
Aveva appena 12 anni e mezzo Natale quando, non sapendo quale rischio correva, infilò nell’impastatrice la mano che andò a finire esattamente tra le lame.
Si procurò così un grosso taglio, un intervento chirurgico per salvare la mano e 13 punti di sutura. All’epoca lavorava in un panificio e cominciava ad imparare il mestiere di panettiere dopo aver lavorato per due anni come garzone delle consegne trasportando, sulle spalle, grossi cesti carichi di pane e altri prodotti.
Quella mano ferita dalle lame dell’impastatrice oggi funziona bene: “Fu bravo il chirurgo!” racconta mostrandomi il segno della cicatrice vicino al polso sinistro. Mentre lo dice, muove la mano e le dita per farmi vedere che non ha subito nessun danno alla mobilità.
Natale, classe 1954, è un uomo semplice. Parla pacatamente, cammina piano, ha la schiena un po’ curva per i segni che il tempo e 60 anni di lavoro gli hanno lasciato addosso come eredità. Quella che vi racconto qui è una storia di fatica, di pazienza, di tempo che passa, di quotidianità semplice, di fiducia che le cose si aggiustino, di riconoscenza e accettazione sincera di tutto quello che la vita porta o toglie.
Conosco Natale da circa una decina d’anni. Mentre mi racconta la sua storia lo guardo e mi viene da sorridere quando penso a tutti quelli che si vantano di aver fatto la “gavetta”, di essersi laureati con pochi mezzi o di aver svolto lavori pesanti.
La storia di ognuno è importante per la propria formazione, ma alcune volte è utile ridimensionare il proprio sforzo ascoltando le storie degli altri.
Il termine “lavoro” ha un significato molto delicato e duttile, e spesso oggi lo confondiamo con il nostro status sociale, con la possibilità di sentirci realizzati o appagati nel mondo. Lo facciamo coincidere con la possibilità di dire “faccio questo” e in qualche modo di riconoscerci in un ruolo che ci fa comodo da usare come facciata e ci fa percepire di poter ricevere rispetto e stima (oltre naturalmente allo stipendio).
Il lavoro può addirittura rappresentare per alcuni l’illusione di avere più successo con le donne o con gli uomini: e non parlo solo di un cospicuo conto in banca che possa attirare come miele ma, appunto, della possibilità di sentirsi apprezzati solo se si è raggiunta una certa posizione lavorativa.
Ma questa è un’altra storia, e magari più in là ve la racconterò.
60 anni donati al lavoro: dal formaggiaro al mercato, dal panificio alla leva obbligatoria, dal letame ai lavori socialmente utili
Per Natale il lavoro ha rappresentato un’indipendenza conquistata troppo presto, un sacrificio vero e, col tempo, una necessità. La sua storia affonda le radici molto lontano.

Aveva appena 6 anni quando cominciò a lavorare dal “formaggiaro”.
Al mattino presto, prima di andare a scuola, sistemava i prodotti sul bancone e negli scaffali.
Dopo la scuola, Natale tornava a mettere a posto il bancone e gli scaffali che aveva sistemato al mattino. E così proseguì ogni giorno fino all’età di 10 anni quando cominciò a lavorare al mercato: anche lì sistemava i prodotti sui bancali e tornava all’orario di chiusura per dare una mano a smontare tutto.
A 12 anni Natale iniziò a lavorare in panificio facendo le consegne dei prodotti a domicilio. Prima si usava la bici per le consegne, e ci si caricava sulle spalle grosse ceste di pane che ne potevano contenere diversi chili. Non proprio un lavoro facile, quindi, per un bambino!
E poi i bambini a quell’età dovrebbero studiare e giocare, non lavorare. Ma Natale invece voleva lavorare, in quel periodo della sua vita questo era un desiderio.
Guadagnava poche Lire e ne teneva per sé ancora meno: quasi tutto quello che guadagnava lo portava ai genitori.
All’età di 13 anni Natale lavorava sempre in panificio ma imparò a fare il pane e gli altri prodotti da forno. Non si occupò più delle consegne, a meno che non fosse necessario, acquisì la tecnica e fece molta pratica: divenne panettiere e il suo orario di lavoro cambiò.
