La settima edizione della notte del lavoro narrato ci ha costretti alla distanza, ma non ha fermato i nostri racconti. Anzi, ha restituito al nostro #lavoronarrato un valore tutto nuovo, ritrovato, una comunità di persone che si sono incontrate in forme diverse per raccontare la propria idea di lavoro fatto bene.
Proviamo a seminare, ognuno come può e vuole. Non tanto per cambiare la testa degli altri o per cambiare il mondo, anche se sarebbe un obiettivo bello e ambizioso. Lo facciamo perché ci piace, perché ci fa sentire utili in qualche modo alla società e al futuro. Lo facciamo perché questo è il nostro contributo alla creazione di qualcosa di migliore, alla diffusione di racconti di lavoro ben fatto dai quali magari altre persone possano sentirsi ispirate.

Lo facciamo perché ognuno sceglie la propria forma di “lotta”, di risanamento del cuore, di rinascita, di scoperta dell’altro. Lo facciamo perché abbiamo disperatamente bisogno di qualcosa in cui credere ancora, e abbiamo bisogno di condividerlo con le persone. Con quelle che sanno coglierne subito il senso, e poi chissà forse anche con chi ancora quel senso non vuole, non può o non sa coglierlo.

Vincenzo Moretti al termine del 30 Aprile 2020 ha scritto:
“E sono troppo contento perché a un certo punto ho pensato davvero che senza le nostre piazze, biblioteche, associazioni, aziende, scuole, bar, senza la bottega di Jepis e la pizza di Michele, non ce la potevamo fare. E invece c’è un momento in cui funziona proprio come dice Philip Henslowe, l’impresario di Shakespeare in Love. Te lo ricordi? Per tenere a bada Messer Fennyman, a cui deve dei soldi, ripete ogni volta “si risolve”, e alla domanda del sempre più furibondo creditore, “come?”, risponde puntualmente “non lo so, è un mistero”.
Sì, amico mio, c’è un momento in cui bisogna pensare che si risolve anche se non sai come, è il momento in cui bisogna buttare il cuore oltre l’ostacolo, quello in cui vai avanti nonostante la nebbia, perché si risolve, soprattutto se hai la fortuna di avere persone a cui vuoi e che ti vogliono bene, persone con cui condividi valori, idee, progetti, cose fatte e da fare.”

Qui di seguito vi mostro le persone che mi hanno accompagnato in questa notte bellissima e vi mostro i loro racconti straordinari. Vi mostro chi quest’anno ha contribuito al grande puzzle del #lavoronarrato raccontando la propria idea di lavoro fatto bene.


Il #LavoroNarrato nei disegni e nel processo creativo di Federica Icolaro 

93792442_2288858648090551_7490806423199154176_nCominciamo il viaggio tra i protagonisti della Notte del #lavoronarrato 2020 con Federica Icolaro.
Per l’occasione Federica ha realizzato due disegni che spiega così:
“Un lavoro ben fatto richiede cura, precisione, attenzione al dettaglio, pazienza, ma soprattutto gioia e passione. Come la rosa è il frutto della capacità creativa di Madre Natura, così il lavoro (di qualsiasi tipo) dovrebbe essere espressione del nostro estro e originalità come singoli.
Per un lavoro ben fatto, la razionalità (il triangolo), geometria del pensiero, a volte può sovrastare l’estro (la rosa) o giocare in complementarietà. Anche in natura forme irregolari ed eccentriche interagiscono con linearità e precisione, purché il risultato sia sempre armonico ed esteticamente piacevole.”

Lavoro può essere passione! E anche negli hobby mettiamo in campo il nostro far bene le cose.
Per la Notte del Lavoro Narrato Federica ci mostra un angolo del suo paradiso fatto di colori, matite, fogli, mondi possibili che crea con le sue mani. In sottofondo aggiunge una musica che faccia scorrere i pensieri e fluire le mani. Il resto si compone nella sua mente e trova spazio sul foglio bianco attraverso il pennarello.
Grazie a Federica Icolaro per aver condiviso con noi cosa vuol dire, nel suo angolo di creatività, dar forma a qualcosa di nuovo e di bello!
#lavoronarrato, per noi il lavoro vale!

 

Il #LavoroNarrato di Domenico Cardinale – Scudi protettivi per l’emergenza sanitaria

11130139_10206721735631720_8132073227101592377_oDomenico Cardinale è biologo e nutre da sempre la passione per la natura, per la birra e per la tecnologia. Con un gruppo di amici ha fondato il collettivo “Officine Mediterranee” e in questo video ci racconta il suo lavoro ben fatto.
Dall’inizio dell’emergenza sanitaria di questi mesi Domenico sta utilizzando la sua stampante 3D per realizzare scudi protettivi da donare al personale sanitario di vari ospedali. Come lui anche altri volontari stanno utilizzando le proprie stampanti 3D allo stesso scopo.
Un servizio gratuito che questi ragazzi realizzano mettendo in campo i propri strumenti e competenze.

