
Nella Piccola Scuola Bottega è sempre tempo di manufatti narrativi.
La parte difficile consiste nel pensarli, progettarli, renderli in qualche modo anche reali (o almeno verosimili).
Da mesi, forse da anni a dire il vero, sono ossessionata dall’idea di dover produrre. Questa ossessione consiste nel sentire costantemente la necessità di avere qualcosa da scrivere, da fare, da disegnare, da raccontare. L’ossessione riguarda anche l’idea che nella vita non si possa lasciare tempo e spazio all’ozio. Tutto deve scorrere in maniera ragionata e sensata, pena la perdita di tempo prezioso che avremmo potuto sfruttare in modo proficuo. In modo, per l’appunto, “produttivo”.
Produrre, produrre, produrre. Un assillo che non riguarda di certo solo me ma che, inevitabilmente, mi fa stare male e mi fa pensare di non essere abbastanza smart o, per dirla in italiano, abbastanza intelligente e interessante.
Questa esigenza nasce senza dubbio da un’insoddisfazione personale, dalla percezione di non stare facendo abbastanza per rendere speciale la propria vita. In tale visione, piuttosto triste, dell’esistenza gli altri ricoprono un ruolo cruciale: sembrano infatti sempre tutti pieni di idee, di successi e di soddisfazioni.
Quei famosi “altri” sono la dimostrazione di un nostro fallimento e sono costantemente lì a dimostrarci, con il loro esserci, quanto fallimentari siamo noi.
Ho spesso visto così la mia vita: in termini di confronto con gli altri. Lo ammetto, sì, e non è una bella cosa ma, come sostengono in molti, l’ammissione è già un primo passo verso la guarigione.
Essere spronati dagli altri è qualcosa di positivo. Essere perseguitati dall’idea di non essere mai all’altezza degli altri, questo sì che è un problema. Un problema che si risolve, forse, con un po’ di sana terapia, ma non solo.
Quanto può essere difficile uscire da questo turbine negativo? Molto, anzi moltissimo.
Costa una fatica e un impegno impossibili da misurare. Giocano un ruolo fondamentale anche la noia, la pigrizia, l’insicurezza: tre fattori che, messi insieme, scatenano una forza implosiva dirompente.
Come nascono le idee? Dove cercarle? Come esprimerle? Come averne di brillanti?
Non esistono metodi giusti per definizione, esiste però la vita che con le sue vicissitudini ci porta ad abbracciare un pensiero nuovo quando molliamo un po’ la presa e cominciamo a non pensare all’idea di dover produrre qualcosa.
Nella Piccola Scuola Bottega in queste ultime settimane abbiamo ragionato molto intorno al tema dell’identità declinata partendo dall’organizzazione come organismo da scomporre e ricostruire. Abbiamo pensato alle organizzazioni di cui siamo parte attiva: dalla famiglia all’azienda, dalla scuola al gruppo di amici. Da varie riflessioni e brainstorming abbiamo tirato fuori esperimenti interessanti.
unire i puntini
Vincenzo Moretti e Jepis Rivello ci hanno stimolato con molte scintille (video, brani, testi, ecc.) e ci hanno invogliato a unire i puntini. Come? A ognuno degli artigiani della narrazione coinvolti nella Piccola Scuola è stato consegnato un foglio su cui era disegnato un reticolo di puntini. Il nostro compito è stato quello di unire i puntini immaginando, nel farlo, la nostra idea di organizzazione.
Ecco come ho unito io i puntini:
Ho creato un fiore, utilizzando vari colori e disegnando direttamente nel file pdf usando il mouse del mio computer. Non è stato facilissimo far andare le linee dove volevo, ma alla fine ci sono riuscita.
Cosa ho rappresentato? Innanzitutto l’organizzazione come una creatura viva, che ha bisogno di luce e acqua, che necessità di cure e che, come gli alberi, attraverso le proprie radici segue percorsi sottotraccia.
il puzzle organizzativo
Un altro spunto è stato rappresentato dal puzzle organizzativo. Vincenzo e Jepis, a seguito di altri brainstorming nella Piccola Scuola, ci hanno sottoposto una nuova sfida: il puzzle.
Avevamo a disposizione un foglio con alcune forme geometriche colorate: il compito consisteva nel ritagliarle, disporle come credevamo e assegnare a ciascuna forma un nome sulla base di una lista di parole (elementi organizzativi) che ci è stata consegnata insieme alle forme.
Ecco qui sotto la foto del mio puzzle. Al centro di tutto per me c’è il Senso. Attorno ad esso, senza seguire un ordine preciso, si susseguono gli altri elementi: Motivazione, Merito, Squadra, Chiarezza, Visione, Problemi. Ognuno di questi ultimi tasselli tocca inevitabilmente il Senso, che appunto per me rappresenta il fulcro, l’origine, l’avvio di ogni cosa che si fa e si crea all’interno di un’organizzazione.
Gli spunti che sono venuti fuori dai miei compagni di viaggio della Piccola Scuola sono stati fondamentali. Mi hanno aiutato a vedere l’organizzazione sotto nuovi punti di vista, diversi a seconda del vissuto e del pensiero di ciascuno.

