Se dico Pescaria sono certa che in molti capiranno a chi e a cosa mi sto riferendo. E magari nella mente comparirà, in associazione al nome, anche l’immagine di un bel panino vista mare con dentro del pesce crudo.
Dietro quel nome però c’è la storia di Brainpull, e quella storia è fatta di tanti tasselli e persone che non si fermano a un panino o a un’intuizione.
Ero curiosa di andare a fondo, perché la foto di un panino o i risultati raggiunti parlano di una sola faccia di un’agenzia di comunicazione.
Quali altri volti ci sono dietro una giovane storia aziendale?
Ho fatto qualche domanda a Domingo Iudice, Responsabile Marketing e Comunicazione di Brainpull.
Vi suggerisco di gustare, come fossero tanti panini diversi, tutte le risposte che mi ha dato.

1) Sul sito della tua agenzia di comunicazione Brainpull campeggia la frase “Con il talento puoi prenderti qualche soddisfazione. Lavorando in squadra arriverai lontano.
Immagino che questa visione sia anche ben rappresentata dal vostro logo, simile ad un ingranaggio.
Negli ultimi anni tu sei arrivato molto lontano ma forse hai anche capito che senza un buon team è difficile non solo arrivare lontano ma anche partire. Quanto dei vostri risultati è dipeso dal talento di ciascuno e in cosa ha contato lavorare in squadra? Quale valore aggiunto, umano e professionale, hai trovato nelle persone che lavorano con te?

“Ogni risultato raggiunto da Brainpull è merito di un’azione congiunta di un numero crescente di professionisti che lavorano in modo integrato, superando gli individualismi e perseguendo un progetto condiviso e collettivo.

Siamo partiti da zero, in un garage, con 5 PC e 5 scrivanie, convinti che il più grosso capitale fosse rappresentato dal nostro talento e dal tempo impiegato per metterlo a frutto. Ognuno di noi è stato un esempio per i nuovi (lead by example) che ha portato oggi a un organico di oltre 40 professionisti capaci di lavorare ogni giorno, strenuamente e senza risparmiarsi.

Questo è possibile grazie a un progetto societario aperto, nel quale ogni talento, indistintamente dalla sua età, può intraprendere un percorso professionale che non ha solo interessanti aspetti economici, ma anche la possibilità di diventare socio e partner di agenzia. Questo significa che ognuno, di fatto, lavorando per Brainpull lavora per se stesso, senza il frustrante senso di alienazione del proprio lavoro.

Umanamente, questo ha portato alla creazione di un gruppo molto coeso, in cui convergono professionalità eterogenee e generazioni e culture differenti. L’ambiente di lavoro è informale e i processi produttivi sono organizzati in micro team, capaci di elevare la produttività e l’efficacia delle idee. Le gerarchie sono soppiantate da leadership meritocratiche. Le mele marce, cadono rapidamente da questo albero, che auto-cura i rami secchi e alimenta quelli più fruttiferi.

Non imponiamo orari, ma la responsabilità di ogni individuo porta ognuno di noi a dare davvero il massimo per centrare gli obiettivi e continuare a crescere.

È difficile lavorare in Brainpull senza farsi pervadere, umanamente oltre che professionalmente. E questo credo sia alla base della nostra crescita.”

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gli uffici di Brainpull


2) In un tuo articolo pubblicato su SenzaFiltro scrivi:
“Il marketing territoriale è una branca della disciplina che interessa le strategie di crescita e sviluppo di un sistema territoriale. In un sistema abbiamo diverse variabili e sono tutte importanti per definire una strategia ma ce n’è una che adoro: la vocazione, appunto. È definibile come la volontà sintetica di una popolazione: il valore atteso della felicità di ogni abitante. La vocazione di un sistema territoriale prescinde dalla logica economica, dai cicli politici e dalle tradizioni.”

In che modo la tua appartenenza geografica alla Puglia ha inciso sulle tue scelte professionali e cosa ha condizionato il tuo modo di lavorare?

“Io ho scelto di rimanere in Puglia. Non è una questione di gloria: credo che questo territorio abbia molte potenzialità inespresse e da tali possibilità derivano e deriveranno ritorni interessanti.

L’esperienza newyorkese e la possibilità di lavorare sul territorio italiano, ti pongono in una posizione di cosciente consapevolezza della difficoltà di questa scelta: crescere su un terreno non pronto significa spesso imparare a sopravvivere, superando difficoltà che altrove non esistono o sono addirittura coadiuvate dal sistema territoriale.

