Help recruiters find you è uno slogan che ho letto molte volte navigando in rete.
Questa frase mi ha fatto riflettere sul modo in cui costruiamo le nostre identità digitali e ci rendiamo visibili ai recruiters, cioè ai selezionatori con i quali un giorno potremmo ritrovarci a sostenere un colloquio di lavoro.
L’attenzione e la cura del sé digitale vale per chi cerca lavoro ma è fondamentale anche per selezionatori e professionisti che, a vario titolo, popolano le piattaforme social. Attraverso il loro profilo digitale queste persone comunicano un brand, definiscono la propria social reputation e mostrano competenza nel settore di riferimento.
Senza considerare il fatto che parlare a nome di un brand influisce molto sulla reputazione stessa dell’azienda e il professionista consapevole sa quanto conti la comunicazione online per diventare ambasciatore di sane abilità comunicative e della vision aziendale.
Il significato della frase Help recruiters find you è semplice: aiuta i recruiters a trovarti. Perché dovremmo aiutarli a trovarci? Perché il recruiter, in fase di selezione, valuta anche l’abilità del candidato di comunicare efficacemente in rete e ciò che legge sul suo profilo personale potrebbe piacergli oppure inorridirlo. 

A proposito del modo di essere in rete e di vivere gli strumenti digitali come opportunità, ho trovato esaustivo l’articolo Reputazione, buone maniere a altre vecchie storie (Mafe De Baggis) di cui propongo qui un passaggio:

Non si tratta a mio parere di evitare certi contenuti o di sottolinearne altri, ma di imparare, una volta per tutte, a considerare Internet come parte del mondo in cui abitiamo, mondo in cui, anche in tempi meno connessi, una buona o cattiva reputazione ha sempre fatto la differenza.


Scegliere con cura i contenuti da pubblicare e da non pubblicare è nostra responsabilità.

I selezionatori vivono i social network sia come utenti comuni sia in veste di professionisti del settore risorse umane. Fare rete per loro vuol dire quindi scovare persone adatte a ricoprire una determinata posizione, verificare le competenze di un candidato, entrare in contatto con altri selezionatori o dar vita a una community di specialisti del settore.
Non dobbiamo quindi pensare ai social come a meri strumenti di svago: a dispetto di ciò che accadeva agli albori dei social network, oggi il nostro profilo digitale, e l’identità che ne deriva, contano molto di più e sono fondamentali per stabilire un contatto diretto, ad esempio, con l’azienda dei nostri sogni.

Attraverso la rete ci raccontiamo, comunichiamo i nostri valori e ciò che siamo, entriamo in connessione con gli altri, inneschiamo il dialogo, intessiamo relazioni che ci fanno sviluppare velocemente capacità prima difficili da costruire.
Sta a noi utilizzare gli strumenti per dare valore alla comunicazione e migliorare le nostre competenze comunicative. Sta a noi non trasformare l’opportunità in un’occasione sprecata.

LinkedIn, Facebook, Twitter e gli altri strumenti social che quotidianamente utilizziamo rischiano di diventare armi pericolose se non sappiamo usarli in modo proficuo o se utilizziamo, per esempio, un profilo pubblico per raccontare a sconosciuti vicende sentimentali o situazioni personali che non hanno alcuna utilità né per chi le legge né per chi le scrive.

Ciò che condividiamo sul web diventa patrimonio della rete e potrebbe saltare agli occhi di un potenziale datore di lavoro. La cura dei contenuti è quindi funzionale alla costruzione di un’identità online che parli di noi restando però pertinente, utile ed efficace.

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Il social recruiting è una prassi diffusa ed è tanto più utile nella misura in cui siamo capaci di creare una rete di contatti con cui interagire positivamente a scopi professionali.

Rivendicare la libertà di pubblicare quello che ci pare va bene finché siamo coscienti delle ripercussioni che l’immagine che diamo di noi potrebbe avere ricadute negative nelle interazioni con gli altri.