Il turno cominciava alle 3 del mattino affinché il pane e gli altri prodotti da vendere fossero pronti già dalle prime ore dell’alba. Turno? Che dico? Non esistevano turni. Il padrone pagava a giornata e senza contratto: del resto parliamo pur sempre di lavoro minorile.
Nonostante le condizioni lavorative, a Natale piaceva imparare quel mestiere e mi racconta di averlo scelto anche se sua madre non voleva che diventasse panettiere.

Con il tempo il mestiere cominciò ad appartenergli sempre di più finché Natale, insieme al titolare del panificio che lo aiutava un poco, arrivò a lavorare 3 quintali e mezzo di farina al giorno. Farina con la quale realizzava i vari prodotti che venivano venduti.
Il sabato arrivava a 5 quintali di farina per un totale di 20 quintali alla settimana.
Giunse poi il periodo della leva militare obbligatoria e Natale, che prestò servizio in Marina, si fece voler bene anche lì per la sua arte. Tutti volevano assaggiare le prelibatezze che preparava, pane e focaccia fioccavano in grande quantità dalle sue mani svelte e venivano serviti sulla nave.
Quando tornò dal servizio militare, Natale tentò la strada dell’apprendista idraulico. Raggiunse quindi il fratello in Calabria prendendo un treno che da Bari arrivò a destinazione solo 12 ore dopo.
Il lavoro consisteva nell’imbiancatura di tubi e altri elementi idraulici presso alcuni cantieri in cui già lavorava il fratello (più grande di lui).
Una volta terminato il lavoro, cambiavano cantiere a seconda delle esigenze della ditta per cui lavoravano. Se i cantieri erano diroccati in paesini sperduti, restavano persino a dormire per terra lì senza la possibilità di riposarsi su una brandina o in un ostello vicino.
Quella esperienza lo riportò a lavorare anche in Puglia in varie città, ma il lavoro terminò quando il titolare decise di licenziare lui e altri operai.
Natale ormai non era più il bambino dei tempi del formaggiaro, e tornò al suo antico mestiere: il panettiere. In quel momento era la prospettiva migliore.
Nelle mani aveva molta esperienza già, quindi si rimboccò le maniche in quello che gli riusciva bene finché non capitò l’occasione: fu assunto in una grande azienda specializzata nella lavorazione di carni. Lavorò come addetto al depuratore occupandosi dello smaltimento del letame degli animali. L’azienda, con il tempo, mise a disposizione degli operai anche docce e armadietti per conservare gli indumenti da lavoro.
Per una serie di difficoltà, però, nei primi anni ’90 la sede in cui lavorava Natale fu chiusa dopo 2 anni di cassa integrazione.
Di lì a poco, in seguito a un progetto realizzato dal Comune di appartenenza e dall’INPS per i lavoratori in mobilità, Natale cominciò a svolgere lavori socialmente utili.
Sia lui che sua moglie Rosa erano convinti che stringendo i denti sarebbe arrivata un’altra buona occasione. Così Natale continuò con i lavori socialmente utili per altri 6 anni. Accettava quel che la vita in quel momento gli riservava.
In quegli anni Natale svolse varie mansioni: dalla pulizia dei giardinetti pubblici alla realizzazione della segnaletica stradale, dall’assistenza a un ragazzo non vedente alla mansione di usciere.
L’assistenza al bambino non vedente durò circa da quando frequentava la 5° elementare fino alle scuole medie e Natale seguì un corso preparatorio per svolgere al meglio il suo compito, che consisteva nel supporto in attività quotidiane e negli spostamenti. Il ragazzo rimase affezionato a lui anche quando quel lavoro terminò e c’è un aneddoto tenero che Natale ricorda di quel periodo. Un giorno la classe del bambino andò a vedere un film al cinema e in quella occasione c’era anche Natale che lo aiutava.
Mentre erano in sala il bambino gli disse “è bello il film!” anche se naturalmente poteva solo ascoltare i dialoghi.
Raccontando l’episodio, Natale ci ripensa sorridendo.
La licenza media Natale la conseguì frequentando i corsi serali e riuscì così a partecipare ad un concorso.