 

Il #LavoroNarrato di Guido Cauli e Teodora Ranieri – Fotografare è raccontare le persone oltre le maschere

50031905_10215755397671724_8352195026746343424_oPer la Notte del Lavoro Narrato, Guido Cauli e Teodora Ranieri di CauliWeddings – Your Wedding Reportage hanno realizzato questo video-racconto.
Guido e Teodora sono fotografi professionisti e hanno deciso di realizzare reportage di matrimonio dopo essersi sposati nel 2008.
Per loro fotografare vuol dire entrare in contatto con le persone, raccontare le loro storie, oltrepassare la superficie dell’estetica per far emergere quel che non sempre traspare.
Cosa vede il fotografo nella persona che sta fotografando?
Dice Guido: “Siamo condizionati dalla facciate, dalle maschere che mostriamo al pubblico. Spesso quel che siamo veramente scompare dietro il cartonato di pubblica utilità. Togliere per un attimo le maschere è il nostro obiettivo, la sfida di un lavoro ben fatto sta nel mostrare le emozioni senza che queste siano mascherate.”
Teodora nel video cita Picasso: “Chi vede correttamente la figura umana? Il fotografo, lo specchio, o il pittore?”
Per Guido e Teodora la risposta a questa domanda è: il cuore. Ed è quello che contraddistingue sempre un lavoro fatto bene e carico di dignità.
Al termine del video c’è un mini-saluto speciale 🙂

 

Il #LavoroNarrato di Tiziano Arrigoni – Il mestiere d’insegnare, il mestiere di scrivere

arrigoniTiziano Arrigoni è insegnante di italiano e storia.
La scuola nella sua famiglia ha sempre rivestito grande importanza: era vista come il luogo in cui poter imparare a stare al mondo nel modo migliore. Tiziano in questo video ricorda suo nonno che aveva frequentato la scuola solo fino alla terza elementare ma capiva l’importanza delle cose. Quando Tiziano era bambino, il nonno lo portò a Siena con il bus perché sapeva cogliere la bellezza e intuiva, pur non avendo solide conoscenze scolastiche, che quella città sarebbe stata importante per la formazione del nipote.
La scuola per Tiziano è una comunità e l’insegnante non è un semplice trasmettitore di dati.
L’insegnante deve riuscire a sviluppare empatia e dare qualità al tempo, deve riuscire a rompere il muro tra sé e gli studenti. Creare la comunità critica, far capire ai ragazzi che quella materia che stanno studiando fa davvero parte della loro vita. Non si possono trasmettere cose aride perché senza empatia non si insegna e non si impara.
Lavoro ben fatto per Tiziano vuol dire dare valore al tempo.
“Mi piace cercare le storie del mondo” ha detto.

 

Il #LavoroNarrato di Anna Ressa – Tra i «contaminati interdisciplinari» la risposta umana all’era dell’algoritmo

anna2Yesterday I was clever, so I wanted to change the world.

Ho iniziato a lavorare come libera professionista nel 2003 – prima ancora di laurearmi in lingue – più per condizionamento che per convinzione, come accade ancora a tanti. Oggi infatti, a chi me lo chiede, sconsiglio sempre di adattarsi alle esigenze di qualcun altro.

Negli anni la libera professione si è rivelata un’opportunità di vivere esperienze diverse, di collaborare con altri professionisti, di visitare uffici grigi o pieni di sole, aziende piccolissime o molto grandi, centri di ricerca polverosi o avveniristici, passeggiare in un immenso campo di girasoli nell’afa di luglio, viaggiare spesso nelle profonde province rurali o in luoghi suggestivi e a me sconosciuti nei quali altrimenti non mi sarei mai recata, raccogliere consigli preziosi e fare tesoro degli esempi negativi: questo è ciò che faccio da quasi 17 anni. Ho lavorato nell’internazionalizzazione dei settori farmaceutico ed alimentare, nella organizzazione di eventi, con le scuole e le start up, nella ideazione ed attuazione di progetti complessi per l’innovazione in agricoltura, per lo sviluppo dell’industria culturale, per la mobilità sostenibile, per la salvaguardia dell’ambiente, ho aiutato imprese ad intercettare risorse economiche per realizzare i propri progetti, sono entrata in punta di piedi in network di valore dai quali ho molto da imparare.