In questo post prenderò in considerazione due social network (Facebook e Twitter) ponendo alcune domande che riguardano la reputazione online e la sua costruzione a partire da prassi spesso molto radicate.
Non propongo né regole né decaloghi o liste di comportamenti giusti e sbagliati: mi piacerebbe che questa riflessione aiutasse a comprendere quanto sia importante la presenza in rete e quanto sia fondamentale coltivare con cura la propria identità digitale.


1) La qualità di ciò che pubblichiamo dipende dai like totalizzati?

Quanto più le frasi o le immagini che pubblichiamo sui social riguardano la sfera privata, tanto più questi contenuti otterranno like.
Vi è capitato di notarlo? Secondo voi il numero di like dipende dalla qualità dei post o dal fatto di aver svelato qualcosa di personale accontentando la curiosità di alcuni?
Persino pagine professionali o aziendali sono gestite da social media manager che chiedono like su commissione ad amici e parenti.
Svelerò un segreto: i like non sono indice di qualità del contenuto eppure sembra che per qualcuno (compreso chi per lavoro dovrebbe conoscere le dinamiche che regolano il web) i like funzionino da applausometro in grado di decretare il successo e la diffusione di un brand/prodotto/servizio/persona.
L’approvazione tradotta in like scaturisce dall’aver accontentato un bisogno immediato e su molte piattaforme il bisogno più immediato è l’appagamento della curiosità su dettagli privati delle vite altrui.
Parlare di sé non è sbagliato, a me capita spesso di parlare di me in ciò che scrivo: è inevitabile. Eppure c’è differenza tra la mera esplicitazione di un fatto privato e una narrazione utile in grado di mettere in campo le nostre conoscenze, le nostre competenze, la nostra umanità.
Forse non sempre ci chiediamo se le parole che scriviamo siano utili a chi ci legge.
Se non lo abbiamo mai fatto, è arrivato il momento di cominciare a chiedercelo e di mettere gli altri al centro della nostra comunicazione.

 

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2) Le foto rivelano chi siamo

Non mi riferisco solo alle foto profilo ma a quelle (spesso pubbliche e visibili a chiunque) che ci ritraggono in situazioni personali e in compagnia di accessori o status symbol come l’automobile, la moto, l’orologio, i bracciali, gli anelli che diventano mezzi per raggiungere una rapida approvazione da parte della rete di contatti. L’approvazione la si cerca pubblicando in continuazione anche foto dei propri figli, ma questa è un’altra lunga storia.
La lista di oggetti che piace mostrare è infinita ma c’è da chiedersi che tipo di messaggio veicoliamo ritraendo gli oggetti che possiamo permetterci di comprare.
Qual è lo scopo di questa comunicazione? Vendiamo quei prodotti? Va bene.
Vogliamo attirare qualche invidia per ciò che possediamo o per i ristoranti in cui possiamo cenare? Bene.
Se però vogliamo dare valore al sé digitale, stiamo seguendo la strada sbagliata.
Un recruiter che ci scova lo ipotizza: se condividiamo per lo più sciocchezze cosa avremo di interessante da dire dal vivo?
Hai qualcosa di meglio da dire? Dillo anche online.

 

3) Privacy

Nella scelta delle impostazioni di privacy il libero arbitrio guida le decisioni, fermo restando però che esso non è garanzia di buoni consigli.
Possiamo decidere di mostrare tutto a tutti: cosa stiamo facendo, cosa stiamo mangiando, con chi siamo appena usciti, che faccia ha nostro figlio, com’è la nostra toilette.
Anche in questo caso vale lo stesso interrogativo di cui sopra: a chi interessa saperlo? A quei pochi affezionati curiosi della nostra vita o anche a un selezionatore?
Se siamo professionisti, o vorremmo diventarlo, il pubblico a cui mostriamo la nostra vita conta quanto il cosa e il come.
Un recruiter attento bada a questi aspetti e valuterà chi ha di fronte anche in base a ciò che rende pubblico in rete.
E poi è una questione di amor proprio e di priorità: non so a voi ma a me piace essere apprezzata più per le cose che penso e che scrivo su un argomento che per il colore delle mattonelle nel mio bagno.