Tuttavia, a differenza degli alberi, se un luogo non ci piace, possiamo cambiarlo. E noi in questo crediamo e della nostra nascita, crescita e futuro in Puglia siamo ostinatamente convinti.”

 

3) Come definisci il successo di un brand? Da quali caratteristiche imprescindibili lo riconosci? Il successo è una tappa da raggiungere necessariamente con risultati noti a tutti o può essere un concetto rimodellabile anche nel quotidiano e applicabile alle nostre piccole e grandi conquiste come professionisti, come persone, come appassionati cultori di certi argomenti o materie?

“All’università brand fa rima con McDonald’s, Coca-Cola, Sony, Nike e similari. Ma questi sono Brand multinazionali, con budget marketing a 6 zeri (o forse più) e logiche spesso non adatte ad una analogia strategica con le PMI e i rispettivi brand.

Un brand è un catalizzatore: è un enzima capace di accelerare un processo di scelta di un potenziale avventore, che percepisce rischi e azzera la possibilità di scelte non ottimali. E questo vale su scala locale e globale.

Un brand si costruisce nel tempo, attraverso rapporti di scambio e con azioni di comunicazione che supportano la propagazione della percezione positiva del prodotto. Anche questo è vero su entrambe le scale, ma spesso i tempi delle PMI sono ridottissimi in virtù di un tempo di sopravvivenza limitato: o le strategie di comunicazione restituiscono risultati o l’impresa implode sotto il peso del suo sistema di costi.

Ed è qui che i giochi cambiano, le regole saltano, i manuali di marketing vacillano e gli esempi multinazionali più non tornano: un brand locale non ha bisogno di essere famoso. Ha bisogno di essere famoso dove serve. Ha bisogno di costruirsi una reputazione nelle teste dei potenziali clienti, e non in quelle di coloro che non potranno essere serviti.

La potenza di uno strumento digitale risiede in questo: non è la viralità il punto. È la capacità di precisione dello stimolo pubblicitario che conta. Ovvero la capacità di essere un grande brand nelle menti di un piccolissimo target.

Facciamo un esempio. Se McDonald’s lanciasse un nuovo prodotto, ovviamente integrerebbe nella campagna di copertura pubblicitaria TV, Radio, classic media e anche digital. Il principio della campagna è la copertura mediatica di una popolazione distribuita sul territorio nazionale, dove a strumenti di copertura di massa (TV, Radio, giornali) si affiancherebbero strumenti a copertura incrementale (social, canali locali, attivazioni su strada, ooh). E questo è giusto: perché quel prodotto sarebbe presente esattamente dove questi strumenti ci permettono di essere: ovunque.

Se Pescaria aprisse un nuovo punto vendita invece? La faccenda sarebbe assai differente, perché Pescaria non è ovunque. Pescaria necessita di essere ben nota in un target che in parte è anche sovrapponibile a quello del McDonald’s, ma è territorialmente assai circoscritto.
È possibile essere famosi quanto il McDonald’s nella testa di alcuni, ignorando l’awareness nei territori non serviti? Certo, se usiamo strumenti di propagazione ad alta precisione geografica.

E che risultati si ottengono? Guardate le ricerche medie mensili di Pescaria da Milano nella prima settimana di settembre 2016 e confrontatele con quelle di McDonald’s. Quei giorni è accaduto un piccolo miracolo del local branding.”

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4) La prima tesi del Cluetrain Manifesto afferma che “i mercati sono conversazioni”. Il mercato è sempre stato un luogo vivo in cui persone si riuniscono, parlano, possono discutere dei prodotti, del prezzo, della reputazione delle marche. Gli autori del Cluetrain affermano che internet fornisce a chiunque l’occasione di entrare in un mercato virtuale condiviso.

Quanto è vera per te questa definizione di mercato e in che modo pensi che internet abbia modificato (a volte radicalmente) i bisogni delle persone?

Giampaolo Fabris nei primi anni del 2000 descrisse un modello di consumo postmoderno che avrebbe reso ogni individuo estremamente individualista, modificando di conseguenza il suo modello di consumo al di là del vincolo generazionale. Fabris non conosceva ancora i social, ma sicuramente i social sono il fattore scatenante di un’idea nata postuma.

Infatti oggi consumiamo anche su base esperienziale: non è la possibilità di comprare tutto da ovunque che ha cambiato il mercato. Il mercato è stato cambiato dalla democratizzazione dei consumi e quindi dalla possibilità che tutti tendessimo ad avere modelli di consumo prima accessibili ai più abbienti: viaggiamo, usciamo spesso, cambiamo vestiti, auto e arredi con una velocità superiore. E non vediamo l’ora di metterlo in vetrina.