Da circa 16 anni lavora nell’ufficio in cui si reca ancora oggi ogni giorno, a 66 anni, dopo 60 anni di lavoro. All’inizio si occupava di attività di sportello, ora svolge altre mansioni d’ufficio. Non può ancora andare in pensione, ma dovrebbero mancargli un paio d’anni al meritato riposo dopo una vita passata a piegarsi al volere di questo o quel padrone, di questa o quella necessità e contingenza. Aggrappandosi in qualche modo sempre, con forza, alla sua incrollabile positività: quella che gli fa dire anche nelle situazioni più nere “passerà, supereremo tutto”.
Ascoltando la sua storia penso alle persone come lui, che raramente hanno avuto riconoscimenti ma che hanno svolto sempre onestamente il proprio lavoro. Penso a chi possiede un mestiere, portato avanti nel tempo con onestà e sudore.
Penso poi alle persone disperate, sfruttate ancora oggi sui campi per pochi euro sotto il sole cocente e senza tutele. Ancora adesso questo avviene, in una società che si fa portatrice (a parole) di buoni sentimenti e alti ideali, e che poi miseramente si svela in tutta la sua bassezza di fronte ai diritti negati degli ultimi.
Per me sono queste persone i veri eroi del nostro tempo e non (perdonate la franchezza) chi oggi viene etichettato troppo facilmente come eroe, chi svolge la professione pubblica e può contemporaneamente svolgere anche attività privata. Vedi ad esempio categorie come i medici: da stimare, senza dubbio, per il lavoro encomiabile che fanno ma non in tutti i casi esempi di integrità e verità.
Del resto le persone brave e meno brave, lo sappiamo, le troviamo in tutte le professioni e dunque non si può categorizzare come “gruppo di eroi” tutti gli appartenenti una certa categoria professionale.
Un lavoro dignitoso e fatto bene dipende dal singolo, dunque, dall’impegno cioè di ciascuno a mettere cura, attenzione e obiettivi nel proprio fare quotidiano.
Non per tutte le professioni inoltre valgono le stesse tutele e gli stessi privilegi, e dunque stimo ancora di più chi pur senza tutele né privilegi continua ogni giorno a lavorare a testa alta.
Fosse anche un lavoro per il quale non viene attribuito alcun riconoscimento o che non viene raccontato come fosse uno status symbol.
Nessuna persona merita di essere considerata buona o cattiva a seconda dell’abito, della tuta da lavoro, del camice o della divisa che indossa.
E qui sorge il dilemma: svolgiamo il nostro lavoro per sostentarci e avere un futuro o per rispondere con orgoglio alla domanda “che fai nella vita?” e sentirci accettati dalla comunità di cui siamo parte?
Se esistono eroi, per me sono quelli che conoscono il lavoro che fanno e che lo fanno bene. Quelli che non hanno bisogno di sentirsi ok e giusti per gli altri.
Gli eroi sono quelli che mettono qualcosa di autentico nel proprio approccio al lavoro e alle persone, anche nelle mansioni più semplici o considerate “umili”.
Quando penso al concetto di lavoro e dignità penso a tutti loro, alle persone come Natale, e a quanto la dignità non si conquisti con un titolo di studio da appendere nello studiolo, con i soldi o con una posizione ambita in organigramma.
La dignità non si misura dalla poderosità del conto in banca o dai conti che ti fai in tasca, dall’arte di essere affabulatore o di gestire le tue poche conoscenze, ma da quanto conta per te coltivare la famiglia e dare a quella famiglia i mezzi per vivere.
La dignità si misura in base a quanto conta per te far bene quello che devi fare, anche quando questo significa smaltire letame o trasportare chili di pane sulle spalle con il rischio di essere investiti dalle auto al prossimo incrocio.
So che detta così potrebbe sembrare una frase fatta, ma ci credo ancora in questa forma di dignità e dovremmo crederci tutti un po’ di più anche in un tempo che ci vuole per forza – o per posa – cinici.
Oggi Natale, dopo anni di sudore e incertezza lavorativa, ha imparato a fare le fotocopie e quando gli chiedo quale sia la cosa più importante che ha imparato dal lavoro, lui sorridendo mi dice: “le fotocopie!”. E aggiunge con fierezza: “So fare anche le scansioni”.
