva proprio che quel tempo non fosse reale, che non avesse le sembianze e la dimensione del tempo vero.

La luce che proveniva dallo stereo era forte e gialla, come di lampadina nuova appena avvitata nel lampadario. Se la guardavo fissa per qualche istante, mi bruciava gli occhi e in quei momenti mi immaginavo che la luce volesse dirmi “non dovresti essere qui, dovresti andare nel letto a dormire!” Poi ci ripensavo e restare ancora un altro po’, e ancora un altro po’, e ancora un altro po’, finché dalle finestre non cominciava a intravedersi l’alba.

Il nostro tempo lampeggia, vorremmo intrappolarlo. Per questo ho passato gran parte della mia vita a negare che il tempo esistesse, ad aggrovigliarlo, ad attorcigliarlo, ad assottigliarlo, a calpestarlo, a masticarlo e a sputarlo. Per questo ho cercato sempre di vivere come se il tempo non mi toccasse, come se non spettasse a me misurarlo né averne cura.
Ma forse questi pensieri si scontano prima o poi. Un giorno arriva il conto di tutte le volte che hai negato che il tempo esistesse, e lui senza avviso bussa e ti dice che è ora oppure che è ora di considerarlo importante.

Il tempo lampeggia e pulsa come l’avanzare dei minuti e dei secondi delle tracce musicali nello stereo. I secondi sono così vividi da sembrare zampilli di sangue che saltano da una ferita aperta.
E mentre loro zampillano felici fuori da noi, la nostra traccia avanza e non riusciamo premere “stop”.
Non possiamo nemmeno fare una pausa tra le note, riavvolgere per ascoltare meglio o fermarci su una frase in particolare. Ne avrò rotte parecchie di cassette in questo modo quando ero bambina e quando lo stereo era quello per le musicassette e non per i CD. Se trovavo una canzone che mi piaceva, la mandavo in loop indietro mille volte finché il nastro non si aggrovigliava.

Ma il tempo decisamente non è una luce che lampeggia. Se lo guardi bene te li apre gli occhi sul mondo anziché bruciarteli. Se invece rifiuti di guardarlo beh, è allora che ti brucia!

Forse è per questo che ho amato la musica. La musica lampeggia negli stereo, ha tempo, ha ritmo, ci dà l’illusione di possederlo il tempo, di decidere il suo scorrere anche se in verità non ci appartiene.

E quindi chiudo questo ricordo del tempo, custodito nelle tracce della musica, con uno degli album che ho più amato e ascoltato nel periodo tardo adolescenziale. In una fase della vita quasi adulta in cui cercavo di capire dove andare e come fare.
Credo che quel tempo non passi mai.

L’album si chiama Declaration of Dependence e loro sono i Kings of Convenience

Laura Ressa


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Scritto da:

Laura Ressa

Classe 1986 🌻 Digital Marketing Specialist & Web Writer 🌻 Frasivolanti