Alla fine di questi esperimenti e delle tante scintille che ci sono state fornite per ritornare su questi aspetti del discorso organizzativo, ho cominciato a “tormentarmi” con una domanda assillante: E se il mio manufatto narrativo stavolta fosse un’idea imprenditoriale?
il manufatto narrativo e il canvas delle idee
Ci ho pensato su un paio di settimane, un periodo assai limitato per imbastire un’idea di impresa ma non troppo breve per capire almeno che ci vuole tanto tempo e tanta fatica per approdare a un modello organizzativo che possa camminare sulle proprie gambe.
Non saprei davvero da dove cominciare, l’unica certezza è che serve un piano, un foglio, un diagramma, un canvas, una bozza da cui partire, anche disegno magari. Già, un disegno. Perché no?
Volevo partire prendendo spunto dal meraviglioso Manifesto realizzato nell’ambito del progetto editoriale Scritte. Si tratta di un grembiule “per raccontare la tua identità. I tuoi talenti, i tuoi valori, le tue radici, la tua visione. Come persona e come organizzazione.“
Colta dallo sconforto più nero, una sera mi sono messa a disegnare con la mia tavoletta grafica. Ho cercato di svuotare la mente dalle aspettative, ho cancellato tutte le ipotesi fatte in precedenza circa la mia idea di impresa. Ho resettato tutto, decidendo di ripartire da zero.
Ciò che ne è venuto fuori, in effetti, è stato alla fine un disegno che ho intitolato disordine nel cervello.
Volevo uno schema tutto mio da cui ripartire: nessun concetto preconfezionato, nulla che si ispirasse a idee già esistenti, nulla che seguisse una bozza fatta da altri.

Questo è il mio disordine e insieme il mio canvas. Un disegno che non racconta in toto chi sono ma che mette in luce alcuni germogli, alcune possibilità concrete. Più concrete certamente delle parole a cui avevo pensato prima di questo disegno.
E come l’appetito vien mangiando, allo stesso modo anche le idee vengon disegnando e scrivendo.
Sono passati altri giorni, forse un paio, dal disegno. Nel frattempo ho visto film, ho ascoltato speech, ho letto articoli e visto serie TV. Non so in che misura tali stimoli abbiano avuto un ruolo e una forza su di me, fatto sta che un giorno mi sono ritrovata in un negozio di articoli da regalo e cartoleria.
Mi guardavo intorno cercando degli inviti, per cosa non saprei. Mi erano rimasti impressi e volevo vederli bene per capire se acquistarli. E invece, come da tipico effetto serendipity, sono stata sorpresa da un altro tipo di oggetto che non avevo mai notato.
Neanche a farlo apposta, si trattava di piccoli canvas magnetici: tele su cui disegnare e da apporre su oggetti in metallo.
Come qualcuno mi aveva suggerito, è la vita a darti le risposte.
Così ho acquistato 6 piccole tele, 3 a forma di cuore e 3 a forma di cerchio. Avevo già a casa dei colori acrilici e mi è bastato poco per capire che potevo partire proprio da lì.
Mi sono detta: e se cominciassi a creare piccole storie su tela da attaccare ai frigoriferi o ai mobili? Sarebbe una prima idea, neanche così singolare, ma almeno sarebbe un primo passo. Qualcosa che posso fare da sola, come piace tanto a me, senza per ora preoccuparmi di forme giuridiche, pitch, sostenibilità economica e altre cose burocratiche che di solito bisogna approfondire quando si parla di impresa.

I disegni, le forme i colori possono rappresentare vite, possono raccontare storie, possono racchiudere progetti e idee. Sono partita da queste piccole tele bianche e mai avrei detto che sarei arrivata a questo piccolo abbozzo, ma è così: è vero che le cose accadono per una commistione di fattori e concause.
Forse con le tele potrò raccontare storie. Per adesso lo faccio per me, cercando di raccontare ogni volta una storia diversa. Ma chissà che un giorno io non possa mettere su tela anche le storie di altri, basandomi sui loro racconti e sulle loro parole.
La mia prima prova su tela magnetica non mi piace ma, come mi ha scritto Silva Giromini su Instagram, si impara anche dai fallimenti.
Vorrei quindi chiudere questo post mostrando il mio primo manufatto su tela magnetica e poi ponendo una domanda a chi ora sta leggendo.

Tu che storia racconteresti se avessi di fronte una tela bianca?
Grazie della risposta!
Laura Ressa
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Copertina: il mio disegno d’ispirazione per il mio 2° manufatto narrativo nella Piccola Scuola Bottega