I mercati sono sempre stati conversazioni, ma oggi consumiamo contenuti a velocità prima impensabili. Per me quindi l’affermazione è vera, ma sotto questo punto di vista.”

 

5) Identità di marca, tono di voce aziendale, appeal, presa sul pubblico. Siamo abituati, oggi più che mai, a dare un nuovo senso e una nuova veste a queste parole perché i brand hanno sempre più bisogno di rinnovarsi, di avvicinarsi alle persone, di rincorrere il treno della cosiddetta innovazione, di parlare con esse, di trovare un tono di voce specifico e unico che metta al centro i bisogni e delinei l’identità dell’azienda.
La seconda tesi del Cluetrain non a caso afferma che “I mercati sono fatti di esseri umani, non di segmenti demografici”.
Nella tua esperienza come riesci a intercettare i bisogni del cliente e, in generale, a comprendere i bisogni delle persone a cui i vostri clienti si rivolgono?

“Sempre Fabris (che per me è il miglior contributo nella storia italiana al marketing) parlava di un metodo psicografico, che prescindeva dall’anagrafica e si focalizzava quindi su una serie di variabili attitudinali. Ognuno di noi, con i propri nonni, genitori e figli, fa parte di un grande mercato in cui sono i gusti e i comportamenti a definire il target, non l’età. La generazione C è un concetto derivante appunto da questo: dimentichiamoci l’età e pensiamo ai comportamenti.

Ebbene anni dopo è arrivata Facebook con i pubblici sosia: prendi i tuoi consumatori, fanne un pubblico personalizzato e la piattaforma ti aiuterà a trovarne di simili, dai 13 anni in su. Che botta!

Ma facciamo anche qui un esempio per capire la portata. Devo aprire un asilo nido, ho 100 volantini e un parcheggio con 1000 auto. Su quali parabrezza metterò i miei 100 volantini, sapendo che la mia comunicazione ha una copertura potenziale del 10%?

Ovviamente inizieremo dalle station wagon e dalle monovolume: perché è più probabile che siano macchine familiari. E anche se non le raggiungerò tutte, eleverà la mia probabilità che i miei 100 volantini cadano laddove l’interesse al servizio/prodotto è più alto.

Cosa significa questo per una PMI? Significa che può trasformare un sasso in una meteora e impattare un pubblico preciso, scelto prima di tutto per profilo comportamentale. Una vera bomba.”

 

6) Condivisione, presenza sui social, esperienza culinaria, esperienza percettiva e visiva, legame con il territorio. Credo che siano state queste le parole chiave che hanno reso l’avventura di Pescaria un caso di studio assai noto.
In che modo oggi la condivisione della propria esperienza personale e di marca favorisce le azioni di marketing? In cosa invece le ostacola?

“La condivisione di una esperienza personale di un dato brand è alla base del nuovo WOM (Word of Mouth o passaparola). Ed è anche un processo vecchio come il cucco, ma più efficace di ogni altro processo pubblicitario.

Ognuno di noi influenza con la propria esperienza quella di un individuo socialmente vicino. Nel bene e nel male.

Quindi oggi come ieri i mercati sono conversazioni. Ma oggi più di ieri queste conversazioni corrono veloci. E se la dicotomia prezzo/prodotto si incricca, tutto il marketing mix traballa, il web è la benzina perfetta per accelerare un processo di distruzione.”

 

7) Etica, bisogni, mondo connesso, marketing. Nell’immaginario comune il marketing è un mezzo per vendere senza dare troppo peso all’etica. Per me invece marketing ed etica possono stringersi la mano, perché le persone possono essere anche accecate da bisogni indotti ma lo diventano solo se sei bravo a raccontarglieli, a raggiungere un loro nervo scoperto, a capire cosa vogliono ascoltare, in quale contesto si muovono e come vorrebbero diventare (o apparire). Il compito del bravo comunicatore secondo me è saper raccontare una storia con serietà e verità.
Quali sono per te le storie che le persone vogliono ascoltare e sentire proprie?

“La gente non vuole storie. La gente vuole valore. E il valore è alla base del marketing.
Il marketing è un processo di creazione del valore in uno scambio attinente un prodotto all’interno di un mercato competitivo o ipercompetitivo.

A volte inventiamo storie per darci un tono. Lo fanno le persone. Lo fanno le imprese.
Il marketing di per se è etico: è una funzione aziendale che oggi più che mai grida a un nuovo concetto di capitalismo, più umano, più concreto, capace di sopravvivere a un mondo immunizzato in cui la pubblicità (che non è sinonimo di marketing e neppure di comunicazione, ricordiamolo) spesso non basta senza un sostanziale concetto di comunicazione. E tale concetto non può più essere una mezza verità.”