Nei momenti più stressanti ho pensato che fare tante cose, così diverse tra loro, fosse un mio peccato di presunzione: mettersi alla prova ogni volta è elettrizzante ma può anche spaventare e farti sentire sempre in affanno. Anche spiegare agli altri il mio lavoro talvolta richiede più tempo di quanto sarebbe generalmente necessario.

Di recente però, grazie al confronto con amici e colleghi, ho realizzato che tutte queste esperienze, come tessere di un mosaico, ogni giorno aggiungono valore alla mia professionalità e a me come essere umano. Mi hanno permesso di sviluppare capacità di adattamento e flessibilità mentale, di lavorare in squadra, di comprendere e reagire efficacemente a nuove situazioni non soltanto lavorative.

Mi piace pensare, per dirla con Giulio Xhaet, di essere tra i «contaminati interdisciplinari» la risposta umana all’era dell’algoritmo, in grado di costruire ponti inaspettati tra punti apparentemente lontanissimi tra loro e di apprendere per propagazione. Coltivare la propria interdisciplinarità per far bene il proprio lavoro è difficile, richiede impegno costante, sensi sempre all’erta, onestà intellettuale e umana, curiosità… E bisogna sempre ricordarsi che il nostro cammino è fatto dei nostri passi e dei nostri inciampi e soprattutto quando è in salita è un privilegio percorrerlo, e ogni tanto guardare indietro alla strada già fatta.

Yesterday I was clever, so I wanted to change the world. Today I am wise, so I am “improving” myself.

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Anna Ressa in un collage da lei realizzato per la notte del lavoro narrato

 

 

Il #LavoroNarrato di Mara Chiarelli – “Non ha senso contorcersi su una sedia che non è più tua, è una questione di onestà intellettuale”

48894133_10212961566698869_6422480119167713280_o“Ma che dici? Sei impazzita”.
“A ripensarci oggi, a tutte quelle voci che hanno costituito un unicum di commenti, di reazioni al mio annuncio che avrei lasciato Repubblica, forse a ripensarci oggi qualche ragione gliela voglio concedere. Ma giusto qualcuna, che è figlia dello spavento e dell’insicurezza nei quali ci svegliamo ogni mattina.
“Apro un caffè letterario, un posto dove le persone devono stare bene”, cercavo di spiegare a tutti, amici e parenti, nel tentativo di fare arrivare anche alle loro narici il profumo di libri e libertà, di aria finalmente pura.
Non è stato facile convincerli, ma i fatti poi accaduti si sono sommati alle mie ragioni, coprendo loro le spalle. E piano piano il sogno, il mio sogno, è diventato un’appetibile prospettiva anche per loro, gli altri. Due anni fa ho lasciato la mia poltrona di cronista (di nera e giudiziaria), ho contrattato un incentivo all’esodo e mi sono lanciata.
Ci ha messo un anno a nascere la mia creatura, un anno che per tutto quello che ho dovuto imparare, in termini economici, fiscali, progettistici, strutturali e contabili, mi pare a posteriori almeno il triplo. Inutile elencare tutto quello che si impara, lo sto ancora facendo.
Certo è che non ho mai rimpianto di aver lasciato quella sedia. Certo, sì, la mia amata cronaca mi manca e mi capita, confesso, di schizzare fuori da Portineria 21 quando sento passare le sirene spiegate delle forze dell’ordine: è in me, è parte di me.
Ma penso anche che non ha senso contorcersi su una sedia che non è più tua, è una questione di onestà intellettuale nei confronti di se stessi e degli altri.
Sapete quando ho capito che non potevo più continuare? Quando, per una sequenza indefinite di risvegli, ho avvertito la pesantezza di un macigno pensando di dover andare al lavoro. Ecco, quello è stata la fine. E l’inizio.”

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Mara Chiarelli sognando il suo caffè letterario Portineria21

 

 

Il #LavoroNarrato di Marco De Candia (Mark Mc Candy) – Scrivere racconti brevi per far sorridere ed emozionare

