
Un fiocco di neve di cotone idrofilo imbevuto di disinfettante e avvolto in carta adesiva bianca.
Questo resta della mia seconda dose. Ho scelto la foto di questa nuvola di cotone al posto del selfie canonico con il deltoide in primo piano come simbolo di passaggio.
Non credo infatti che si possa già parlare di traguardo per chi si è sottoposto ai vaccini, ma certamente il periodo che stiamo percorrendo è qualcosa che molti vorranno raccontare più in là ed è quindi in momenti come questo che vien fuori l’essenza di chi li affronta.
“Ti ricordi l’anno della pandemia da Covid e dei vaccini a tappeto?” – diranno tra qualche decennio i nostalgici del passato, quelli che voltano lo sguardo sempre indietro. Speriamo di non dover annoverare anche altre sciagure ambientali oltre a quelle già in atto, altrimenti il futuro ci chiederà conto di quel che abbiamo combinato con le risorse a nostra disposizione.
E mi ci metto io stessa nel calderone dei responsabili, perché anch’io sono parte integrante di questa società dei consumi smodati e dell’involuzione accelerata delle menti, del clima, del sentire comune, del senso di comunità, del lavoro, dei diritti.
quel che resta del vaccino
Cosa resta della mia seconda dose di vaccino? Un batuffolo di cotone imbevuto avvolto nel nastro adesivo.
Cosa resta dei volti che ho visto in coda con me? Non molto, a dire il vero.
Ma qualcosa, nel tutto, mi ha colpito: l’infermiera che mi ha somministrato il vaccino sorrideva pochi istanti prima che io entrassi nel box dedicato. In quel momento, e dopo, ho pensato a quanto sia difficile sorridere sul lavoro, a quanto sia difficile sorridere quando vaccini 1000 e più persone in un giorno. Non deve essere facile per chi lo fa, ma forse tutto questo diventa più facile per chi sorride.
Non dico che il lavoro possa alleggerirsi e sembrarci bello solo se ci imponiamo falsamente di sorridere. Dico che l’atteggiamento verso il proprio mestiere è forse il mestiere stesso che ogni giorno compiamo. E l’equazione non cambia sia che si tratti di operare un paziente, di fargli un vaccino, di potare un prato, di fare il muratore o lo spazzino. L’essenza non cambia.
Quella infermiera sorrideva, ma quanti diversamente da lei fanno male il proprio lavoro o trattano male i propri pazienti? Dov’è l’etica? Che fine ha fatto la deontologia? Che ne è stato del giuramento di Ippocrate?
Come direbbe un giullare a corto di battute, siamo più nell’era degli ipocriti che degli Ippocrate. Ed è proprio così.
fare rumore con il buon esempio
Perché – mi chiedo – non fanno rumore le persone che fanno bene il proprio lavoro e fanno bene quel che devono fare in generale? Una domanda che torna ricorrente, come torna il tema del fare bene le cose perché è giusto.
Ormai anche dal vicino di casa si sente dire spesso la frase “facciamo le cose all’italiana”. Perché nella nostra cultura ancora persiste la tentazione di ingannare le regole e di non essere attenti a ciò che si fa in ogni luogo in cui si metta piede?
Quell’infermiera sorrideva prima che facessi il vaccino: che cosa strana. Forse per una battuta, forse perché in un momento ha pensato a un ricordo felice. Ma non era un caso, aveva la faccia buona.
Forse sorrideva anche mentre mi somministrava il vaccino, forse sorrideva perché è quello il suo modo di affrontare la vita e il lavoro.
tocca a noi decidere, tocca a noi scegliere chi essere nel mondo
E noi come affrontiamo tutto quello che ci gira intorno e tutto ciò in cui siamo coinvolti?
Si può anche sorridere ma dietro l’angolo ad aspettarci ci sarà sempre il mantello delle falsità, e da quello non sono molti coloro i quali possono dirsi immuni.
Qui bisogna diventare immuni dalla stupidità, dal menefreghismo, dalla sensazione di poter trattare gli altri come fossero meno importanti di noi. E purtroppo è tanto vero nella sanità come lo è in qualsiasi luogo di lavoro.
Bisogna ripulire i nostri atteggiamenti dalla spocchia di chi pensa di sapere tutto e di poter decidere delle vite altrui.
Bisogna tornare a credere che fare bene il lavoro ed essere brave persone ripaghi, perché ho idea che questo obiettivo sia stato perso proprio per una costruzione errata dall’assetto sociale ma anche per la mancanza di tanti “bravo” o “brava” non detti e che non arrivano mai ma la cui assenza grava moltissimo sulla percezione del peso del proprio lavoro.

trovare i colori, tracciare i confini
Il mio batuffolo di cotone alla fine l’ho gettato, ho voltato le spalle alle code in attesa del vaccino e sono tornata a casa.
Resta una sola consapevolezza: se getti quel che resta, dietro puoi ritrovare i tuoi colori. Ma devi disegnarli tu.
Devi essere tu a decidere quali colori tracciare, quali linee definire, quali confini non valicare. Tocca a te scegliere chi vuoi essere nel mondo, senza inseguire falsi miti e senza inseguire il denaro. Senza sorridere falsamente al lavoro e alle persone, ma con genuina voglia di far bene ciò che ti compete.
Perché la vita è una, e non vale la pena gettarla in costanti apparenze. Ma questo riesci a capirlo proprio quando la tua vita non è più come era prima. Quando cambia qualcosa. Quando più nulla è dato per scontato.
Laura Ressa
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Copertina: foto di quel che resta della mia seconda dose di vaccino