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8)
Da qualche tempo la Puglia ha riscoperto il turismo eno-gastronomico puntando anche sulla rivalutazione di bellezze paesaggistiche, che da noi certo non mancano, e sapienza culinaria. Si parla di eccellenza ma anche di tradizione. Tutto questo, un po’ per orgoglio patriottico, ci ha fatto diventare avvezzi allo scatto compulsivo di cibo.
In questo turbinio c’è stato di sicuro chi ha pensato di buttarsi nella “professione” condivido-foto-di-cibo-e-colleziono-like pensando che tutto sommato non ci volesse molto a basare un successo sul cibo pugliese.

Di fatto però dietro una semplice immagine si celano studio, approfondimento e la pazienza di comprendere che i risultati aziendali non si costruiscono solo con i like.
Quali atteggiamenti umani hai intercettato e studiato quando sei partito con il progetto di comunicazione di Pescaria? Quanto secondo te la cultura del cibo può realmente dare valore a un territorio e cos’altro servirebbe alla nostra Puglia, oltre al culto del cibo, per sottolinearne cultura, storia, arte e tutto ciò che non passa solo dal soddisfacimento di un bisogno immediato e, passami il termine, alla moda?

“Partiamo dalla base. Partiamo dal mix di marketing. Due componenti non c’entrano nulla con la comunicazione e sono prodotto e prezzo. Poi viene il punto vendita e le modalità di comunicazione.

Se prodotto e prezzo non reggono, possiamo fare tutte le foto che vogliamo, i like che immaginiamo e le condivisioni che sogniamo: l’azienda non sopravviverà.

Noi abbiamo semplicemente creduto in uno strumento che catalizza le conversazioni e permette alla gente di condividere esperienze: abbiamo cercato un modo semplice per poterlo raccontare, l’abbiamo fatto nostro e l’abbiamo condiviso con tutti.
Molti l’hanno fatto loro e non vedono l’ora di farne propria esperienza. Ma questa dinamica non l’abbiamo inventata noi. Ci abbiamo creduto e continuiamo a crederci: non c’è miglior investimento per un food retail di quello fatto per incrementare, catalizzare e accelerare il passaparola.”

 

9) Sempre nel Cluetrain, la trentesima tesi afferma: “La fedeltà a una marca è la versione aziendale della coppia fissa, ma la rottura è inevitabile ed è in arrivo. Poiché sono in rete, i mercati intelligenti possono rinegoziare la relazione con incredibile rapidità.”
Quale bisogno nasce nelle persone quando si riconoscono in una identità di marca? Quanto contano le esperienze degli altri e a cosa secondo te le persone aspirano possedendo un prodotto, un oggetto, uno status symbol?

“Oggi siamo quello che facciamo. E quel che facciamo lo condividiamo. Da questa condivisione traiamo la soddisfazione che sta è alla base di un bisogno di esperienze pionieristiche, emulative, collettive, esplorative.

Le persone non si riconoscono nei marchi, ma nelle esperienze che questi generano: le persone sono fedeli alle esperienze. E quando uno di noi ne fa una negativa, può creare un effetto domino e azzerare anni di buone esperienze collettive.

Oggi possediamo raramente, ma facciamo esperienze sempre.”

 

10) E ora ammettilo: quanta psicologia c’è nel tuo lavoro?

“Molta. Perché un’esperienza è fatta di percezioni, emozioni e attenzione. Saper catturare l’attenzione delle giuste persone, emozionarle e portarle a percepire un bisogno ha tanto di psicologico.”

 

11) Nel tuo intervento al TEDxBarletta parli anche di fortuna e dici che “la fortuna è un animo pronto che incontra una buona occasione”. Che rapporto hai con la fortuna e come pensi che possa influire (e in che misura) su un successo aziendale?

Non posso controllare il vento, ma posso orientare le mie vele. Questa frase la trovai scritta nel cassetto di una vecchia scrivania, su un foglio anonimo, quando cambiai casa.
In quel momento realizzai che fortuna e sfortuna sono concetti equivalenti. Che ognuno di noi attraversa stanze sempre diverse: ma il modo in cui sopravviviamo a ognuna di esse fa la differenza.
Io so che è normale perdere qualcuno di caro, ammalarsi, perdere un cliente, vincere una malattia, trovare l’amore oppure perderlo. Non so quando e se capiterà a me. E siccome tutto può succedere, spero di tenere il mio animo pronto.”