CandyHo conosciuto Marco De Candia 5 anni fa, in un punto per me di svolta che ha coinciso con un cambiamento nella mia vita lavorativa e personale. Quello che mi ha colpito di lui è stata la sua capacità di far sorridere anche in momenti di apparente difficoltà. Le sue battute, le sue frasi arrivavano come schegge e mi aiutavano a vedere quello che accadeva intorno con uno sguardo fuori dal comune, inaspettato.
Marco De Candia (alias Mark Mc Candy) è uno scrittore di racconti brevi.
Per la Notte del #lavoronarrato ci racconta i suoi accorgimenti per narrare bene.
Lavorare bene sulla brevità dei testi significa prima di tutto essere focalizzati e non trascurare alcuni aspetti per far capire al lettore dove si svolge la vicenda.
Scrivere racconti brevi per Marco è come scattare fotografie, come creare dei flash per lasciare in chi legge un sorriso, un’emozione, qualcosa che resti.
Fare bene le cose per Marco vuol dire: prestare attenzione, documentarsi, cercare di toccare dei tasti emozionali, avere sensibilità e attenzione nel non mettere mai a disagio le persone ma farle sorridere.
Questo è il suo racconto, questa è parte della sua vita, questa è la sua idea di lavoro ben fatto.

 

Il #LavoroNarrato di Marco Bertagni – La geografia delle emozioni e il daimon

bertagniEcco il racconto di lavoro ben fatto che mi ha inviato Marco Bertagni, imprenditore e “geografo delle emozioni” come ama definirsi.

“1. Riuscire ad abbattere i confini tra sfera lavorativa e privata,
2. Unire forma e sostanza,
3. Ritrovare il se stesso bambino,
4. Vivere con passione
5. Avere coraggio
6. Mantenere intatto il senso di sorpresa
7. Aver voglia di imparare sempre qualcosa
8. Fare tesoro delle esperienze
9. Aumentare la propria consapevolezza
10. Rispettare tutto e tutti
Ecco, questi sono i 10 modi di essere che cerco, in continuazione, di ricordare a me stesso. Credo infatti che un lavoro ben fatto non possa prescindere dal giusto mix di questi 10 elementi.
E’ come se – Pitagora mi scuserà – in questo tetraktys sia compresa l’armonia dell’Universo, l’archè di una vita felice.
Ho sempre avuto la fortuna, durante la mia vita, quando ancora facevo distinzione tra vita personale e vita professionale, di fare dei lavori che mi consentissero di seguire il mio daimon, il mio destino: ovvero quello di viaggiare.
E credo che questa passione – unita a qualche competenza guadagnata sia sul campo dell’istruzione che in quello dell’esperienza – mi abbia consentito di portare avanti una ragionevole carriera professionale.
Tuttavia, è impagabile per me la gioia, il senso di diffuso benessere che ho provato – e che provo in maniera crescente – nel vedere che l’esperienza di mappare le emozioni su un foglio bianco, interessa sempre più le scuole di ogni ordine e grado, le aziende e le organizzazioni e sta trovando molte applicazioni pratiche. Ma soprattutto che fa star bene le persone.
Penso che il progetto “The River of life“, sia un lavoro ben fatto, perché se crediamo alle nostre idee, alle nostre intuizioni, se impariamo a reagire ai momenti negativi che ognuno di noi deve fronteggiare nella propria vita, se ci mettiamo la passione in quello che facciamo… non può che essere così!
Parafrasando Parmenide “se” l’Essere è, non può non Essere. Ricordiamoci di essere (quello che siamo) e non di apparire (quello che non siamo).
Quindi dico a tutti gli amici di questa bella iniziativa: innamoratevi della vostra vita e il vostro lavoro sarà sicuramente ben fatto!”

 

Lavoro ben fatto e perfezione. Concludo il mio lavoro narrato 2020 così…


“Que’ prudenti che s’adombrano delle virtù come de’ vizi, predicano sempre che la perfezione sta nel mezzo; e il mezzo lo fissan giusto in quel punto dov’essi sono arrivati, e ci stanno comodi.” (Alessandro Manzoni, I promessi sposi)

Cito Manzoni per raccontarvi che per me la perfezione è stata un’ossessione per molto, troppo tempo.
Una persona cara mi ha fatto scoprire in questi giorni il programma TV #Maestri: nella lezione di Telmo Pievani si parla proprio di imperfezione, quella che riguarda la natura e noi “homo sapiens”.
Ho un rapporto quasi patologico con la perfezione e la pretesa di non fare errori mi perseguita ancora oggi. Mi ha perseguitato sul lavoro, e a volte pure in quelle attività che avrebbero dovuto regalarmi invece gioia, libertà e creatività.

