Non sono passati molti anni. Era il 2012.

Sgambettavo nei corridoi di una grande azienda in cui stavo svolgendo uno dei miei primi tirocini nell’ufficio Risorse Umane: in particolare mi trovavo nel dipartimento deputato alla selezione e alle trasferte dei dipendenti in altre sedi del Gruppo.

Archiviavo documenti, catalogavo faldoni, mettevo ordine in vecchie librerie piene di materiale impolverato, facevo fotocopie, inserivo questionari in database, assistevo ai colloqui di selezione. In effetti tra piccole mansioni d’ufficio e attività di back-office, è fuori di dubbio che fossi molto più attratta dai colloqui con i candidati. Ero affascinata dal processo in sé, seppur molto standardizzato e sempre fedele allo schema.
Lo schema era fondamentale, uno script imprescindibile a cui l’azienda si atteneva. Ma la variabile erano le persone.  

Si sedevano, a volte con evidente ansia e a volte con più risolutezza, e rispondevano alle domande che il selezionatore poneva: ogni persona che entrava da quella porta aveva con sé un mondo intero, qualcuno di questi mondi era più affascinante di altri e qualcuno più ordinario ma sempre condito da qualche guizzo inatteso o da un atteggiamento particolare dovuto alla situazione specifica o ai tratti della personalità.
Durante ogni campagna di selezione, giungevano candidature via email riferite alla job description specifica oppure auto-candidature slegate dalle selezioni in corso. Ad ogni persona che si candidava veniva inviata una convocazione oppure un messaggio per informare del fatto che il curriculum non era stato selezionato. Ciò che mi lasciò piacevolmente colpita fu proprio il fatto che il processo di selezione prevedesse l’invio di una risposta sia in caso di convocazione sia nel caso in cui il CV non fosse ritenuto in linea con il profilo professionale che si stava cercando.
Un altro aspetto interessante del modo di vivere il lato umano dell’azienda erano i colloqui individuali con i dipendenti, realizzati al fine di comprendere gli obiettivi raggiunti durante un certo periodo di tempo e le richieste di formazione, avanzamento di carriera, bilancio delle competenze e analisi delle prospettive future. Era un momento per ragionare insieme ai manager, per sentirsi parte di un progetto ampio, per fare un reale punto della situazione e mettere anche in luce le criticità da risolvere.

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La variabile, in ogni caso, erano le persone. E il processo di selezione, per quanto fosse scandito secondo fasi ben definite, poteva subire variazioni e seguire un corso inatteso a seconda del candidato. 
Di fatto non sapevo mai cosa avrei scoperto durante il colloquio successivo ed era sfidante assistere alle interazioni tra selezionatori e candidati. Solitamente assistevo senza intervenire, prendevo appunti e osservavo i candidati. Al termine di ogni colloquio mi veniva però sempre chiesto il mio parere, osservazioni ulteriori e tutto ciò che avevo potuto capire della persona e del suo modo di reagire.
Il mio punto di vista non era tecnico ma umano e veniva sempre ascoltato con attenzione.

Le selezioni in quel periodo erano rivolte a neolaureati in ingegneria meccanica, che sarebbero entrati a far parte di un contesto fiorente in cui nascevano di continuo nuovi progetti nazionali e internazionali. Respiravo aria di scambio, di crescita, di ricerca, di passione per il proprio lavoro. Respiravo speranza, quella che vedevo nei giovani laureati ma anche nei manager che conducevano i colloqui: nei loro occhi avevano mantenuto e maturato lo stesso guizzo curioso che vedevo negli sguardi dei candidati.

Dopo la compilazione di un test d’ingresso in lingua inglese, ogni persona convocata aveva un primo confronto con la responsabile dell’ufficio selezione. Subito dopo questa prima chiacchierata, si procedeva con la fase tecnica: i manager dei vari reparti Ricerca & Sviluppo coinvolti nella selezione ponevano domande specifiche e circoscritte che rispecchiavano il ruolo e la mansione che sarebbe stata assegnata al candidato scelto.

Anche nel momento dedicato al tecnicismo, la mia attenzione riusciva a restare alta. Pur non capendo nulla di discorsi tecnici né dei problemi scritti che venivano sottoposti al candidato, mi sentivo parte integrante del processo. Annotavo le mie impressioni e osservavo molto: ho sempre creduto che la qualità fondamentale di un bravo selezionatore (anche in erba) debba essere la capacità di guardare, per quanto possibile, al di là della superficie.

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Cercavo di rendermi utile, e lo facevo in un momento della mia vita lavorativa in cui io stessa mi sentivo perennemente protagonista di un colloquio, valutata e controllata in ogni gesto. Ma questo non importava perché in quei momenti, in quei mesi passati in azienda, sentii davvero di appartenere a un tutto. Forse ho avuto poco tempo per comprendere realmente altre dinamiche interne all’azienda, e poco tempo non è sufficiente per capire a fondo un ambiente lavorativo. Servono anni.
Tuttavia quel tirocinio rappresenta ancora oggi uno dei ricordi più vividi e più belli del mio periodo da perenne stagista.

Ci ripenso spesso. Ripenso spesso soprattutto alle persone che ho incontrato: fu lì che cominciai a capire cosa significa essere leader e cosa vuol dire confrontarsi ed essere curiosi per provare a svolgere sempre meglio il proprio lavoro.

