
Passione e Fatturazione a volte diventano protagonisti della stessa storia. Tra loro ci può essere un lungo o breve legame d’amore, e chi riesce a fare della propria passione anche un lavoro è di certo una persona fortunata e capace.
La mia passione è la scrittura e ho sempre ammirato chi è riuscito a farne una professione, delineando il proprio campo d’azione e costruendo i propri progetti attorno alle parole e al modo di metterle insieme in modo efficace e armonico.
Il più delle volte si tratta di freelance, liberi professionisti che hanno scelto o si sono ritrovati a mettere in piedi una propria attività e che, appunto, usano la parola e la scrittura come mezzo principale non solo di marketing per promuovere la propria azienda, ma anche come cardine dei servizi proposti, delle consulenze e dei prodotti (che in quel caso spesso sono proprio i testi).
Non penso solo a scrittori più o meno famosi ma anche ai copywriters, a chi scrive guide e manuali d’uso, a chi affronta vari temi e descrive prodotti sul proprio blog professionale, a chi è esperto di business writing o mette al servizio delle aziende e delle persone le proprie competenze di scrittura e creazione di contenuti.
Dunque in questo grande gruppo di persone che fanno della scrittura un mezzo di sostentamento rientrano molte categorie: tutte ci rientrano a pieno titolo e molte di queste categorie sono composte da persone molto capaci e creative.
Alcuni di questi professionisti (e aziende) riescono realmente a usare un linguaggio che, nonostante gli obiettivi commerciali sottostanti, restituisce un valore, racconta una storia, trasferisce emozioni a chi legge.
Esistono manuali e blog che spiegano come scrivere per vendere, come scrivere per vendere e colpire il lettore. Esistono corsi e servizi di consulenza per sviluppare al meglio queste capacità.
Quando parlo di Passione e Fatturazione il mio non è uno punto di vista negativo: il marketing stesso, se praticato con etica, ha come scopo non solo vendere ma traghettare anche altri messaggi.
E allora perché mi ritrovo spesso a riflettere sul mio modo di praticare la scrittura?
Io non sono una professionista della parola, o meglio: le parole le uso, come tutti, anche per lavoro. Ma quando scrivo qui, sul mio blog o sui social network, lo faccio senza lucrare da questa mia attività. Senza, in sintesi, guadagnare in funzione dei miei contenuti scritti.
Una scelta, una necessità, una condizione che mi è capitata perché un lavoro ce l’ho e quindi ho deciso che, al di fuori, un po’ come la palestra, ho la mia palestra di scrittura per far svagare la mente.
Non ho la presunzione di farlo nella maniera più corretta, e nemmeno di avere un vasto pubblico. Pratico la scrittura, appunto, come fosse una palestra: per affinare le mie capacità, per riflettere, per buttar giù (come fossi su un diario) qualcosa per me e magari anche qualcosa in cui un eventuale lettore possa riconoscersi e così sentirsi meno solo.
Insomma metto le mani avanti: “non voglio vendere nulla”, come dicono i ragazzi dei call center quando sentono che stai per buttar giù la cornetta.
A volte mi chiedo: e se il lavoro non lo avessi più e dovessi “reinventarmi”? (verbo abominevole, lo so).
Utilizzerei la scrittura come strumento per farlo? Forse sì, forse no.
E poi: se utilizzassi la scrittura come fonte di guadagno, riuscirei a fare della scrittura ancora il mio momento di svago o sarei tartassata da obblighi lavorativi e scadenze e finirei così per guardare solo gli aspetti meno poetici della scrittura?
Mi rispondo che, evidentemente, esiste scrittura e scrittura. Probabilmente anche chi fa della scrittura la propria professione, coltiva poi la scrittura personale con cui non vende nulla. E magari quel tipo di esercizio si rivela utile poi anche nel lavoro, per sperimentare, per imparare a scrivere meglio e a far fiorire nuove idee.
Qualche tempo fa lessi un post pubblicato su Facebook da una scrittrice di libri thriller.
Nel post lei diceva che un testo è bello o è brutto a prescindere dal nome di chi lo scrive e che bisognerebbe imparare a non giudicare un contenuto dalla firma che troviamo alla fine del testo, ma dal contenuto in sé.
Io credo che non sempre il nostro occhio cada sul testo e sul contenuto. Penso anzi che, molto più spesso e anche se non ce ne accorgiamo, la nostra attenzione vada all’autore più che al contenuto.
Un esperimento interessante sarebbe quello di pubblicare lo stesso testo in due momenti differenti e con due firme diverse.
Che risonanza avrebbe lo stesso contenuto se la firma fosse di uno sconosciuto o se la paternità del testo fosse attribuita a uno scrittore noto, a un “professionista del settore”, a uno insomma che fa della scrittura il suo mestiere e che magari ha pure un discreto seguito di “followers” e un buon fatturato?
Sono abbastanza convinta che gli esiti della comunicazione scritta sarebbero molto diversi. E la differenza starebbe tutta nella firma.
Ammetto che anche a me capita di leggere con molto piacere i testi di autori che conosco e di essere portata a pensare, prima ancora di leggere, che sicuramente diranno cose giuste con le quali mi troverò d’accordo. Questo è frutto dell’esperienza dell’autore, certo. Frutto della mia ammirazione verso l’autore stesso, senza dubbio.
Ma è innegabile che il rumore di fondo c’è: e questo rumore, appunto, è la firma dell’autore, che rischia di sovrastare il contenuto.
Passione e Fatturazione. Torno a questi due elementi che a volte vanno a braccetto, torno a ripensare alle infinite possibilità della scrittura.
Penso spesso al rumore provocato da un firma nota: forse — direte voi — ci penso perché appartengo al gruppo degli emeriti sconosciuti e in pochi mi si filano. Obiezione corretta, in effetti sono una sconosciuta ma il fatto che in pochi mi leggano mi tiene anche al calduccio da critiche e attacchi. Proprio perché quelli è più probabile che arrivino se guadagni con le cose che scrivi.
E qui arriva la domanda marzulliana: meglio scrivere per passione o meglio scrivere per fatturazione? Rispondo: meglio scrivere! A prescindere che si tratti di lavoro o passione, se lo fai bene sei salvo.
L’altra domanda marzulliana potrebbe essere questa: la firma fa il monaco (come l’abito)? Posso scrivere cose ovvie o posso scrivere allo stesso modo di un emerito sconosciuto, ma se sono una firma rinomata avrò più persone che mi leggono e che si ritrovano in ciò che scrivo?
Sì, credo che sia irrimediabilmente così.
Però c’è un però. (eccola, la regina delle frasi fatte)
C’è un però perché anch’io spesso do più peso alla firma di un testo. Ma a voler ragionare con le stelline negli occhi come se il mondo lo potessimo cambiare con la bacchetta magica, mi piacerebbe che diventassimo tutti (io per prima) più attenti al contenuto che alla firma. Più attenti al messaggio che all’involucro.
È ancora un sogno irrealizzabile?
Provate a rileggere questo testo come se sotto non ci fosse scritto il mio nome in fondo ma quello di un autore noto o di un professionista che stimate o di qualcuno a cui volete/dovete dimostrare stima.
Che effetto avrebbe su di voi lo stesso testo? Vi piacerebbe o non vi piacerebbe allo stesso modo?

Laura Ressa
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