Per me il lavoro ha rappresentato a lungo l’esigenza di sentirmi dire “brava!” da qualcuno che era più in alto di me nella scala gerarchica.
Per tanto tempo la parola “lavoro” ha rivestito quindi le mie spalle di un senso di responsabilità più pesante del carico che ero capace di portare addosso. Me lo imponevo, come un mantra: la perfezione doveva esistere! Non potevo concepire un lavoro fatto bene che contenesse alcune imperfezioni o errori.
Per me sbagliare non era e non è accettabile. Per me sbagliare voleva dire aver fallito a un certo punto del percorso, e voleva dire che quel fallimento era stato inevitabile nonostante la cura e l’attenzione che avevo messo nello svolgere i miei compiti.
No, non lo potevo davvero sopportare e mi arrabbiavo!
Ma non con agenti esterni o con il fato beffardo, la verità è che mi sono sempre arrabbiata con me stessa, negandomi a volte di lasciarmi andare alla creatività pur di assicurarmi la perfezione agognata, sperata, attesa, costruita con forza ma che da un momento all’altro poteva crollare e farmi scivolare nello sconforto.
Non ammettevo di poter essere considerata imperfetta, non per presunzione ma perché per anni avevo basato ogni cosa che facevo su un solo obiettivo: non commettere mai errori e quindi non essere giudicata per quegli errori.
Ho vissuto nella speranza di essere accettata, di essere come gli altri mi volevano. E questo è stato un errore anche nei rapporti umani: essere come gli altri ti vogliono porta a errori di valutazione da parte degli altri e di te stessa.
Ho sempre agito come una persona che si faceva piccola piccola nel mondo e dava ampio margine agli altri di poter dire la loro su come avrei dovuto agire, su come avrei dovuto vivere, su come avrei potuto far meglio.

Nel lavoro, quando addosso impariamo a sentire più forte il peso del giudizio e della responsabilità, questa pretesa di perfezione può essere ancora più pericolosa. Per noi stessi soprattutto, perché ci nega la libertà di poter fallire, di poter dire “sono anche i miei fallimenti, sono anche le mie debolezze, e va bene così che tu le accetti o meno”.
Del resto un organismo perfetto non esiste nemmeno in natura: se fosse perfetto non potrebbe più evolversi oltre e questo rappresenterebbe la sua fine.
Dunque siamo vivi finché sbagliamo, siamo vivi finché siamo imperfetti.
Ma questa idea deve entrare in noi, dobbiamo farla nostra davvero per abbracciare con gioia la nostra imperfezione e dunque la nostra vita.

Lavoro ben fatto quindi non è perfezione e lo sto capendo solo adesso.
Lavoro ben fatto è evoluzione, è cercare il punto da cui migliorarsi sempre, senza sentirsi arrivati e senza potersi fermare. Ce lo dimostra la natura e lo stesso DNA, che si modifica grazie a errori e si evolve proprio in questo modo permettendoci di rispondere in maniera efficace anche ai virus, ad esempio.
In effetti, come mi faceva notare chi è più esperto di me in campo scientifico, se i virus fossero perfetti noi tutti saremmo spacciati.

Ho riscoperto questa percezione di imperfezione nel canto.
Dopo anni di inattività canora (qualche anno fa cantavo in un coro amatoriale), ho provato a cantare di nuovo immaginando che nessuno mi avrebbe ascoltato. È stato un bel esercizio, ma per niente facile per me che sono abituata a preoccuparmi spesso e troppo dei giudizi.
Dovremmo spiegare le nostre ali, ma anche imparare a notare le ali che abbiamo e capire come usarle!


La risposta per far bene le cose allora non è cercare ossessivamente di essere perfetti ma vedere in ogni errore una tappa necessaria del percorso. Questo ci rende vivi, creativi, capaci di adattarci e progredire. Capaci di accettare quel che siamo, pacchetto completo.
La strada non è dritta e non è semplice, c’è da attraversare un labirinto di compromessi con noi stessi, di accettazione, di perdono che dobbiamo a noi stessi unito alla voglia di non fermarsi in mezzo al labirinto ma di proseguire.

Quest’anno un virus inaspettato ci ha costretto a cambiare qualcosa, ci ha portato a cercare strade diverse per raccontare il lavoro ben fatto.
Ci siamo riusciti adattandoci al nuovo ambiente, modellandoci, assecondando i cambiamenti senza irrigidirci.

Per noi il lavoro vale! E stavolta lo voglio ribadire con forza, sperando di aver imparato qualcosa in più, sperando di essere riuscita a donarvi un’idea, un ricordo, qualcosa da portare con voi di questa settima Notte del #lavoronarrato.

Di questo ringrazio con grande stima e affetto le persone che con me hanno raccontato il loro lavoro narrato!

 

 

Laura Ressa

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Copertina: i disegni realizzati da Federica Icolaro per la notte del lavoro narrato

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Scritto da:

Laura Ressa

Classe 1986 🌻 Digital Marketing Specialist & Web Writer 🌻 Frasivolanti