Mi fa riflettere questa risposta per me inaspettata. Mi fa pensare a quanta poesia io veda in lavori che ti spaccano la schiena e a volte ti mortificano. Perché sì, fare il pane può essere bellissimo e puoi essere anche bravissimo in quel mestiere, ma come si vivono anni di fatica? Come si vive un’infanzia passata a respirare farina per pochi soldi?
Io non lo so, e credo che pochi fra noi oggi sappiano veramente cosa vuol dire.
Natale ha vissuto anche le conseguenze della malnutrizione della sua infanzia da lavoratore. Ha vissuto il deperimento fisico e il conseguente esaurimento perché ciò che mangiava non era sufficiente e non gli dava le energie necessarie per sostenere un lavoro troppo faticoso per l’età che aveva.
Inutile stare a specificare le grandi conseguenze fisiche e psichiche che questo ha comportato.
Natale e le epifanie sul lavoro: dall’impasto alla fotocopiatrice
Scusate il gioco di parole ma la storia di Natale mi regala grandi epifanie, cioè rivelazioni sul nostro modo “moderno” di intendere il lavoro e su come ancora esistano divari forti tra categorie professionali.
Non solo: le differenze si notano anche in senso temporale, tra il lavoro di ieri e quello di oggi esistono infatti molti elementi di distanza.
I mestieri che non conosco e di cui non possiedo né pratica né teoria per me rappresentano il mondo delle possibilità. In quanto tali, acquistano molto fascino.
Forse guardo a quei mestieri con trasporto romantico non solo per la maestria che c’è dietro al gesto dell’artigiano, ma anche perché non li ho mai sperimentati. Forse se lo facessi, mi mancherebbe la mia calda scrivania. Oppure no, bisognerebbe provare.
In ogni caso il percorso che capita o che scegliamo riusciamo a portarlo avanti perché ci serve lavorare e per sopravvivere, ma a volte capita la magia e il nostro lavoro diventa anche passione totalizzante.
Non in tutti i casi però la magia avviene, e quindi bisogna in qualche modo vederla nella semplice quotidianità.
Oggi i contratti sono spesso precari, certo, e il modello lavorativo è cambiato tanto rispetto al passato, ma la storia di Natale mi ha mostrato che anche in tempi in cui collocarsi poteva essere più facile, c’erano comunque molti buchi neri e sfruttamento.
E allora il lavoro cos’è? Non certo quello che ci serve per farci belli agli occhi degli altri o per crederci migliori di chi non ce l’ha fatta. Non è il metro di giudizio per capire chi sia interessante e chi meno, chi abbia più cose da dire e chi meno.
Ho imparato molto di più da persone come Natale che da chiunque altro si creda superiore, da chi quel poco che sa te lo sbatte in faccia, da chi pensa di avere grosso potere d’acquisto solo per il fatto di sembrare sicuro di sé e di mostrare un ego sovra-sviluppato ai colloqui di assunzione.
No, non dobbiamo neanche considerarli esempi del genere se non come esempi da ignorare.
Se vali, vai avanti in ogni caso. E non hai bisogno neanche di troppe parole per dimostrarlo ma piuttosto di agire.

Natale mi ha aperto una nuova prospettiva, un’angolazione da cui non mi ero mai affacciata, una finestra che non avevo mai provato ad aprire.
Per lui, che ha passato la vita lavorando e svolgendo mansioni che adesso definiamo umili, l’apice della realizzazione è saper usare la fotocopiatrice.
E non perché Natale sia una persona umile – che pure è vero – ma perché il lavoro è lavoro qualsiasi cosa tu faccia, non è un trofeo da esporre nella credenza. E dovremmo ricordare più spesso il significato primordiale del termine.
Ma come? – potremmo chiedergli – Non sei contento di aver fatto il panettiere e di aver imparato la fine arte della panificazione?
Sicuramente se ora avesse tra le mani gli ingredienti, comincerebbe in automatico a impastare e infornare. Quella è una capacità che ti resta dentro come il gesto automatico di guidare, andare in bici o allacciarsi le scarpe.