Un manager, il cui ricordo mi accompagna sempre, un giorno mi fermò nel corridoio al termine di un colloquio di selezione. Era molto curioso e non si dava pace.
Mi chiese che idea mi fossi fatta sul colloquio appena terminato e cosa avessi notato nel modo di fare del candidato ma soprattutto nella maniera in cui l’intervista era stata condotta. Voleva capire come svolgere meglio i colloqui successivi e disse all’incirca queste parole: “Tu che hai studiato per lavorare con le risorse umane di sicuro ne sai più di me: cosa ne pensi? Che idee hai sul nostro modo di fare i colloqui? Cosa potremmo fare secondo te per farli meglio e scavare anche al di là dell’aspetto tecnico? Vedi, io credo che anche nel rapporto con le persone in azienda dovremmo cercare di andare a fondo e capire come migliorare il confronto tra di noi e le dinamiche umane.”

Sono passati un po’ di anni, quindi il virgolettato non è proprio fedele fin nelle virgole, ma il senso delle sue parole fu esattamente questo.

Rimasi a bocca aperta. Stava davvero chiedendo questi suggerimenti a me, ultima arrivata in stage? Sì, le stava chiedendo proprio a me tutte quelle cose. E non me le chiedeva perché io fossi una persona speciale o bravissima nel mio lavoro, ma perché lui era un manager speciale. L’ho capito da quelle poche domande che mi fece, così sincere e così desiderose di comprendere come migliorare i rapporti umani, come fare meglio, come aprirsi al cambiamento e alle critiche sul proprio operato.

Raramente capita di avere a che fare con persone, prima che manager, di quella caratura, ovvero con persone che capiscono di non sapere e che chiedono a uno stagista come poter svolgere meglio il proprio lavoro. Accade raramente perché la maggior parte dei professionisti pensa che anni di esperienza siano sufficienti per padroneggiare quasi ogni aspetto di una mansione e per auto-definirsi esperti. Così non è, e banalmente non lo è perché il mondo si evolve e quindi anche ciò che fino a ieri ci sembrava utile, domani sarà già una prassi superata.
Quindi nessuno potrà mai dire di possedere una conoscenza consolidata che non necessita di ulteriori insegnamenti e approfondimenti.

Quando il manager mi fece quelle domande, capii definitivamente che qualunque mestiere tu faccia non puoi appenderti alla giacca una spilla con su scritto il tuo livello in organigramma. Se ragioni come se fossi sempre bisognoso di imparare, tutto ciò che farai acquisterà veramente un senso altro, un senso alto. Non avrai bisogno di definire te stesso come una tacca su una scala gerarchica perché sarai così impegnato ad imparare da dimenticare persino su quale gradino ti trovi.

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Quel giorno capii che lavorare non vuol dire brillare a scapito degli altri con le idee altrui o cristallizzando le persone migliori che hai in azienda pur di emergere in alto e in solitaria. Lavorare va oltre: vuol dire sapere di dover capire e imparare da TUTTI, anche dall’ultimo arrivato. Perché ognuno ha una storia diversa e ognuno ha qualcosa da insegnarci.

Forse proprio le persone con cui ebbi il piacere di lavorare in quei mesi di stage mi fecero capire che non siamo i nostri ruoli ma le nostre vite. Non siamo obiettivi raggiunti ma nuove strade da percorrere con fatica e sudore. Capii che non possiamo mai considerarci arrivati da nessuna parte se pensiamo che, tutto sommato, ci possiamo fermare lì dove siamo giunti.

Il vero manager chi è? Il vero esperto chi è? Chi può dare consigli e chi deve soltanto ascoltare? Ce lo chiediamo spesso ma non sempre la risposta ci aiuta. 
L’idea che mi sono fatta è che nessuno possa ritagliarsi un ruolo netto racchiuso nella parabola “oggi imparo soltanto, domani avrò solo da insegnare”. Saremo sempre ibridi in ogni fase della nostra vita, anche se ad alcuni dà fastidio accettarlo.
Le soddisfazioni non sono riconducibili a un ruolo né ad uno stipendio se questo significa non avere più idee originali e non lasciarsi più ispirare dagli altri rispettando anche le capacità di chi è “più in basso” di noi. Si può essere manager ma comportarsi da piccoli anelli della scala ed essere invece appena arrivati in azienda ma avere più rispetto, più sensibilità e voglia di imparare di chi lavora nello stesso modo da 40 anni e non è mai cambiato se non in qualche virgola sparsa.

Subiamo una rincorsa al riconoscimento, vogliamo poter parlare di noi e dire qual è il nostro ruolo e la nostra posizione nella società. Vogliamo poter sottolineare che nel corso della nostra vita abbiamo imparato e capito tanto, ma parliamo sempre poco di tutto quello che ancora non sappiamo e che dovremmo cercare di recuperare da chi ne sa di più.

In che punto della nostra storia abbiamo perso la bussola? Da che punto in poi abbiamo creduto di avere più da insegnare che da imparare? 
Forse è da quel punto che dobbiamo ripartire tutti quanti, perché dare valore al nostro lavoro non è solo una questione di fatturato e vendite: è un affare ben più profondo di quello che vogliono farci credere.
Sì, è un affare profondo: se non mettiamo un po’ di profondità in tutto quel che facciamo che senso ha farlo? 
E se ci viene difficile ritagliarci la profondità nei nostri ambienti quotidiani, possiamo sempre costruirla nei nostri spazi personali: nessuno ci vieta di farlo, al massimo siamo noi a vietarcelo.

Il mio augurio per chiunque abbia a cuore il senso vero delle proprie azioni è di continuare a cercare profondità e densità anche quando intorno tutti sembrano volerle calpestare e deprezzarne il valore. 

 

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Photo by Ludde Lorentz on Unsplash

 

 

Laura Ressa

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Scritto da:

Laura Ressa

Classe 1986 🌻 Digital Marketing Specialist & Web Writer 🌻 Frasivolanti