 

12) Chiudo l’intervista con una considerazione personale che riguarda la mia esperienza di cliente inserita in un contesto fortemente connotato dall’utilizzo dei social network e dalla condivisione (a volte compulsiva) di molti aspetti della vita privata.
Non amo utilizzare i social per parlare degli aspetti privati della mia vita e della mia esperienza di consumo come fruitrice di un prodotto/servizio. Se proprio voglio farmi notare, preferisco utilizzare questi canali più come strumento di condivisione di riflessioni, di conoscenze, di belle storie, di approfondimenti, a volte anche di goliardia.
Credo che il loro vero senso sta nell’uso che se ne fa e nel pubblico che ci si sceglie. Del resto gli algoritmi spesso scelgono per noi cosa mostrarci, con la conseguenza che ci limiteremo ad esplorare forse solo il nostro piccolo universo.

Che dialogo esiste fra marketing e social network oggi? Siamo nella società delle apparenze o è ancora rimasto spazio per raccontare, anche attraverso una marca, storie emozionanti, casi interessanti, approfondimenti pensati che non seguano etichette e mode? La tendenza attuale ci porterà verso il totale appagamento del pensiero narcisista “guardate come sono bello con in mano il mio status symbol“?

“Spero sopravviva il buon senso. E credo che non abbiamo ancora preso dimestichezza con la rete.

Il marketing e i social sono fortemente connessi, perché è attraverso i social che molte imprese possono raggiungere i propri obiettivi strategici.
Per alcune, le grandi, i social sono uno dei tanti strumenti. Per le altre, quelle piccole e con budget risicati, il digital è spesso il miglior strumento dal punto di vista del rapporto costi/benefici.

Quanto alle modalità d’uso, il discorso si sposterebbe sull’ambito quasi filosofico ma ecco, preferisco chiudere con un altro esempio.
I Protocolli dei Savi di Sion è un falso storico creato per alimentare l’odio contro gli ebrei e citato nel Mein Kampf, che fu diffuso in modo massivo in Germania alimentando di fatto il movimento nazista.
Tale diffusione avvenne grazie alla rotativa. Avete mai sentito qualcuno dare la colpa di tutto a Gutenberg? Io no.
Però ho sentito qualcuno dare la colpa a Zuckerberg dell’uso distorto dei social…”

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Domingo parla di lavoro di squadra e di marketing come fulcri di un sistema che metta insieme le peculiarità di ciascun individuo e la scala di valori.
Sì parla di valori certo, anche se il marketing non sempre è associato al concetto di valore: eppure le persone acquistano se si sentono rappresentate da una marca o da un prodotto e se quel prodotto riesce ad essere in linea con i propri valori.

Ciò che più mi ha colpito nelle parole di Domingo è stata la convinzione che lavorare in modo integrato, superare gli individualismi e perseguire un progetto condiviso siano i primi presupposti di una buona cultura aziendale.
Ogni talento può emergere indipendentemente dall’età e può diventare socio e partner di agenzia.
Questo ha portato alla creazione in Brainpull di un gruppo molto coeso perché le gerarchie sono soppiantate da leadership meritocratiche.

Nella tanto adulata cultura aziendale del sud credo che a volte manchi proprio questa visione: superare età e gerarchie per lasciare pieno spazio al talento e sottolinearlo.
In azienda, come in qualsiasi contesto sociale, dobbiamo imparare ad abbandonare l’idea antica del vecchio con esperienza che insegna al giovane e ragionare in termini di scambio continuo tra generazioni e competenze.
Un’azienda può crescere anche con qualche spintarella esterna o politicizzata, ma quali valori veicola e quale esempio lascia ai suoi dipendenti?

Da questa intervista non ho solo compreso meglio Brainpull e il suo fondatore ma ho ritrovato alcuni punti saldi in cui credo, primo fra tutti la convinzione che se vuoi crescere devi dare il buon esempio, devi attuare una leadership basata sul merito e non su antichi privilegi già acquisiti e mai messi in dubbio.
E credo che Brainpull questo lo faccia davvero, non è solo una posa.

Dunque concludo affermando con forza che non di solo pane vive il dipendente e non di soli panini può vivere il marketing.
Dietro ci deve essere studio, competenza, intuizione, capacità di riconoscere i meriti.

 

 

Laura Ressa

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Le foto inserite all’interno del testo sono state gentilmente fornite da Brainpull


Copertina: Domingo Iudice al lavoro negli uffici Brainpull

Scritto da:

Laura Ressa

Classe 1986 🌻 Digital Marketing Specialist & Web Writer 🌻 Frasivolanti