Natale, in questo lungo percorso, è riuscito ad adoperare uno strumento “tecnologico” come la fotocopiatrice. Ha cioè attraversato l’evoluzione degli strumenti di lavoro, ha affinato le mani che ora sanno fare tante cose. Ha fatto il balzo: da quella ferita di 13 punti sulla mano all’utilizzo dei tasti per avviare la stampa delle copie. Dal movimento automatico di impastare a quello più rifinito e ragionato della scelta del formato A4 o A3 e della stampa solo fronte o fronte/retro.
Natale non è uno di quelli che hanno fatto lo stesso mestiere per una vita intera, eppure ha sempre lavorato e ha sempre adoperato le mani come mezzo di sostentamento e come strumento per soddisfare le necessità basilari.
Natale non ha avuto nulla in regalo dal lavoro, ma ha visto in ogni esperienza un dono, una cosa che andava fatta, accettata, perché quello sforzo gli sarebbe sicuramente servito.
Si può dire che abbia fatto il salto evolutivo nella sua storia lavorativa?
No, non utilizzerei il termine “evoluzione”.
Credo che Natale abbia compreso, più di chiunque si riempia la bocca e la testa di parole come “sacrificio”, quanta reale conquista e sudore ci siano dietro il gesto semplice di lanciare la stampa di una fotocopia. Un gesto che adesso lo fa sentire importante dopo 60 anni passati a fare di tutto, a compiere lavori che per molti sarebbero impensabili. O per i quali chiunque si appendere da solo una medaglia al collo.
Natale invece ne parla come di qualcosa di naturale e necessario in quel periodo della sua vita: è come se la strada percorsa fosse stata utile a raggiungere quel po’ di tranquillità e certezza che ha dovuto conquistare con grande pazienza.
Accettare quel che accade con la pazienza dei cerchi negli alberi
Di furbi nel lavoro ce ne sono tanti, sono i tipi che pur di non lavorare utilizzerebbero ogni mezzo o le scuse meglio concertate. Quelli che lavorano per sport solo per passare la giornata o si tirano indietro, quelli che non vogliono imparare nulla di nuovo, quelli che fanno qualsiasi cosa con poca voglia e poco interesse ma soprattutto con pochissimo senso del dovere.
Per quelle persone spero che esista un giorno la possibilità di capire o che ci sia un modo per renderle davvero utili alla società. Per tutti gli altri può e deve esserci invece maggiore considerazione e riconoscimento affinché diventino loro gli esempi da seguire e non i “furbi”.
E chissà che un giorno le persone che hanno compreso il valore del lavoro non riescano a trascinare le masse e a mostrare che adoperare dignità e correttezza non è solo giusto ma ti rende una persona migliore. Qualsiasi lavoro tu svolga.
Questo è il mio sogno. E Natale è una di quelle persone che mi hanno aiutato a crederci ancora, a sognare ad occhi aperti.
La sua frase ricorrente è “In bocca al lupo!” e poi “Ce la faremo, l’importante è che stiamo bene”. Questa positività un po’ fanciullesca è disarmante, mi fa credere che le cose che speriamo, che desideriamo o auspichiamo, con un po’ di pazienza, in un modo o nell’altro si realizzeranno.
Come nei cerchi concentrici degli alberi, la vita ci riserva nuovi giri di giostra. Dovremo reggerci forte a ogni giro con la forza di restare in equilibrio e di lasciare però che tutto accada e che i cerchi seguano il loro corso.
Mi piace pensare alla storia di Natale così: come l’insieme paziente dei cerchi concentrici di un tronco secolare.
Non sappiamo cosa la vita ci riservi al prossimo giro, ma possiamo affacciarci seguendo la scia con la forza di chi guarda negli occhi ciò che accade adesso e, un passo dopo l’altro, ciò che accadrà.
“Le cose migliori nella vita sono le più vicine: il respiro nelle narici, la luce nei tuoi occhi, i fiori ai tuoi piedi, gli incarichi nelle tue mani, il sentiero del bene proprio davanti a te. Allora non cercare di afferrare le stelle, ma svolgi le semplici cose della vita come vengono, sicuro che le funzioni quotidiane e il pane quotidiano sono le cose più dolci della vita.”
(Robert Louis Stevenson)

Laura Ressa
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Copertina: Photo by Cesar Carlevarino Aragon on Unsplash
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