4) Comunicazioni di valore e confronti digitali che diventano umani

Ma insomma ‘sta rete a che serve? Ve lo siete mai chiesto? Io me lo chiedo ancora, ogni giorno, e forse sono giunta a una risposta univoca.
Mi iscrissi a Facebook nel 2008 per entrare in contatto con gli attori della mia serie TV preferita all’epoca: One Tree Hill (una cosa serissima da teenager: ordinarie storie di ragazzi in crisi d’acne giovanile condite da qualche citazione di Steinbeck tra un dramma e l’altro).
La motivazione che mi spinse a entrare nella rete di Zuckerberg era instaurare connessioni che accorciassero le distanze tra me e i beniamini della TV.
Ero in fase post-adolescenziale e la qualità dei miei contenuti era bassa, inoltre capii ben presto che tutti i profili che avevo trovato erano identità fake create ad arte.
Quasi quasi mi venne voglia di uscire dalla piattaforma ma mi bastò bloccare i compagni di scuola media per convincermi a restare per vedere cosa Facebook avesse da offrirmi.

Ho attraversato varie fasi nell’utilizzo del mio profilo social: la condivisione di canzoni tristi con testo a corredo, le canzoni romantiche, le citazioni tristi, le citazioni ironiche, le foto di me da bambina, gli idiomi del mio dialetto sviscerati in tutte le salse, i video-collage, l’ironia h24 sette giorni su sette, i fotomontaggi, i link colti, i link struggenti.
Solo i motivational sulla vita e sull’amore mancano all’appello. E se mai dovessi condividerli, chiederò il mio abbattimento immediato.

Ho definito la mia dimensione social qualche tempo fa ma credo che pure questa sia destinata a cambiare ancora, come cambia il modo di percepire l’ambiente intorno e gli scopi della comunicazione.
La definizione del sé digitale segue in parte la definizione del sé analogico, soprattutto per chi scopre la propria identità in rete in età pre-adolescenziale o ancor prima.
Nella mia crescita digitale sono subentrati più tardi anche LinkedIn, Twitter e una serie di sperimentazioni social che però su di me non hanno avuto lo stesso appeal delle precedenti.

Concludendo?
Concludendo dico che ciò che siamo è un mix ben shakerato di fattori. Tra questi fattori la rete riveste un ruolo più che mai importante. 
Oggi per me i social network sono un luogo di lavoro, di confronto, di crescita. Attenzione: la crescita e la maturità digitale non seguono però l’età anagrafica, come del resto accade per la maturità nella vita.
In rete ho incontrato persone per me fondamentali nel mio percorso professionale, ho innescato comunicazioni virtuose, ho imparato a migliorare la mia scrittura, ho capito che tendere al miglioramento costante di sé è l’unica via possibile.
In più sono convinta che la rete serva a esprimere la propria creatività e il proprio estro (per chi ce l’ha). Serve a far divertire e a riflettere. Serve a condividere valore e a riceverne altrettanto.
Il nostro sé digitale è prima di tutto umano: va curato e coccolato.

Le persone in rete non sono solo notifiche o nuovi like ricevuti ma persone reali che a volte hanno da dirci qualcosa di interessante, qualcosa che merita di essere approfondito anche al di là del web e che può tradursi in una stretta di mano, in una bella chiacchierata, in un nuovo libro da leggere, in una scoperta sorprendente.
Se sapremo ascoltarli, sapremo raccontare il mondo con nuovi occhi.

 

Laura Ressa

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Scritto da:

Laura Ressa

Classe 1986 🌻 Digital Marketing Specialist & Web Writer 🌻 Frasivolanti